ARTICOLO n. 56 / 2025
FRANZ KAFKA E IL FITNESS
di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato.
«Con un corpo così non si può raggiungere niente».
La fragilità esistenziale, l’insicurezza, l’incapacità a vivere come gli altri Franz Kafka le percepisce non solo dentro di sé ma anche attraverso sé, attraverso quel corpo lungo, magro e cagionevole, così diverso da quello possente di suo padre, descritto nella famosa lettera (che il destinatario non leggerà mai): «Ero oppresso già dalla tua semplice presenza corporea. Per esempio mi ricordo come spesso ci spogliavamo insieme in cabina. Io magro, debole, sottile; tu forte, alto, aitante. Già in cabina mi facevo pena da solo, e non soltanto davanti a te, ma davanti al mondo intero, perché tu eri per me la misura di tutte le cose».
L’ossessione per il corpo è un tema centrale non solo nella vita (associare il termine “vita” all’alieno FK suona come un ossimoro…), ma anche nell’opera di Kafka, basterebbe leggere i preziosissimi appunti nei Diari in cui si accumulano dettagli di corpi incrociati per strada, nelle stazioni, nei caffè, con una minuzia che rasenta il referto medico.
Nel 1903, a Dresda, durante il primo dei numerosi soggiorni nei sanatori che lo vedranno ospite (questo ben prima che gli venga diagnosticata la tubercolosi), Franz Kafka apprende alcune nozioni salutistiche che adotterà lungo l’intero corso della sua vita. Il sanatorio Cervo bianco, che oggi si definirebbe piuttosto un “centro benessere” (non era infatti necessario essere malati per soggiornarvi), era alquanto noto e parecchio costoso (fra gli ospiti figurano anche Rainer Maria Rilke e Thomas Mann). Lo dirigeva Heinrich Lahmann, autorità nel campo della medicina naturopratica, inventore di una miscela esportata negli Stati Uniti da lui denominata “latte vegetariano” (un composto a base di soja, mandorle e avena) e inoltre promotore di una terapia sperimentale che prevedeva idroterapia, “bagni d’aria e di luce” in cabine appositamente progettate, e l’integrazione di una dieta a base di alimenti crudi da masticare cento volte prima di essere deglutiti (metodo Fletcher), regime che il giovane Franz impose al suo rientro a casa causando non poca irritazione in suo padre (e qui non posso fare a meno di proiettarmi con la fantasia attorno al desco di casa Kafka per osservare l’espressione disgustata del severo Herman di fronte all’imperterrita ruminazione del fanatico figlio).
Un’altra abitudine appresa al Cervo bianco consisteva nella pratica quotidiana di esercizi di ginnastica da effettuare rigorosamente a finestre spalancate, anche durante l’inverno, nonché la regola di dormire su superfici rigide, usanza che invece fece perdere la pazienza alla domestica di casa Kafka, costretta a riposizionare sul letto il materasso che Franz aveva nottetempo gettato a terra. Il regime vegetariano, al limite del monastico, per il quale K. non ammette deroghe (mandorle, noci, latte acido e insalata perlopiù) contraddiceva, come d’altronde molte altre cose che lo riguardano, il desiderio di irrobustire un fisico la cui magrezza gli provoca afflizione:
«Il mio corpo è troppo lungo per la sua debolezza» scrive (e qui mi commuovo…), «non ha il minimo grasso per generare un benefico calore, per la conservazione del fuoco interno, nessun grasso di cui lo spirito possa nutrirsi oltre il suo bisogno quotidiano senza danneggiare l’insieme». Lo sport sembra essere la sola speranza: e allora lunghe nuotate nella Moldava spesso risalita in kayak, escursioni in bicicletta, partite a tennis insieme all’amico Max Brod, talvolta improvvisate nelle piazze di Praga. E poi il cavallo, altra passione (quanti cavalli nei racconti di K…). Ogni occasione è buona per esercitarsi, ecco cosa scrive in una delle centinaia di lettere inviate alla fidanzata Felice Bauer: «Per amor tuo sarei capace di moderare perfino la corsa per le scale. Ho infatti l’abitudine – è l’unico sport che esercito inventato da me – di scendere le scale a precipizio, terrore di tutti quelli che salgono».
