ARTICOLO n. 27 / 2025
ORESTE SFUGGE ALLE ETICHETTE
a proposito di Domenico gnoli
Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) ha dipinto tanto, vissuto troppo poco, pubblicato un solo libro. È una fiaba, e racconta la storia di un principe che non sapeva sorridere. All’epoca, Gnoli viveva a New York (che avrebbe poi lasciato per tornare a Roma e approdare infine a Mallorca, dove avrebbe vissuto gli anni forse più liberi e intensi della sua breve vita). Scrisse il testo in inglese, e le venti tavole illustrate che accompagnavano la storia vennero esposte alla Bianchini Gallery (la stessa dove, tre anni dopo, Andy Warhol avrebbe venduto a due dollari ciascuna le sue famose tote bag con il disegno della zuppa Campbell).
Pubblicato nel 1961 da Simon & Schuster (e stampato a Milano da Amilcare Pizzi), Oreste & the art of smiling fu un grande successo di critica e di pubblico. Newsweek lo definì “opera dell’anno”, il libro fu ristampato innumerevoli volte, venduto sia negli Usa che in Italia, ma non uscì mai tradotto in italiano.
A riportarlo in vita ci ha pensato il Saggiatore. Ogni pagina, scritta o dipinta, di questa fiaba conduce in luoghi sorprendenti. Prima di tutto, per una questione stilistica: quando si nomina Gnoli, subito si pensa subito alle sue tele materiche e sabbiose, porzioni o dettagli di oggetti solitari, angoli di figure immobili. Tavolini disabitati, bottoni slacciati, trapunte immobili o letti disfatti. Ricci scolpiti, colletti immacolati, sofà dimenticati. Non deserti, ma abbandonati, e comunque vuoti. E invece un’opera come Oreste ci ricorda, che Gnoli, oltre che pittore del cosiddetto iperreale, è stato anche illustratore mirabolante e quasi rinascimentale per tematiche, coralità, fantasia di universi.
Chi ha avuto la fortuna di visitare la sontuosa retrospettiva che la Fondazione Prada gli dedicò un paio di anni fa, non può aver dimenticato la vertigine che si provava quando dal piano terra si saliva al primo. Lì la pittura lasciava il posto all’opera illustrata, ed era come approdare su un altro pianeta, altrettanto misterioso, ironico, ossessivo. Ma diametralmente opposto al primo. Un universo affollato, fatto di teche, leporelli, tavole e schizzi, in cui contrasti e colori sfumavano, in cui il silenzio non esisteva. Tra disegni per riviste, illustrazioni editoriali, bozzetti teatrali, studi di teatrini, di palchi e di corride, era tutto un affastellarsi, un sovrapporsi, rincorrersi, un fiorire. Non esiste alcuna contraddizione in questo: vuoti e pieni, nell’opera di Gnoli, sono parte dello stesso movimento, e si direbbe che solo nel mezzo non ci sia nulla. Come se la vita – e l’arte – per lui fossero possibili soltanto ai due poli estremi, nella liturgie solitarie o nella feste dell’abbondanza.
Per atmosfere e stile, quella di Oreste è una fiaba cinquecentesca (“ariostesca”, la definì a suo tempo Sgarbi in un testo pubblicato su FMR). Degno figlio del teatro, Gnoli presenta i personaggi come in un apertura di una pièce, li descrive e li disegna uno per uno abbarbicati in cima a un albero, poi dice che ci sono due che non sa chi siano: un bassotto chiamato Marcantonio, e un uomo che dorme sotto una quercia. “Sono venuti da altre storie”, scrive, “me ne libererò subito”, ma naturalmente non lo fa, e il bassotto Marcantonio difatti ogni tanto ricompare, fa capolino tra le pagine con ottusa tenerezza.
Oreste è sovrano di Terramafiusa, un piccolo principato nascosto “tra le montagne dell’Europa centrale”. È cresciuto con sua nonna, la dispotica Palmira, che ne stava distesa su venti materassi e non faceva altro che parlare col suo unico amico, il pappagallo Lucien. I due litigavano talmente tanto e facendo così tanto chiasso che, dopo la sua morte, Oreste ha fatto rinchiudere Lucien e ha dato ordine che a Terramafiusa regnasse il silenzio. Ha inseguito la quiete così tanto che ha impedito perfino agli uccelli di cantare, ed è diventato un giovane solitario e malinconico. Di solito le fiabe raccontano di qualcuno che torna a sorridere. Oreste a sorridere invece deve invece cominciare. Non lo ha mai imparato, è diventato grande senza sapere come si fa. Non sa sorridere e dunque non sa amare, o viceversa. Difficile quale sia l’ordine corretto. Questa, comunque, è la storia di come imparerà sia l’una che l’altra cosa.
Come tutta la produzione di Gnoli, anche Oreste sfugge alle etichette, è inclassificabile nella più felice accezione che questa definizione può avere. A metà strada tra il fairy tale e il libro d’artista, è a suo modo anche un archivio tassonomico (di sorrisi), un diario segreto travestito da favola. I suoi colori, il seppia, il cilestrino, il paglierino, il bianco, non sono, del resto, colori da bambini, ma colori del sogno, quello sì. Nelle sue pagine abbondano alberi e mongolfiere, materassi e gabbie vuote, studi anatomici e armadi vuoti, frasi crudeli e scorci lunari. Per innamorarsene basterebbero anche i delicati, commoventi, innumerevoli sorrisi. Clericale, infantile, placido, furbetto, voluttuoso, militare, enigmatico, seduttivo, astuto, repubblicano, etrusco, tra i tanti. Gnoli, che era maestro nel ritrarre le figure voltate di schiena, li ha disegnati uno a uno, in cerca di quello di Oreste. E forse anche del suo.
