Violetta Bellocchio

ARTICOLO n. 21 / 2025

ROBA DA DJINN

Pubblichiamo il testo di Violetta Bellocchio contenuto all’interno del catalogo Il Giardino di Fabrizio Albertini (Witty Books). Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Le conseguenze del desiderio avverato, naturalmente, sono cazzi di chi ha espresso il desiderio. Su questo un bravo djinn impara a sorvolare e sorridere. Pleasure doing business with youÈ un vero piacere fare affari con voi. Zero effetti collaterali, zero contraccolpi psichici. 

Il djinn – o djinni, variante al singolare, da cui il nome “Jeannie” per la protagonista di Strega per amore – il djinn ormai arriva in scena con il bang crash boom del suo effetto, no, nemmeno, arriva accompagnato da una spiegazione, con un personaggio minore esausto che dovrebbe fare da megafono alla trama, secondo le linee che l’autore vorrebbe tirare: “scordati Aladino, scordati Strega per amore, stiamo parlando di djinn, queste creature sono demoni, sono inarrestabili, sono inumani, sono” – 

Non lo so. Lo siamo? Cos’è quest’ansia di pareggiare presunti scompensi storici, di far tornare i conti togliendo di mezzo il genio della lampada eh-eh-eh allegro e incurante dei macelli che si lascia dietro, eh eh eh, e sterzando sulla revisione a tinte forti per delineare la nostra natura inumana e priva di freni? Pre-umana? Da dove viene questa brama di raccontare storie che dovrebbero essere finte ma lo stesso adeguate al folklore corretto per l’interpretazione di una leggenda? Teniamoci il djinn vecchio stile. Metà Novecento, diciamo. La nostra leggerezza giocosa. La nostra fatale joie de vivre per cui, sì, uno che cazzo può dirci. Facciamo avverare una manciata di desideri a caso. Non ti abbiamo dato esattamente quello che volevi? Uh-oh. Allora impara a scandire meglio. Allora chiedilo meglio, no. 

Diciamo che io sono una djinn di Natale. 

Il sangue migliora la cosa. Tagliati un dito, accidentalmente, spilla sangue sul pavimento butta sangue sulla tastiera, e chi si manifesta se non la donna che dice, ti darò tutto quello che chiedi e non ti informerò delle conseguenze. 

Di base, diciamo che io mi manifesto per esaudire i desideri di qualcuno all’oscuro di tutto quanto – no cristo che vuole adesso sto coglione – ah ma sei tu carissima! Cosa vuoi adesso: contratti, capelli morbidi e cotonati al naturale, sessantacinque pagine di affilato minimalismo in quattro giorni (notti escluse), bellezza fisica, pelle di diamante? Say no more, fam. Te ne do quanto ne vuoi. Di solito una volta terminata la transazione il djinn ha cura di allontanarsi dalla scena a passi spediti e con le mani sopra la testa, andare avanti: a volte io resto nei paraggi. Supervisiono, e mi godo la trasformazione immediata, lo sguardo del tizio che si volta e gira su se stesso per continuare a guardare la torcia umana a cui ho appena esaudito il primo il secondo il terzo desiderio. Fino a quando la situazione degenera, la gente comincia davvero ad appiccicarsi all’evocante, insiste per offrire da bere, parlare, cosa vuoi; ops!, cambiare posto, premere auricolari, ostentare non sento. Te ne vuoi andare. Okay, meno. Traghettiamo l’evocante a porte chiuse per un po’. L’evocante, nel pieno del lavoro, è una bellezza demoniaca (del resto ha chiamato una djinn). 

Comunque.

Capisci che è passato un djinn quando esistono tracce su nastro di un avvenimento enorme, che sembra totalmente organico, ma qualcosa ti dice che non lo è. Il brivido lungo la schiena ti dice che non è stato tutto tutto spontaneo e senza cuciture come appare. Hai una sensazione. È solo una sensazione. Ma adesso ci stai pensando

Il rapper Lil Jon, ciarliero e festante come un dio pagano, quindi preso benissimo, scende dalla scalinata più lunga in memoria della storia umana gridando YEAH e poi intonando un medley dei suoi più grandi successi (due) per confermare che lo stato della Georgia offre i propri delegati alla vice-presidente Kamala Harris. Quindi in un colpo solo, ne è testimone un filmato di repertorio della durata di due minuti e otto secondi, Lil Jon sta facendo ballare migliaia di persone a una convention di partito, e tutto il mondo intero si sta scrollando di dosso il cringe, ma proprio il cringe come categoria, non esiste imbarazzo non esiste più la paura di sembrare fuori tono fuori moda fuori registro rispetto all’approvazione di una giuria dei tuoi pari, esiste solo la felicità fisica di cantare Get Low e il dragone del cringe è stato decapitato, tra tutte le persone possibili, da un nativo della Georgia di nome Jonathan H. Smith, in arte Lil Jon, un tempo non lontano giudicato la peggior cosa mai successa alla musica da quando esiste la musica. 

