Violetta Bellocchio

ARTICOLO n. 78 / 2024

E POI È ARRIVATA LA REALTÀ

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo romanzo di Violetta Bellocchio, Electra (Il Saggiatore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Sono una di voi. Una come tanti. Sono al lavoro. Presento domanda per centinaia di incarichi, residenze, borse di studio.

Riordino il curriculum: si allunga l’attesa. Prendono qualcun altro. Non importa. Vado a guardare cosa cercano gli agenti, per amore dei vecchi tempi, solo per scoprire che oggi viene chiesto a noi di specificare quale sia la nostra piattaforma – il nostro pubblico, il nostro palcoscenico – e quale genere di campagna promozionale ci staremmo immaginando per un prodotto che siamo lontani dal consegnare. Ah, fate un podcast.

Ma che carini. Quanti ascolti per episodio? Diteci subito (età, sesso, posizione utenti). Mando centinaia di messaggi sperando che uno o due vengano aperti nell’arco di un mese. La posta elettronica potrebbe venir cancellata in blocco. Dato il volume della corrispondenza… La moda consiglia di avvisare in anticipo: il silenzio equivale al «no». Non siete adatti al ruolo. Forse siete dei cani, in effetti, ma non vi azzardate a chiedere un chiarimento (cosa non darei per una lettera di rifiuto copia e incolla. Sono bellissime).

Badate bene, andava tutto così quando ancora avevo una faccia. Il silenzio lo dovevano affrontare quelli che lavoravano per me. Essere un volto noto significa bruciarsi dalle tre alle otto ore al giorno nel vano tentativo di far cambiare idea su di te agli sconosciuti. Lo vedi? Non sono un mostro. Non sono la ragione portante dello schifo che fa la tua vita.

Forse potresti aggiustare la mira. Sorridi, ci metti il tocco personale. Li guardi negli occhi. L’onere della gentilezza casca sulle tue spalle (piccolo aneddoto: non mi pagavano mai). L’ultimo manager che ho avuto riusciva a piangermi al telefono, siamo sommersi, quando non stava lì a ridacchiare per disperazione oppure partiva con moglie e figli per una vacanza fuori stagione a Istanbul. E che cazzo ci fai in aereo, gli avevo detto, invece di dire quello che volevo dire: tu credi che la Morte smetterà di inseguirti se prendi l’aereo? 

Ogni posto di lavoro era sotto organico a un punto tale che il linguaggio stesso andava in frantumi. Se non scattava un’operazione di marketing articolata su più livelli attorno ai fatti del tuo corpo per dodici mesi dodici, niente rompeva il muro dell’indifferenza. Tu annegavi.

Si violavano i contratti, scadevano le opzioni. Nelle parole di un manager con cui non ho firmato: litighi per piazzare un artista, hai una porta in meno dove bussare per qualcun altro la settimana prossima. Eppure. Per un limitato numero di stagioni posavo per servizi fotografici, venivo intervistata a tu per tu. Perché? Avevo due o tre caratteristiche di quel personaggio – donna, giovane, la fama la incuriosisce, vuole sembrare bella, bella da pigliarsi la vendetta – e correvo dietro alla promessa implicita dell’annullamento che sarebbe derivato dal trasformarmi in un pezzo di carta.

Fingevo di essere consenziente – fingevo di essere disponibile alla messa in commercio del mio volto e del mio nome, pensavo di stare tirando la prima pietra, pensavo a un attacco preventivo di quelli che faceva Colin Farrell all’inizio della sua carriera – mentre in realtà mi stavo prestando a qualsiasi opportunità promozionale, non importa quanto déclassé, perché sapevo che nel minuto in cui si sarebbero smorzate le chiacchiere sul mio conto non avrei lasciato traccia. Bionda stupida.

Nell’accettare che considerevoli porzioni della mia immagine venissero determinate da questo o quel professionista che si credeva più furbo di me, stavo svendendo all’asta la mia capacità di produrre lavoro in maniera professionale. Ogni apparizione pubblica ti stacca un morso di carne dal collo. Poi un giorno stai buttando sangue e il tuo ufficio stampa ti abbaia, perché non sei felice! Dietro le quinte vedi persone che tremano fuori fuoco. Le loro immagini stanno avendo problemi tecnici.

