Tommaso Ragno

ARTICOLO n. 3 / 2023

NOTIZIE DAI BUCHI NERI

L'anno che verrà

Fine novembre 2022. O giù di lì.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sull’anno che verrà. 

Ho risposto, da sconsiderato che sono: «sì, ci sto, ti ringrazio!»

E subito dopo mi sono sentito in una posizione temporale falsata.

8 dicembre. Premessa escatologico/comunicativa.

Per reazione alla proposta, seguendo la mia naturale capacità di essere pigro e di procrastinare, ho pensato di scriverne uno sull’anno che non verrà. Ma è un pensiero eccessivamente ottimista. Potrebbe invece arrivare, e pure in perfetto orario. Mi sconsiglio di far propositi proprio nel giorno in cui la terra segna il suo giro attorno al sole, di solito è previsto molto traffico.

Ripenso al primo anno di pandemia, all’agendina Moleskine di quel 2020, rimasta praticamente intonsa, poi rivenduta su EBay in un Black Friday dove avevo scritto che il Faust è un buon dramma perché mostra che non c’è bisogno del Black Friday per fare pessimi affari. Se solo ripenso che fino a poco tempo fa si profetizzava ripetendo che dalla pandemia “ne usciremo migliori”, come nelle scene dei film dove il malcapitato abbandonato in un bosco di notte, per farsi coraggio ad attraversarlo, canticchia tra sé una canzone per tenersi compagnia ma neanche troppo forte, per paura che il mostro lo trovi e se lo mangi tutto, se solo ci ripenso mi viene una malinconia, ma una malinconia! Ho avuto, in quel periodo, l’illusione che il futuro abbia avuto luogo esattamente come quando si ha l’illusione che una comunicazione importante fra due esseri sia esistita, come nella brevissima parabola di Kafka Un messaggio dell’imperatore: Kafka da del tu proprio al lettore, dicendogli che un imperatore morente da un regno lontanissimo ha affidato a un messaggero valoroso il suo ultimo, decisivo messaggio, e questo messaggio è rivolto a lui, al lettore, identificato nell’ultimo dei suoi sudditi, solo a lui e a nessun altro. Il messaggero affronta nel viaggio difficoltà insormontabili, dispera di riuscire a recargli il messaggio, eppure va avanti nonostante comprenda l’inutilità di ogni sforzo. E il suddito aspetta, continua ad aspettare, non smetterà mai di aspettare. Kafka chiude la parabola così: «Tu, però, resti affacciato alla tua finestra, e al messaggio dai vita nei tuoi sogni, quando scende la sera». Certe mattine in piena pandemia, dopo aver passato notti catatoniche davanti ai catastrofali notiziari TV (quante volte avrò sentito pronunciare dai giornalisti “niente sarà più come prima” con un tono che a furia di sentirlo ripetere aveva assunto ormai un che di morbosamente sadico come il “ricordati che devi morire” al punto che di morire ti dimentichi), mi svegliavo credendo di essermi trasformato come cento anni fa Gregor Samsa in un mostruoso insetto, meglio ancora in un mostruoso inetto, no, cento anni dopo dall’uscita de La metamorfosi, ancora peggio: in me stesso e basta. In Ragno. Ragno Tommaso. Perché il confine tra uomo e animale è arbitrario, ve lo dico da Uomo Ragno.

Senza più a disposizione la casualità che faceva parte della “realtà”. Sapevi esattamente dove eri e in che momento eri. Via dai marciapiedi. Nessun accadimento. Nessuna improvvisazione. Nessun principio di indeterminazione. Braccato nell’armatura di un totale teatro di regia, che è qualcosa di simile a un fermo di polizia. Noia non mancava. Ne accumulavo tanta per il futuro, per quando ne sarei “uscito migliore”. Ma intanto condannato a essere solo e soltanto me stesso tutto il giorno. Nessun “altro da me” da sperimentare sul palcoscenico o sul set. Una metastasi di tempo sprecato, almeno per chi come me fa quel genere di lavoro che non può prescindere dall’essere in presenza e non in remoto. E io in quel momento avevo iniziato a sentirmi più che altro trapassato remoto. Ad aspettare il messaggio imperiale dal futuro. Dal futuro che fu… arrivava un’irrealtà reale creata da QualcunAltro. Un senso di vuoto e il tentativo di descriverlo. E, ancora di più, privato di quello spazio di fuga che sono i set e i palcoscenici in comune ad altri esseri in fuga che sono gli attori, avevo bisogno dell’immaginazione, perché è un’energia che se da un lato crea percezioni non per forza realistiche (per fortuna!) può però condurre alla vera essenza di ciò che è reale. 

