ARTICOLO n. 17 / 2025
LEGGENDO “HORCYNUS ORCA”
Pubblichiamo un estratto dallo scritto di Giorgio Vasta per la nuova edizione di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo pubblicata da Rizzoli con la storica introduzione di Walter Pedullà e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.
Mentre leggo Horcynus Orca mi torna in mente una pagina di Il gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson. Descrivendo gli incredibili reperti conservati presso il Museum of Jurassic Technology di Culver City, Los Angeles, Lawrence Weschler concentra la sua attenzione su una teca di vetro nella quale, in cima a un sottile sostegno, è visibile il nocciolo di un frutto; su un lato del nocciolo, come chiarisce una didascalia, è intagliato «un paesaggio fiammingo con un uomo barbuto che indossa la berretta, una lunga tunica di foggia classica e scarpe dalle spesse suole; l’uomo è seduto con una viola tra le ginocchia e ne tempera una delle corde»; sullo sfondo del paesaggio ci sono un leone e un orso, un elefante che sulla groppa regge una scimmia, e poi un verro, un cane, un asino e parecchi altri animali ancora; sull’altro lato del nocciolo è cesellata «una Crocifissione insolitamente cupa, con un soldato a cavallo e Longino che trafigge con la lancia il costato di Gesù».
Per rendere indubitabile il carattere fantastico della collezione ospitata nel museo, Weschler indica anche le misure del nocciolo: 13 millimetri di lunghezza e 11 di larghezza; poco dopo racconta di un’ulteriore esposizione presente nelle sale del museo: trenta sculture in miniatura, rifinite attraverso tecnologie micrometriche nei dettagli più impercettibili, collocate all’interno o sul perimetro esterno delle crune di altrettanti aghi da cucito – tra i soggetti raffigurati Weschler menziona Napoleone, Cappuccetto Rosso, Giovanni Paolo II, «Gesù Cristo crocifisso su una croce d’oro».
Ogni parola di Horcynus Orca è un nocciolo, ogni parola è una cruna. Materia e lacuna. Horcynus Orca è un romanzo intagliato nella materia e nelle lacune. C’è l’abnorme nel minuscolo, ciò che è smisurato sta in una particola di vuoto. In ogni singola parola di Horcynus Orca Stefano D’Arrigo ha intagliato l’intero romanzo.
Tutto se ne sta inscritto in una sostanza – ogni singola parola – che non è propriamente un nulla, bensì qualcosa di casuale e magnificamente infimo: un nonnulla; le parole sono come la cicirella che risale a galla quando l’orca affiora: «quei nonnulla di pesci, minutaglia bianca ancora con gli occhi chiusi, miria e miria di pescicelli corazzati dall’enimma della loro nascita». In Horcynus Orca le parole sono quell’arcano di vita che esiste sempre in legame, se non in compenetrazione, con un arcano di morte: «i pescicelli della vita pullulanti nella piaga incarognita, dentro il fianco cavernoso della Morte».
Leggendo Horcynus Orca si legge il nocciolo, si leggono le crune, i nonnulla. Osservando le cosiddette bozze aquilone – non da una prospettiva filologica bensì grafico-pittorica – si ha la sensazione che D’Arrigo scriva reagendo a tutto ciò che nella pagina si fa percepire come vuoto. C’è un vuoto, strutturalmente visibile, tra le parole, e c’è un vuoto anche all’interno di ogni parola e ci sono ancora altri vuoti – crune, fori, spiragli – nelle lettere che costituiscono le parole.
D’Arrigo scrive nei vuoti e contro i vuoti e per i vuoti. La sua immaginazione non fa che reclutare ancora una nuova immagine, e poi un’altra e un’altra – miria e miria; la frase si mette a spiralare in direzioni diverse: D’Arrigo scrive tra, infra – lo scill’e cariddi è ovunque – e scrive sopra e sotto la scrittura: scrive dentro: inscrive. La punta della penna – lo stiletto dell’immaginazione – scalfisce i noccioli e precipita nelle crune; la scrittura graffia, crepita, ronza; fruga le pieghe.
D’Arrigo scrive nelle rughe di quel nocciolo che è la lingua – e scrive piegandola, deformandola e riformandola. La scrittura monta, sormonta e sprofonda – si inabissa. Il romanzo prende forma per esasperazioni della forma. Concresce, si azzera, gemma, si cancella. Il romanzo è un gesto, un movimento insieme preterintenzionale e coerente: rabdomantico; letteralmente, in Horcynus Orca la scrittura si muove in cerca dell’acqua: la cerca, la trova, la inventa, ne fa un assedio.
La scrittura di D’Arrigo inventa l’acqua per rendere percepibile che viaggiare per acqua non ha lo scopo di mantenere salda la rotta bensì di fare naufragio. Leggere Horcynus Orca vuol dire anche trascorrere del tempo nel naufragio. Lungo la traiettoria delle frasi si avverte lo sgomento di non riuscire più a individuare dov’è il nord, dov’è il sud, dove sono finiti l’est e l’ovest; ma c’è anche l’euforia suscitata dall’occasione di non sapere più, finalmente, dove ci si trova. Se buona parte della nostra esperienza letteraria si fonda su un presupposto topografico – la nitidezza della trama permette al lettore di sapere sempre dove si trova: in quale spazio e in quale tempo e in quale logica –, al cospetto di Horcynus Orca arriva un momento in cui lo sguardo di chi legge, dibattendosi nell’esondare delle frasi, intravede pinne a falcetto e code di bestia, senza poter avere idea non solo di quali siano lo spazio e il tempo e la logica che governano la scrittura, ma, prima ancora, di quale senso abbiano queste domande.