Nel 1961, da New York, scrisse all’amico a Ted Riley: gli racconta che l’editore non gli rispondeva ormai da qualche settimana, e lui era preoccupato per l’invio in stampa il volume, e preoccupato anche di cercare per l’opera editore italiano (avrebbe dovuto essere Bompiani, ma poi, per l’appunto, non se ne fece più nulla): “Forse è stato tutto uno strano sogno”, scrive in chiusura alla sua lettera, “New York, il libro, tu, persino i miei dipinti e disegni; ed è meglio se mi risveglio e torno nella realtà! Forse sono un bancario, o un agente di vendita che ha mangiato (forse bevuto) un po’ troppo e ha sognato tutto, a causa di una cattiva digestione.” Anche qui, non esistono vie di mezzo, da poeta a bancario, per lui, non v’era che un passo. All’epoca, Gnoli aveva ventotto anni. Era sposato con la modella Luisa Ghilardenghi, aveva illustrato la prima edizione inglese del Barone rampante (uscito nel 1958). Ed è impossibile non pensare a Cosimo di Rondò quando ci troviamo di fronte alla presentazione dei personaggi arrampicati su un albero. O quando ci parla della selvatica e amorosa Violante, che “si era tolta le scarpe perché le piaceva la sensazione dell’erba sotto i piedi”. A New York era arrivato tre anni prima. Lavorava già da anni come illustratore ed era uno scenografo affermato a livello internazionale. Ma sia professionalmente che a livello personale, non aveva ancora trovato la sua strada: “Sono nato sapendo che sarei stato pittore, perché mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile. Mi dirigeva verso la pittura italiana classica, contro cui reagii ben presto, ma non ho potuto dimenticare il sapore e la pratica del Rinascimento.” Gli anni americani furono per lui un decisivo tornante prima del grande, forse vero nuovo inizio. Gli anni in cui, dopo aver reagito contro quello che non voleva essere, si sarebbe diretto verso quello che voleva diventare.
Nato a Roma il 3 maggio 1933 da una madre francese ceramista e un padre italiano storico dell’arte, Domenico Gnoli aveva trascorso i primi anni tra Roma e Spoleto. A vent’anni si era trasferito a Parigi, dove aveva cominciato a lavorare per il teatro. Quella come scenografo sarebbe ormai stata, a quel punto, una carriera avviata, ma Gnoli detestava il lavoro di gruppo che il teatro ovviamente implicava, e soffriva sempre più le mondanità e i continui viaggi che ancora una volta di quel mestiere facevano parte. Proprio a New York inizierà a dedicarsi a fondo alla pittura. Mischierà tempera e sabbia, sperimenterà, studierà e si lascerà influenzare dall’opera di Carrà e quella di Morandi, entrerà, tra gli altri, in contatto con Cecil Beaton, e il suo modo di vedere lo spingerà a scegliere cadrages sempre più serrati e arditi per le sue tele. Sarà l’inizio di un lungo processo di liberazione che lo porterà via dalla città e dalla sua prima moglie: prima con un temporaneo ritorno a Roma e poi verso le rive assolate di Dejà, Mallorca, in compagnia di quella che diventerà la compagna per il resto della sua vita, la pittrice Yannik Vu. I due si stabiliranno a la Estaca, bianca residenza di ispirazione siciliana affacciata sulla costa di Valldemosa, che l’arciduca Ludovico Salvatore aveva costruito per la sua amante, e che da molti anni è proprietà di Michael Douglas. Proprio da Mallorca, nel 1963, in una lettera alla madre, Gnoli scriverà:
Dipingo come mi pare senza più preoccuparmi della cultura del secolo e delle mie responsabilità verso di essa, e allo stesso modo intendo vivere: libero e fedele solo a quel tanto o poco di vero che mi sento adesso. La vita comincia adesso; finora ho tremato davanti a troppe cose: la scuola, gli amici, la pittura moderna, il socialismo, il matrimonio, la cultura, la maturità, la responsabilità […]. Al mondo esiste il mare, esisto io con il mio talento per dipingere e anche (perché no?) con il mio talento per vivere […] esiste un’umanità che mi commuove e mi diverte ogni giorno, i pesci e allora anche se ci sono tanti problemi irrisolvibili, tante esperienze difficili, soprattutto tante delusioni, allora pazienza…
Ecco un’altra, decisiva ragione per cui scoprire Oreste fa tanto effetto. Come le migliori fiabe, inventa un modo che ci parla della nostra stessa vita. Di quanto quello che desideriamo definisce quello che siamo, di quanto quello che pensiamo di avere sia in realtà quello che ci manca. Proprio come Oreste, anche Gnoli in un certo senso sembra aver imparato a vivere soltanto da grande, poco prima che fosse troppo tardi. E non è un caso, forse, che proprio in queste pagine spunti discreto l’unico autoritratto che ha lasciato di sé: anche lui, come il bassotto Marcantonio, si è intrufolato nel paesaggio: lo si vede in alto a destra, nella doppia di apertura dedicata alla presentazione dei personaggi. Abita la scena con discrezione, quasi con timidezza, ma è lui, proprio lui, lo sguardo malinconico e arguto, sempre pronto allo stupore, e certo senza poter immaginare il futuro, sembra già dire cercatemi dove volete, tra le trapunte, nei riccioli, nelle pieghe del tweed, ma io sono anche e resterò soprattutto qui, perché non c’è altro luogo in cui potrei andare che in questa terra libera che io stesso ho immaginato e perché non esiste, dopotutto, altra patria che l’infanzia.