Non essendo io un astrologo, né un profeta, tantomeno Iddio e nemmeno così narcisista da poter dichiarare che ne sarà dell’anno che verrà, che cosa da lì ci aspetti, ho chiesto aiuto a un amico filosofo:

«…e che diceva Hegel riguardo al futuro?»
«Che migliora.»
«E Marx?»
«Che peggiora prima di migliorare.»
«E Nietzsche? Che dice Nietzsche?»
«Nietzsche dice che è tutto sempre uguale. Quale preferisce?»
«…mi dia il solito, grazie.»

La sola cosa che mi sento di dire al riguardo è questa: l’anno che verrà dopo il 2022 sarà il 2023. E questo, onestamente, è quanto c’è da sapere. Usando come sistema di misura qualunque calendario, il risultato resta lo stesso. Per me la questione potrebbe finire qui.

Interstellar.

Col tempo ho capito che le risoluzioni, i bei propositi per l’anno che verrà sono delle mannaie, in fondo una forma di odio per se stessi che conduce a un aumento di odio per se stessi quando non riesci a mantenerli. E fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi esiti diversi significa o che sei pazzo, o che stai appunto facendo propositi per l’anno che verrà.

La pigrizia ha poi ceduto alla vanità, e allora ho deciso di scrivere lo stesso qualcosa sotto forma di diario-calendario dell’Avvento, come quelli che in questo periodo si vendono con dentro tante finestrelle a sorpresa, biscotti della fortuna cinesi, con tante frasi incoraggianti, tanti cioccolatini giorno per giorno dall’inizio fino alla Vigilia di Natale. Uno tira l’altro in attesa del giorno successivo. Nel centenario della morte di Proust, ne ho comprato uno che contiene delle madeleine, una al giorno, ognuna con un sapore diverso, classiche o ricoperte di cioccolato, o di spezie speciali di cui posso dir gli Orienti e gli Occidenti. E così, di madeleine in madeleine, vedi mai che arrivo a ricordarmi la password dimenticata che mondi possa aprirmi e, mentre le ingurgito con la promessa che ogni sapore mi distorcerà e mi curverà la percezione del tempo e dello spazio, di certo subirò anch’io una distorsione spazio-temporale arrotondandomi di qualche chilo in più. Ma poi, secondo la scoperta di qualche anno fa dei due buchi neri che si scontrano, siamo sicuri che la distorsione di spazio e tempo fu causata da onde gravitazionali o gli scienziati avevano semplicemente appena scoperto l’Amore?

In attesa della risposta, mi dico che quella sensazione di spazio-tempo distorto non deve esser diversa da quando ci si ubriaca. 

Ubriaco d’amore, a questo io brindo.

Le celebrazioni e le ricorrenze in generale sono fatte per ricordare a noi stessi che siamo a bordo di una macchina del tempo: mentre questa macchina procede illusoriamente in avanti, guardo nello specchietto retrovisore per vedere cosa lascio dietro ma anche cosa ancora può arrivare dal passato che ancora attende di esser realizzato.

Per quanto io sappia che esiste la convenzione di un tempo cronologico, faccio finta di niente, nei confronti del tempo continuo a comportarmi come non lo fosse. E dicevo di Proust. Qualche giorno fa ho portato a termine la registrazione dell’audiolibro de Il tempo ritrovato, l’ultimo dei sette volumi de Alla ricerca del tempo perduto, è ritenuto il romanzo più lungo che sia mai stato scritto, anche se probabilmente non quello a esser più a lungo letto. Fatto sta che dopo averlo finito ero arrivato a letto, questa volta non come mostruoso inetto ma in stato di totale proustrazione.

Quando lo si inizia a leggere e si va avanti, si entra davvero in un’altra percezione, in un cortocircuito temporale, è uno di quei libri che si fa insieme a chi lo legge: mentre tu lo leggi anche il romanzo legge te. La lettura che ne fai, l’investimento che fai mentre lo leggi contribuisce a far risorgere quello che sta sepolto dentro quelle pagine (che un libro sia buono tanto quanto lo è il suo lettore è la maledizione dei buoni scrittori e la consolazione di quelli cattivi, ma anche la consolazione degli editori).