Tuttavia nessuna di queste discipline lo impegna quotidianamente, K. avrebbe necessità di un allenamento regolare, una rigida tabella di marcia da seguire scrupolosamente, gli esercizi appresi al Cervo Bianco hanno esaurito il loro fascino. Dopo varie ricerche K si procura il manuale di esercizi del culturista Eugene Sandow, un precursore del bodybuilding, famoso per prove di forza fuori dal comune: capace di piegare sbarre di ferro, spezzare catene, sostenere il peso di un cavallo sul torace (!), riusciva addirittura a sollevare un pianoforte… K. si rende conto ben presto di non essere dotato di «un’abilità che si trovava più facilmente al circo che in un sanatorio», come scrive sarcasticamente Rainer Stach nella monumentale biografia dedicata allo scrittore boemo, e giocoforza ripiega su un altro manuale, ben più adatto alle sue possibilità. A convincerlo è la lettura di uno dei capitoli dell’opuscolo, che sembra essere stato concepito apposta per lui…: «Il tipo da ufficio comunale è spesso un triste fenomeno prematuramente piegato, con spalle e fianchi sconnessi dalla sua posizione dislocante sullo sgabello dell’ufficio, pallido, con viso brufoloso e testa impomatata, collo sottile che sporge da un colletto che un uomo normale potrebbe usare come polsino… A un’età avanzata lo spettacolo è ancor più miserabile, gli occhi sono spenti e l’aspetto generale ulteriormente infossato e avvizzito, oppure flaccido e ingrigito, avvolto in un odore di carta vecchia e alito cattivo…». È quanto scrive il danese Jørgen Peder Müller, insegnante di ginnastica, nel volume My system (Il mio metodo), nel quale promette di trasformare il corpo di chiunque in quello di un dio greco, con soli quindici minuti di esercizi quotidiani.
Vi si trova anche un piccolo richiamo rivolto ad artisti e scrittori, «geni che non hanno pensieri per i loro corpi», ai quali garantisce benefici sorprendenti. A dimostrazione della sua tesi Müller si esibisce in performance pubbliche durante le quali illustra gli esercizi a corpo libero.
Nel 1906, a Praga, nell’imponente sala degli specchi del Palazzo Tedesco, Müller si presenta a piedi scalzi, seminudo: indossa un minuscolo perizoma bianco e nient’altro. Il fisico scolpito è la sua carta vincente. La prima cosa che fa è spalancare le enormi finestre del salone, poi comincia a roteare velocemente le braccia per riscaldare i muscoli. La sala è gremita di spettatori, semplici curiosi, donne (molte donne…), ma anche medici e professionisti. Fra loro c’è anche Franz Kafka, che riconosce in quel biondo alto quasi due metri l’esempio da seguire. Da quel giorno adotta come proprio il motto di Müller: «Non lasciare che passi un giorno senza che ogni muscolo e ogni organo del tuo corpo siano messi in movimento».
L’esposizione del corpo in libertà (pensiamo a quell’epoca…), scandalizza buona parte dell’opinione pubblica, ma trova nello scrittore un ulteriore elemento di identificazione, non dimentichiamo che proprio in quegli anni K. trascorse un breve soggiorno in una comunità di nudisti. I precetti indicati sul manuale Müller diverranno una ferrea abitudine per oltre un decennio: nudo di fronte alla finestra, Kafka ripete scrupolosamente gli esercizi due volte al dì. Ne è talmente entusiasta che quando Müller, forte del successo (milioni di copie vendute in tutto il mondo), pubblica un nuovo manuale rivolto alle donne, My system for ladies, K. scrive a Felice: «Presto ti invierò il sistema Müller per donne, e tu comincerai (me lo hai promesso non è vero?), lentamente, sistemicamente, prudentemente, minuziosamente a fare gli esercizi ogni giorno, e me ne renderai conto sempre, dandomi grande gioia». E quando Felice risponde, probabilmente manifestando un tiepido interesse per la proposta (non si conoscono le lettere di Felice Bauer, l’epistolario di oltre ottocento pagine è unidirezionale), Franz la incalza: «Se gli esercizi ti annoiano significa che non li esegui correttamente».
Sul sito del Danish Film Institut esistono dei gustosissimi filmati di Jørgen Müller in persona che illustra, col solito perizoma bianco e con grande lungimiranza sui futuri mezzi di divulgazione, la pratica del suo famoso metodo, un mix fra Pilates e calisthenics. Un vero antesignano dell’home fitness.
Non nascondo di essermi cimentata in alcuni esercizi, spinta più che altro dal feticismo che mi lega a FK, ma non avendo avuto il coraggio di esercitarmi nuda davanti alla finestra spalancata e temendo una sua reprimenda dall’aldilà, ho mollato subito. Come Felice.