Signori, questa è roba da djinn. 

Il rapper Kendrick Lamar decide che un singolo brano contro il nemico personale Drake non è sufficiente ad appagare la sua sete di vendetta, millenaria, e sa di poter contare su una notevole dose di carogna oltre che sul consolidato serbatoio del talento musicale, quindi non soltanto Kendrick prende e produce tre-quattro spietati brani contro Drake in rapida successione, ma ha il genio di produrne uno ballabile. Il mondo intero passa una caldissima estate con le braccia in aria a cantare e dimenarsi mentre sta suonando a massimo volume un pezzo dove Kendrick Lamar sta dando a Drake del pedofilo senza uno straccio di prova. E poi Kendrick ingrana la retro-marcia e gira un video musicale per il brano, ributtandolo in testa alle classifiche per un anno. Che sarà mai questa se non roba da djinn. 

Di tanto in tanto vado per conto mio. Una-due volte l’anno, tieniti. Perché da soli non facciamo avverare nulla, ma il corto-circuito ci sta che ci scappi uguale. 2019/2020, scrivo cinquanta pagine di un romanzo thriller su come si potrebbe motivare una folla di poveri cristi qualsiasi in maniera che siano loro a sferrare l’assalto a un palazzo del potere, mi fermo a quando le protagoniste stanno cercando di capire come manomettere l’impianto elettrico del palazzo, avanti veloce e meno di un anno più tardi sto guardando un colpo di stato in streaming. (E ci muore calpestata unex tossica della Georgia, una ragazzetta venuta apposta dalla Georgia per linsurrezione!) Delle due, l’una: ho previsto una strage oppure ho intercettato un mezzo pensiero di Steve Bannon, e gli avrò accidentalmente fatto da tramite. Whoops. My bad, fam

In compenso, su quest’altra, qualcuno dei nostri si dev’essere spaccato. Estate 2020 e qualcuno voleva togliersi dalle palle l’allora digital campaign manager di Donald Trump, tale Brad Parscale: voilà, ecco il video di Brad arrestato dalla polizia a casa sua, poliziotti che prima lo convincono a uscire mentre lui sta in mutande con una birra in mano a lamentarsi della moglie rompiscatole e poi, slam, lo sbattono sull’asfalto e lo arrestano, dal nulla. Il video diventa virale – ovviamente – ed è l’unico caso di body cam footage registrato dalla polizia che il mondo intero è contento di guardare e riguardare tutto tutto più volte. Pausa, riavvolgi, lo vediamo un’altra volta che mi fa tanto ridere? 

Contro-esempio: un tizio decide che vuole fare il Senatore, vuole diventare il nuovo senatore dell’Arizona, non versa il tributo, non chiede il desiderio: il tizio ci crede tantissimo ma siccome si chiama Blake Masters ed è convinto di sapere tutto per diritto di nascita (e sta anche pregando il dio sbagliato, il Cristo del Bitcoin), allora Blake fa l’errore vecchio come il mondo e gioca al risparmio: perciò realizza uno spot elettorale dove si vede lui da solo, nel deserto, che impugna una pistola sussurrando its German, “è tedesca”, e confidando alla telecamera quanto gli piacciano i silenziatori, mentre nell’inquadratura a favore di camera ci sono soltanto lui e un’automobile parcheggiata – per cui ti chiedi cosa diavolo ci potrà stare dentro quel bagagliaio a parte il proverbiale fracco di teste mozze non identificate. Lì io ti giuro che ho fatto un fermo-immagine del tizio da solo nel deserto con la pistola e ho scritto, se stai girando un video e nel tuo materiale compare uninquadratura simile, devi essere molto sicuro che non sia un omaggio a Man Bites Dog, e ho premuto il tasto “invia”. Potrei averci incrinato un rapporto umano con questa uscita, ma i rapporti umani vanno e vengono, e ogni tanto mi torna in mente che sono immortale. A cosa serve la vita eterna se non puoi toglierti lo sfizio di bruciare una casa.

A proposito

Forse non tutti sanno che lo spazio piatto sopra l’armadio della camera d’albergo è il cimitero dei regali non richiesti portati con mano tremante agli ospiti famosi dell’albergo nel corso degli anni. C’è di tutto là sopra: cataste di manoscritti inediti, ma anche oggetti preziosi, targhe commemorative, maglioni tessuti a mano con devozione, quadri, sculture e mosaici di artisti locali. (Le imprese di pulizie raramente controllano là sopra.) Non sarebbero “cianfrusaglie” o “detriti” perché qualcuno si stava adoperando per trovargli un posto: purtroppo quel posto è la discarica dei DVD che nessuno ti aveva chiesto di produrre, immagina di ricevere, grazie. 