Ne faccio quindi una sintesi pecoreccia nonché riduttiva per non proustrarvi a leggerlo:

alla fine del romanzo, il narratore, che per tutto il tempo della sua vita sperimenta amori gelosie delusioni perdite crolli e nascite scoperte nel mondo del sesso dell’arte del linguaggio, sviluppando man mano che cresce prima la sensazione e poi la certezza di non avere nessun talento per la scrittura, verso la fine della sua vita, attraverso degli avvenimenti fortuiti e banalissimi, scopre che tutto ciò che gli era parso “tempo perduto” in realtà non lo era. 

La vita, in tutti quei decenni, aveva creato in lui un capolavoro, si era trattato solo di aspettare, di assecondarla, di lasciarle compiere l’opera. In lui. Da quel momento in poi tutto quello che sembrava un puzzle senza senso comincia invece ad averne. Comprende di essere insieme la miniera e il minatore del tesoro che il tempo perduto ha depositato in lui. E solo allora sente che può finalmente iniziare a fare ordine e comporre l’opera. E che è proprio quella che il lettore per sette volumi ha avuto tra le mani. Solo che il lettore e l’autore lo scoprono insieme alla fine. E la fine e l’inizio coincidono. La ricerca del narratore diventa la stessa del lettore. Proust crea il lettore a immagine e somiglianza del narratore, diventa addirittura il migliore dei suoi personaggi. Sono gemelli. E i tre tempi di presente, passato e futuro confluiscono in una sorta di tempo originario, senza inizio né fine. Si può ricominciare a leggere il romanzo con questa nuova consapevolezza, e chi lo legge o lo rileggerà (anche molti anni dopo) contribuirà a illuminare aspetti che erano sfuggiti. Come farebbe un archeologo, il quale lavora proprio coi depositi di tempo e le resurrezioni.

E, a pensarci un attimo, io stesso, senza troppo saperlo, non sono già un elemento di archeologia? Non vivo e lavoro e mi do da fare già inconsapevolmente per il futuro dell’archeologia proprio mentre perdo il mio tempo a vivere? Immagino un archeologo di una civiltà futura che disseppellisce dei resti sul fondo degli oceani che avranno sommerso il pianeta e trova in ciò che resta della mia mano un iPhone 14 waterproof e riscopre l’antico gioco di Super Mario che tra millenni, grazie alla patina del tempo, acquisterebbe un valore strabiliante. Perché è quella la cosa che si compra quando si acquista un oggetto del passato ed è ciò che le conferisce un valore esclusivo e irripetibile: la patina. 

Di fronte all’“anno che verrà”, appena ci penso, mi torna in mente un fatto per me decisivo: mi viene la stessa espressione facciale di Bob Dylan durante la registrazione della canzone We Are The World, che usciva proprio sotto il periodo natalizio del 1985, un’iniziativa capitanata da Harry Belafonte, Bob Geldof, Michael Jackson e Lionel Ritchie per “U.S.A. For Africa”. In quel momento (il video lo si trova su YouTube), la faccia di Dylan, in mezzo a un coro di all star della musica che cantano, alcune commosse, altre commosse e dolenti, ma in generale felici e sorridenti, appare evidentemente stranita, perduta, allibita, sembra la faccia di un attore che chiede perdono a Dio perché non sa quello che dice, che si è scordato le battute da dire e cerca di non darlo a vedere mentre il pubblico lo guarda, lui butta gli occhi a destra e a sinistra in cerca di un suggerimento o di una quinta da dove uscire ma niente da fare, è braccato in mezzo al coro che ripete ottimista che “We Are The World”. A un certo punto, circondato e sballottato da quella gioia corale attorno a lui, il suo sguardo diventa vitreo, narcotizzato, quasi demente, fisso davanti a sé verso un orizzonte cieco, dal labiale si intuisce che è totalmente fuori sincrono, e allora sembra non cantare quasi più, è oramai rassegnato, nonostante sia lì per una più che buona causa, sembra uno svegliatosi di botto, dopo un sonno di decenni, in un paese di cui non capisce la lingua, la faccia di uno che si sta pentendo di sposarsi quando è ormai all’altare, la faccia di uno che è stato troppo a lungo nel mondo da avere ormai smarrito la strada per sempre. 