Se ti pagano dieci milioni di dollari a botta, forse riesci a procurarti gli strumenti per rimediare all’assenza di individualità. Costruisci un te stesso segreto, niente codice, indecifrabile. Ti infili la maschera dell’attore alle prime luci dell’alba; metti insieme una bambola, la bambola si muove.

Sono stata una stella per cause di forza maggiore. Poi mi sono lasciata credere morta. Era più facile che andare avanti a vivere. Mi sono presa un nuovo nome e ho lavorato con quello. C’erano stati problemi relativi alla sicurezza in carne e ossa di cui non si riusciva a venire a capo, minacce di cui non mi sarei liberata una volta per tutte, se non cambiando radicalmente stile di vita. Una storia come tante nella categoria storia triste piangi piangi – di una donna in pericolo non importa a nessuno – e non è stato nemmeno quello il punto di non ritorno per me. Il pulsante «scomparsa» l’ho premuto quando ho capito che non avevo mai fatto niente di quello che volevo fare. Non una cosa.

Soltanto quello che veniva offerto per sfida o per scherzo da gente più vecchia e più ricca di me, pochi avanzi sul pavimento per vedere chi aveva più fame: una continua guerra disincantata che prendeva una persona e la faceva diventare una ferita d’arma da taglio.

Chi è nato e cresciuto nell’esercito dei fantasmi non prova simpatia per l’invisibilità come scelta – anzi, magari viene a chiedere a te cos’hai fatto di male, se hai preferito l’auto‑esilio al concreto rischio di mostrare un viso sempre più cattivo e più scavato in tempo reale. Come se il panopticon non arrivasse per tutti.

I legami sono stati tranciati. I telefoni, gettati. Gli abiti indossati a favore di camera sono finiti nei bidoni delle parrocchie. Ho vissuto irreperibile per dodici mesi, senza saltare un anacronismo – il mio nome d’arte l’ho preso da una strada statale – e ho cominciato a scrivere quando stavo diventando un’altra persona dalla testa ai piedi. Ho fatto in modo che Violetta non la trovasse nessuno: ho deciso che non mi sarei fidata, e quindi, come nella migliore tradizione, a metà dell’opera mi sono rilassata per trenta secondi e mi sono affezionata a Daniel, l’unico che qualcosa di me la sapeva.

La cotta, in sé, è stata un’esperienza fuori dal corpo, dall’eccitazione alla tensione al terrore è stato un attimo: mi sono allontanata dallo schermo del portatile la prima volta che lui mi ha chiamato darling. In un lampo avevo dodici anni e la bocca che bruciava. Oh no. 

Voglio stare con lui. Cos’ho fatto.

Sia data la colpa a me. Che Daniel vivesse per smontare i ricchi e i famosi dal divano di casa sua, avevo scelto di ignorarlo. Che Daniel fosse un contatto incrociato e tenuto a bordo senza la più pallida idea del come, o perché, lo attribuivo alla piacevole casualità delle relazioni a distanza prima dell’avvento dei social network. Che Daniel fosse un aspirante scrittore, quello sì rendeva speciale la nostra corrispondenza. Eravamo sullo stesso piano: ci scambiavamo consigli; materiale inedito, alla fine.

Lui mi segue ancora. Deve aver premuto il tasto «mute» sei mesi fa, forse prima – a Natale. Se siete già stati qui, l’assenza di interazione racconta tutta la storia. Per come la vedevo io, Daniel mi aveva bloccato. Ci poteva stare. Quando mi sono accorta che non era proprio così – riuscivo a leggere i suoi commentini, avrei avuto il permesso di rispondere agli aggiornamenti per soli amici che mi schizzavano accanto in tempi di elevata angoscia politica –, lì ho pensato che lui avesse chiuso con me, allora ho rispolverato i classici del mestiere: evitare con garbo, fermarsi a esaminare il dolore spento di un bersaglio mancato, farsi domande del tipo, cosa ci ho mai trovato in questo, per caso sta uscendo con qualcuno – lui vede mai quello che sto facendo adesso?

E poi è arrivata la realtà: certo che non lo vede. Daniel non mi rivolge la parola da quasi un anno, ma potrebbe sempre decidere che io merito di essere ascoltata, se e quando mi rimette in viva voce.