Ora, tutto quel vortice di creatività, manoscritti, dipinti e sculture? Non guardare noi! Non ce li ho messi io: era solo qualcuno che voleva far avverare i propri desideri senza prima aver versato il necessario tributo alla creatura inumana stabilita secondo il protocollo. Peccato perdonabile, ma anche roba da dilettanti allo sbaraglio, bancarelle sagre toro meccanico giostra delle tazzine, mica da consumati professionisti capacissimi di evocare una djinn. 

Ad ogni modo. Non è che ti interessa diventare un dio? Perché se ti interessa diventare un dio nei ritagli di tempo, una soluzione ci sarebbe. Facile facile. Zero effetti collaterali, zero contraccolpi psichici. Dentro e fuori in cinque minuti e via. Esprimi un desiderio. 

ARTICOLO n. 78 / 2024

E POI È ARRIVATA LA REALTÀ

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo romanzo di Violetta Bellocchio, Electra (Il Saggiatore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Sono una di voi. Una come tanti. Sono al lavoro. Presento domanda per centinaia di incarichi, residenze, borse di studio.

Riordino il curriculum: si allunga l’attesa. Prendono qualcun altro. Non importa. Vado a guardare cosa cercano gli agenti, per amore dei vecchi tempi, solo per scoprire che oggi viene chiesto a noi di specificare quale sia la nostra piattaforma – il nostro pubblico, il nostro palcoscenico – e quale genere di campagna promozionale ci staremmo immaginando per un prodotto che siamo lontani dal consegnare. Ah, fate un podcast.

Ma che carini. Quanti ascolti per episodio? Diteci subito (età, sesso, posizione utenti). Mando centinaia di messaggi sperando che uno o due vengano aperti nell’arco di un mese. La posta elettronica potrebbe venir cancellata in blocco. Dato il volume della corrispondenza… La moda consiglia di avvisare in anticipo: il silenzio equivale al «no». Non siete adatti al ruolo. Forse siete dei cani, in effetti, ma non vi azzardate a chiedere un chiarimento (cosa non darei per una lettera di rifiuto copia e incolla. Sono bellissime).

Badate bene, andava tutto così quando ancora avevo una faccia. Il silenzio lo dovevano affrontare quelli che lavoravano per me. Essere un volto noto significa bruciarsi dalle tre alle otto ore al giorno nel vano tentativo di far cambiare idea su di te agli sconosciuti. Lo vedi? Non sono un mostro. Non sono la ragione portante dello schifo che fa la tua vita.

Forse potresti aggiustare la mira. Sorridi, ci metti il tocco personale. Li guardi negli occhi. L’onere della gentilezza casca sulle tue spalle (piccolo aneddoto: non mi pagavano mai). L’ultimo manager che ho avuto riusciva a piangermi al telefono, siamo sommersi, quando non stava lì a ridacchiare per disperazione oppure partiva con moglie e figli per una vacanza fuori stagione a Istanbul. E che cazzo ci fai in aereo, gli avevo detto, invece di dire quello che volevo dire: tu credi che la Morte smetterà di inseguirti se prendi l’aereo? 

Ogni posto di lavoro era sotto organico a un punto tale che il linguaggio stesso andava in frantumi. Se non scattava un’operazione di marketing articolata su più livelli attorno ai fatti del tuo corpo per dodici mesi dodici, niente rompeva il muro dell’indifferenza. Tu annegavi.

Si violavano i contratti, scadevano le opzioni. Nelle parole di un manager con cui non ho firmato: litighi per piazzare un artista, hai una porta in meno dove bussare per qualcun altro la settimana prossima. Eppure. Per un limitato numero di stagioni posavo per servizi fotografici, venivo intervistata a tu per tu. Perché? Avevo due o tre caratteristiche di quel personaggio – donna, giovane, la fama la incuriosisce, vuole sembrare bella, bella da pigliarsi la vendetta – e correvo dietro alla promessa implicita dell’annullamento che sarebbe derivato dal trasformarmi in un pezzo di carta.

Fingevo di essere consenziente – fingevo di essere disponibile alla messa in commercio del mio volto e del mio nome, pensavo di stare tirando la prima pietra, pensavo a un attacco preventivo di quelli che faceva Colin Farrell all’inizio della sua carriera – mentre in realtà mi stavo prestando a qualsiasi opportunità promozionale, non importa quanto déclassé, perché sapevo che nel minuto in cui si sarebbero smorzate le chiacchiere sul mio conto non avrei lasciato traccia. Bionda stupida.