Penso alla sua Blowing in The Wind, una canzone che pone domande capitali su, per esempio, cosa ci vuole perché le guerre finiscano per sempre o quante orecchie deve avere un uomo prima che possa accorgersi della gente che piange. E a tutte queste domande enormi il suo famoso refrain ripete in tono lieve, gentile e profondamente compassionevole che “la risposta, amico, la puoi sentire soffiare nel vento”. 

We Are The World, che pure ha temi molto simili, presume di essere invece la risposta. E se Dylan può essere un mistero, non appare esser invasato da pia illusione. Di qui la sua faccia alienata in mezzo a un coro che canta “Noi Siamo Il Mondo”. È solo una mia interpretazione, forse tutto questo non c’è, forse era solo inorridito da quella musica e tanto basta. E sarebbe una ragione sufficiente. Anzi l’unica che interessi, se è vero che il fatto etico ed estetico coincidono. Ad ogni modo, la faccia di Bob Dylan che pare dire “Io non sono qui” con quell’espressione facciale alienata sotto Natale e poco prima dell’anno nuovo è l’unica cosa che almeno posso dire di condividere, io e Bob Dylan, contro l’egorìo della vita moderna. 

«Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi tiene a terra dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi. E se talvolta sui gradini di un palazzo, nella tetra solitudine della vostra stanza vi risvegliate perché l’ebbrezza è diminuita o scomparsa, chiedete al vento, alle stelle agli uccelli, all’orologio, a tutto ciò che fugge, che geme, che scorre, a tutto ciò che canta, che parla, chiedete che ora è; e il vento, le onde, le stelle, gli uccelli, l’orologio vi risponderanno “È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo”. Roba da Fiori del male di tale Baudelaire, poeta, mistico, ribelle, sostenitore del libero amore, melanconico, ubriacone, fondamentalmente un utente Tinder del XIX secolo se fosse vivo oggi, scrivesse sui social e fosse commentato dai forzati alla ricerca della felicità sponsorizzata. 

Se dicessi che viviamo in tempi di incertezza, sarebbe un eufemismo. Perciò non lo dirò. Ops, l’ho appena detto. Davvero l’ho detto?

Per secoli si è sbattuta la testa contro i muri per rispondere alla domanda profonda ed elementare di Shakespeare: essere o non essere?

E ci siamo riusciti? Come no! Anzi, alla ricerca di ulteriore grandezza, siamo andati oltre la semplice scelta binaria. Grazie all’umano ingegno, oggi è possibile avere entrambe le opzioni: essere e non essere. Negli anni ‘80, al tempo delle prime segreterie telefoniche incorporate, la Telecom aveva escogitato una pubblicità irresistibile: su un’immagine dell’apparato telefonico campeggiava questa scritta: Esserci? Non esserci? Nessun problema. Shakespeare, Heidegger, Kafka, “assenza più acuta presenza”, tutto il ‘900 e balle simili risolte in un solo colpo di telefono registrabile. Bisognava aspettare un paio di decenni ancora prima di capire che non c’è bisogno di essere un Lenin per sentirsi dare sui nervi un pochino ogni volta che qualcuno avesse definito uno schermo iPhone di due millimetri più grande una “rivoluzione”. E quindi: esserci e non esserci?

Ma questo non contraddice la logica umana? Niente affatto, almeno secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, pietra angolare della meccanica quantistica che afferma un limite fondamentale alla certezza della conoscenza. Secondo questo principio non è possibile determinare sia la velocità che la posizione delle particelle (bosoni, elettroni, quark, etc.) contemporaneamente. Come quando da Amazon possono dirvi lo stato dell’ordine fatto o la sua posizione ma non tutt’e due le cose. Dato che è impossibile sapere se la posizione del vostro ordine è X o X, allora quell’ordine può essere sia in posizione X sia non essere in posizione X, simultaneamente. Perciò “essere e non essere”. Capito?

Alla faccia dell’incertezza. Io, che senza occhiali alla guida non vedo una ceppa, se li tolgo sembro assumere lo sguardo assorto e compresso come fissassi la vastità nebbiosa della Val Padana in novembre, ma in realtà in quel momento sto solo cercando di aguzzare la vista per evitare di andare a sbattere contro un palo, ecco io in quel momento, senza saperlo, sto applicando il principio di Heisenberg. Si può applicare anche alla recitazione, nel rapporto tra testo, attore e personaggio, quando si dice che l’attore non deve sapere già quello che il personaggio farà e dirà. All’anno che verrà in attesa di segni numinosi con la retorica motivazionale di multinazionali del male e del banale. Nei versi di Montale si trovano spesso concetti di fisica dei primi del Novecento. In Tempo e tempi, per esempio: 

Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

E grazie Eugenio, ma qua non si è sicuri in nessun luogo, nemmeno per le coincidenze in un aeroporto.

Congiunzioni gastro/astrali.

Qualche anno fa, il firmamento regalò un evento astronomico rarissimo agli occhi di un terrestre: la più lunga eclissi di luna del secolo e una grande opposizione di Marte, il pianeta rosso. Quella congiunzione di corpi celesti fu lunga, spettacolare, ipnotica, l’umano genere poteva assistere alla graduale immersione della luna nella luce marziana che le donava la lucentezza brillante del rosso pomodoro. Il giorno dell’eclissi mi trovavo a trascorrere una serata con amici e familiari in una località del Sud Italia nel cuore della Magna Grecia. Quel luogo, dove le divinità antiche sono di casa, era perfettamente numinoso per accogliere nei nostri occhi quella bellezza interplanetaria che non poteva che suscitare riferimenti a teogonie, segni divinatori, riflessioni su chi siamo cosa siamo dove andiamo insomma anche lì l’occasione era perfetta per distorsioni spazio/tempo, o altrimenti detto: per darsi al bere. E ancora più gradita mi era l’occasione per esser stata accompagnata da una cena con una pasta al pomodoro di bontà ineffabile, che mio figlio allora seienne aveva gustato con infinita beatitudine. Dopo le libagioni, uscimmo tutti a riveder le stelle per contemplare la luna rossa nell’infinito in un silenzio redentore. Mi ricordo un mio caro amico e mio figlio di spalle che guardano il cielo. Dopo un lungo silenzio l’amico fa a mio figlio: «Vedi? Un giorno ricorderai questo momento epocale nella storia e potrai raccontare di avere visto l’eclissi di luna rossa». Dopo un altro lungo silenzio, sento mio figlio proferire lentamente, mentre osserva la luna, ispirato, assorto, sacrale, sotto i cieli noncuranti: «Io invece mi ricorderò la pasta al pomodoro».

Signori, il pranzo è servito! È stato un momento rivelatorio davanti al quale mi sono inchinato non tanto per rispetto di fronte al cuore semplice di un bambino, ma perché ho visto in atto che nemmeno un prodigio celeste, per quanto bello, riesce a generare quel senso della durata, la pura sensazione di vivere, quella quiete che è data, insieme al piacere del carboidrato (sempre sia lodato), dalla scoperta dell’ovvio, insito in un gesto quotidiano, qualcosa che si condivide con milioni di altre persone, facendo cose che diventano parte del pulviscolo del tempo, perfettamente ignorabili, e che senza accorgersene riportano sulla cosiddetta via maestra dei giorni a venire…

ARTICOLO n. 60 / 2022

VIVO RICORDANDO SEMPRE TE

Dove sarò questa estate?

Felicità
è star solo
d‘estate
nella città deserta
sulla tazza del cesso
con la porta aperta.

Dino Risi, da Versetti Sardonici

Così parlò Dino Risi regista e poeta, prendendo in pochi versi semplici intensi e diretti, grazie al potere sintetico della poesia, come un haiku, scorciatoie del pensiero che diventano vie maestre che conducono verso… 

Verso cosa? Dappertutto, forse. E quindi da nessuna parte, forse? Questo è il problema? Ma no, nessun problema, sul dove essere o dove non essere in questa estate. Questo mi pare di aver confusamente capito.

È una fuga da fermo, poiché potrei, snocciolando un po’ di ginnastica amletica, esser rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni, in tono scettico-blue.

Davanti ai versi di Risi, io risi sguaiatamente la prima volta che li lèssi, come attraversato da un satori, da un risveglio inatteso di tutto me stesso, un ceffone dato da qualcuno per farti riprendere i sensi. 