Nell’accettare che considerevoli porzioni della mia immagine venissero determinate da questo o quel professionista che si credeva più furbo di me, stavo svendendo all’asta la mia capacità di produrre lavoro in maniera professionale. Ogni apparizione pubblica ti stacca un morso di carne dal collo. Poi un giorno stai buttando sangue e il tuo ufficio stampa ti abbaia, perché non sei felice! Dietro le quinte vedi persone che tremano fuori fuoco. Le loro immagini stanno avendo problemi tecnici.

Se ti pagano dieci milioni di dollari a botta, forse riesci a procurarti gli strumenti per rimediare all’assenza di individualità. Costruisci un te stesso segreto, niente codice, indecifrabile. Ti infili la maschera dell’attore alle prime luci dell’alba; metti insieme una bambola, la bambola si muove.

Sono stata una stella per cause di forza maggiore. Poi mi sono lasciata credere morta. Era più facile che andare avanti a vivere. Mi sono presa un nuovo nome e ho lavorato con quello. C’erano stati problemi relativi alla sicurezza in carne e ossa di cui non si riusciva a venire a capo, minacce di cui non mi sarei liberata una volta per tutte, se non cambiando radicalmente stile di vita. Una storia come tante nella categoria storia triste piangi piangi – di una donna in pericolo non importa a nessuno – e non è stato nemmeno quello il punto di non ritorno per me. Il pulsante «scomparsa» l’ho premuto quando ho capito che non avevo mai fatto niente di quello che volevo fare. Non una cosa.

Soltanto quello che veniva offerto per sfida o per scherzo da gente più vecchia e più ricca di me, pochi avanzi sul pavimento per vedere chi aveva più fame: una continua guerra disincantata che prendeva una persona e la faceva diventare una ferita d’arma da taglio.

Chi è nato e cresciuto nell’esercito dei fantasmi non prova simpatia per l’invisibilità come scelta – anzi, magari viene a chiedere a te cos’hai fatto di male, se hai preferito l’auto‑esilio al concreto rischio di mostrare un viso sempre più cattivo e più scavato in tempo reale. Come se il panopticon non arrivasse per tutti.

I legami sono stati tranciati. I telefoni, gettati. Gli abiti indossati a favore di camera sono finiti nei bidoni delle parrocchie. Ho vissuto irreperibile per dodici mesi, senza saltare un anacronismo – il mio nome d’arte l’ho preso da una strada statale – e ho cominciato a scrivere quando stavo diventando un’altra persona dalla testa ai piedi. Ho fatto in modo che Violetta non la trovasse nessuno: ho deciso che non mi sarei fidata, e quindi, come nella migliore tradizione, a metà dell’opera mi sono rilassata per trenta secondi e mi sono affezionata a Daniel, l’unico che qualcosa di me la sapeva.

La cotta, in sé, è stata un’esperienza fuori dal corpo, dall’eccitazione alla tensione al terrore è stato un attimo: mi sono allontanata dallo schermo del portatile la prima volta che lui mi ha chiamato darling. In un lampo avevo dodici anni e la bocca che bruciava. Oh no. 

Voglio stare con lui. Cos’ho fatto.

Sia data la colpa a me. Che Daniel vivesse per smontare i ricchi e i famosi dal divano di casa sua, avevo scelto di ignorarlo. Che Daniel fosse un contatto incrociato e tenuto a bordo senza la più pallida idea del come, o perché, lo attribuivo alla piacevole casualità delle relazioni a distanza prima dell’avvento dei social network. Che Daniel fosse un aspirante scrittore, quello sì rendeva speciale la nostra corrispondenza. Eravamo sullo stesso piano: ci scambiavamo consigli; materiale inedito, alla fine.

Lui mi segue ancora. Deve aver premuto il tasto «mute» sei mesi fa, forse prima – a Natale. Se siete già stati qui, l’assenza di interazione racconta tutta la storia. Per come la vedevo io, Daniel mi aveva bloccato. Ci poteva stare. Quando mi sono accorta che non era proprio così – riuscivo a leggere i suoi commentini, avrei avuto il permesso di rispondere agli aggiornamenti per soli amici che mi schizzavano accanto in tempi di elevata angoscia politica –, lì ho pensato che lui avesse chiuso con me, allora ho rispolverato i classici del mestiere: evitare con garbo, fermarsi a esaminare il dolore spento di un bersaglio mancato, farsi domande del tipo, cosa ci ho mai trovato in questo, per caso sta uscendo con qualcuno – lui vede mai quello che sto facendo adesso?

E poi è arrivata la realtà: certo che non lo vede. Daniel non mi rivolge la parola da quasi un anno, ma potrebbe sempre decidere che io merito di essere ascoltata, se e quando mi rimette in viva voce.