E sempre più rido perché con l’età quei versi hanno preso in me la forma di un koan zen, una sorta di invito a osservare la realtà per come è nel qui e ora, senza tentare di risolverla come fosse un indovinello, no, ma a percepirla nella sua evidenza immediata, sbarazzando la mia mente dei suoi preconcetti, immagini predigerite e parole anchilosate dalla forza dell’abitudine, e che come uno Sherlock Holmes mi fa d’improvviso spalancare gli occhi ottusi e vacui come a quel personaggio che non capisce mai niente di quanto gli capita attorno quando Sherlock gli dice: «Elementare, Watson!»

E dunque rieccomi qui, in estate, novello Watson istupidito dalle temperature micidiali, in questo amletico guscio di noce, dalla cima di questo mio ermo colle, ovvero, come in alto così in basso, da questa tazza del cesso con una porta spalancata su Roma arida in fiamme ovunque e sull’orbe terracqueo, Re solitario come un numero primo. 

Visto da quassù il mondo in sfacelo di ora mi sembra un Apocalypse Now che ritorna sì, ma non come tragedia bensì come farsa, visto che la storia se deve ripetersi lo fa sempre due volte e in due diversi modi, come se l’estate fosse l’esempio assoluto dell’eterno ritorno dell’uguale (guarda chi si rivede…), specie perché avverto sempre più che in questa stagione il tempo e lo spazio sembrano diventare uguali a se stessi, ovunque tu vada, come in una lunghissima sfiancante tournée teatrale, ovunque tu cerchi ristoro e riparo dalla tortura di questa che non è più l’estate come l’ho conosciuta ma una punizione et diabolica et divina. 

Ti sei tanto ripetuto la poesia di Camus che «nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate»? E allora tiè beccati questa invincibile estate! E la sua sofferenza. E la sua indifferenza alla tua sofferenza da temperature assassine.

Come un Sisifo su e giù a sospingere il macigno di questa che chiamano estate. E la chiamano estate, questa estate senza te, sì, così mi cantavi, o divo Bruno Martino, con voce soave tanto da fare vibrare tutta l’iridescenza della luce estiva e i suoi miraggi nel colore del tuo suono pastoso. Come se in quella canzone ci fosse già, per paradosso, una memoria futura, una nostalgia del futuro degli amori già mentre da adolescente li vivevi, anche e soprattutto quelli immaginari, quelli che mai cominciarono e perciò più evocativi. 

Sì perché mi ricordo che l’estate un tempo era per gli amori, poi, con l’aumento inarrestabile delle temperature, è diventata una stagione perfetta per attivare strategie di successo per l’angoscia da riscaldamento globale (io stesso, mentre scrivo, non so se riuscirò ad arrivare alla fine dell’articolo, e, se ci riuscirò, quando lo avrò riletto sarò magari decrepito o forse sarò morto liquefatto prima, mescolato e indistinguibile dai resti di una lattina di Estathé. Per questo non vedo l’ora di cadere nel brand più lieve e languente della malinconia dell’autunno).

E così il riscaldamento globale ha trasformato il «dovrei paragonare te a un giorno d’estate?» (il primo verso del sonetto 18 di Shakespeare) in una beffa, se non in un insulto? E la chiamano estate, codesta carcassa, la chiamano ancora estate. Con o senza te. Ne succedono ormai troppe in questa stagione, così tante che nella dimensione catastrofale in cui sono immerso, invece che provare tristezza, dispiacere, rabbia, indignazione, mi capita di scindermi e proiettarmi, forse per un istinto di autoconservazione, in un altro tempo, in altre estati, quelle del passato, quelle dell’adolescenza, dove riuscivo a sentire quella stagione come un preludio a ciò che sarebbe arrivato dopo, nell’autunno e poi nell’inverno, una preparazione al futuro, che allora era una figura temporale che esisteva davvero nella percezione. E dove non sentivo separazione tra il mondo e me. 

L’estate scorsa ho registrato per Radio 3 La bella estate di Cesare Pavese. Non lo leggevo da tre decenni. Appena al microfono ne ho iniziato a registrare l’incipit ho avuto, come in botanica, una recrudescenza di tempo ritrovato (perdonami Marcel, ma è fatale invocare proprio te, specie in quest’anno di celebrazioni proustiane del centenario della tua morte). Tempo ritrovato, intendo, in qualità di lettore, essendo stato quello il tempo delle letture più importanti. Ma che lo fossero lo avrei riscoperto molto più tardi. E quel breve romanzo di bellezza lirica insieme agli altri due che compongono il trittico – Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, oggi lo so, per me contiene tutto quello che c’è da sapere sull’estate, almeno per come ricordo di averla vissuta a quell’età. «A quel tempo era sempre festa», inizia così. La protagonista è una ragazza che fa la scoperta dell’amore e delle sue illusioni, che conosce cos’è avere un corpo, anzi, essere un corpo, quel corpo in relazione al mondo che abita. Voglio aggiungere solo la frase, che conclude il terzo dei romanzi, come sintesi di tutto il senso: «È bello svegliarsi e non farsi illusioni. Ci si sente liberi e responsabili. Una forza tremenda è in noi, la libertà. Si può toccare l’innocenza. Si è disposti a soffrire».

È in quel tempo che vado a cercare il tesoro che si è formato in una dimensione per me mitica, ricco di incontri determinanti anche inconsapevolmente, e forse l’estate era proprio questo, uno stato di grazia, e non di disgrazia come è oggidì. Discorso da ecologista reazionario? Sì. Da nostalgico rompicoglioni ingusciato sull’ermo colle seduto sulla tazza? Ne ho le medaglie guadagnate sul campo per potermelo permettere, sissignore! E anche da sentimentale, aggiungo, ma senza il cinismo. Di quello mi basta già quanto il mondo ne produce ogni minuto secondo. Perderei il confronto. E ne pagherei il conto. La fatica sta nel non diventare cinico, e d’estate in natura i processi tendono più naturalmente e più inesorabilmente dall’ordine al disordine, ho questa sensazione sinistra dalle notizie che mi arrivano stando sulla tazza. Quindi preferisco la fatica di Sisifo, nonostante tutto, anche dovendo tirare bestemmie. Perché trovo ci sia qualcosa di superiormente comico e di simile a un koan zen in questo sforzo enorme che non dà risultato, e perché è la condizione più veritiera su ciò che è l’umano, per me.  

E cercare di immaginarlo felice sì, come lo immaginava Camus con quel sorriso capace di squarciare il cielo noncurante. Ma senza dimenticare che non c’è niente di più comico dell’infelicità, come dice il personaggio di Nell in Finale di partita di Beckett. E in estate, questa in particolare, dove sembra di essere in un Far West, tutto, non so perché, sembra favorevole alla commedia. In tutte le sue gradazioni: dalle foto dei selfie ai piedi con sfondo di spiagge mari e monti all’orizzonte, all’apoteosi delle pizzate coi cognati e i nipoti coi nuovi mostri che siamo diventati inflitte sui canali social a dimostrazione che l’estate è la più triste delle stagioni perché tutti si aspettano che tu, sì proprio tu, sia felice. «A me è maggio che mi rovina e anche settembre, queste due sentinelle dell’estate: promessa e nostalgia», scrive Patrizia Cavalli.

Ecco, diciamolo francamente finché ci si può avvalere della libertà di lamentela: l’estate andrebbe abolita. Non vedo il senso delle giornate che si allungano sempre di più quando ormai i nostri tempi di attenzione si accorciano sempre di più, non rivorrei indietro le estati vissute da garzoncello con quel tempo infinito e sfinito, non col fuoco che, oh sento divorarmi dentro di me ora e, peggio ancora, fuori di me, quello che, oh divora la Capitale. E farne un filmone? Che so, un bel Roma brucia?, titolone a sfondo socioambientalista ispirato a quello di guerra di René Clement Parigi brucia?, ma immaginato con la regia di Dino Risi.

Andrei in letargo steso sotto un ventilatore fissandone, come Martin Sheen sul letto di un albergaccio all’inizio di Apocalypse Now mentre fuori la guerra brucia Saigon, il mozzo attorno a cui girano ipnoticamente le pale («Trenta raggi convergono sul mozzo ma è il foro centrale che rende utile la ruota» dice il Tao Te Ching per significare che è il non-essere, il vuoto a costituire l’utilità delle cose) per risvegliarmi di colpo nella stagione preferita: nel bel mezzo di un gelido inverno del nostro scontento.