Tiziano Bonini

ARTICOLO n. 9 / 2025

PROGETTARE LA DISERZIONE DELLE PIATTAFORME

Nuove relazioni per il lavoro culturale

Dopo la parata di oligarchi tech statunitensi (o broligarchi o tecno-bro, un tempo noti come media mogul, ecc.) alla cerimonia di insediamento di Trump, tra gli utenti “progressisti”, liberali, o antifascisti, o semplicemente tra i consumatori di social media infastiditi è riesplosa la rabbia e la frustrazione verso le piattaforme di proprietà di Musk e Meta. Una rabbia e una frustrazione che stanno montando sempre di più, a ondate periodiche, da qualche anno. 

Nella mia bolla “social” si succedono annunci di utenti che salutano tutti e chiudono il loro profilo su X o su Facebook, altri che chiedono di iscriversi alla propria newsletter (l’ho fatto anche io) o che ri-aprono un blog o sostengono che dovremmo tutti tornare ai blog. Poi ci sono i giornali online come Valigia Blu, che ha annunciato che entro un anno chiuderà i suoi account Meta e X. Altri, come Libération in Francia, hanno annunciato che lasceranno X. Prima di loro, il Guardian era già uscito da X a novembre del 2024, NPR (radio pubblica USA) lo aveva fatto nel 2023, La Vanguardia, il giornale più letto in Catalogna, era uscito subito dopo il Guardian. Non solo giornali, ma anche università e altre istituzioni pubbliche hanno annunciato di uscire da X, il più “odiato”, ma anche da Facebook.

La buona notizia è che sta succedendo qualcosa che fino a pochi anni fa era impensabile: si può uscire da queste piattaforme senza che il mondo crolli. Non è inevitabile doverci stare. Fino a pochi anni fa davamo per scontato che fosse “necessario” stare su queste piattaforme, sia come individui, che come istituzioni. Anche quando poi è diventato evidente che starci significava doversi sobbarcare un alto carico di lavoro cognitivo per filtrare le informazioni rilevanti dalla paccottiglia, dal rumore di fondo, dalla pubblicità, dai debordanti ego personali, dai messaggi aggressivi e sessisti. Con il tempo, “stare dentro” questi ecosistemi è diventato sempre più faticoso per tutti, ma, come per il capitalismo, siamo portati a credere che “non c’è alternativa”.

La percezione collettiva di una mancanza di alternative ai social media ha depresso non solo noi utenti come singoli, ma anche tutte le istituzioni culturali, grandi e piccole, che ci stanno dentro.

In questo articolo proverò a ripercorrere la storia di questa crescente disaffezione per i social media, prendendo come caso di analisi la parabola social delle riviste culturali online, e proverò a immaginare possibili vie di fuga alternative, anche se non risolutive.

L’”età dell’oro” delle riviste culturali online è ormai alle nostre spalle, se mai è esistita. In termini di sostenibilità economica del lavoro culturale, non è mai esistita un’età dell’oro delle riviste online, ma in termini di bacino di lettori possiamo parlare di un breve ciclo di anni in cui le riviste hanno davvero beneficiato dalla loro visibilità sui social media e dalla condivisione dei loro contenuti da parte degli utenti. Non solo le riviste culturali, ma il giornalismo in genere, tra il 2010 e il 2020 ha progressivamente affidato la distribuzione dei propri contenuti alle piattaforme social, nella speranza che queste generassero prima un ritorno di lettori sotto forma di click e poi, forse, chissà, anche un ritorno economico basato su quegli stessi click e altre metriche esoteriche come il dwell time, ovvero il tempo di permanenza su una pagina.

Ma dal 2015-‘16 in poi, quando cioè ormai tutti – singoli utenti e istituzioni culturali – avevano stabilmente traslocato sui social media, la fragile bilancia tra i costi e i benefici dello stare sui social media ha cominciato inesorabilmente a pendere dalla parte dei costi e dei sacrifici. I social media hanno costruito la propria base di utenti seguendo la stessa logica dei pusher: prima ti regalo la roba gratis e di buona qualità, poi quando sei agganciato e dipendente, te la faccio pagare e riduco la qualità. Una volta che le riviste culturali e i giornali online in genere hanno dismesso i propri blog e ridotto gli investimenti sui propri siti, chiuso le proprie newsletter e in molti casi interrotto le versioni su carta, la dipendenza dalle piattaforme commerciali per la distribuzione e visibilità dei contenuti è diventata massima. A quel punto, le piattaforme di Meta hanno iniziato una costante serie di modifiche ai propri algoritmi con l’obiettivo di rendere sempre meno visibili i contenuti non sponsorizzati e i link a siti web esterni al proprio ecosistema tecnologico, per trattenere gli utenti il più possibile dentro i propri confini e poterli posizionare davanti a uno dei loro post sponsorizzati. Risultato: ci siamo trovati tutti incastrati e isolati dentro l’ecosistema dei social media, con i ponti verso l’esterno bombardati. I grandi gruppi editoriali, già alla fame, hanno iniziato a pagare per promuovere i propri contenuti, per non perdere i flussi di lettori abituati ormai a scoprire notizie sui social media. Chi però non poteva permettersi budget per la promozione dei contenuti ha iniziato a sperimentare un calo vistoso del flusso di lettori proveniente dai social media. Questo calo si è andato intensificando negli anni, fino a ridursi a un rivolo, quasi un torrentello stagionale, costantemente a rischio estinzione. Meta e X hanno raggiunto i loro obiettivi economici, ma lo hanno fatto sulla pelle di tanti piccoli editori. 

A questo punto, il processo di sussunzione (direbbero i marxisti) o di assorbimento del lavoro culturale all’interno dell’ecosistema di Meta può dirsi concluso. Così come durante la prima fase della rivoluzione industriale i lavoratori dei piccoli laboratori artigiani sono stati via via risucchiati dentro la macchina della fabbrica, allo stesso modo i lavoratori culturali che avevano blog o che lavoravano per qualche giornale sono stati risucchiati dentro la fabbrica dei social media, diventando produttori di contenuti per questi ecosistemi, alla mercé delle logiche algoritmiche e proprietarie di queste aziende. I blogger sono diventati influencer, perché il pubblico aveva abbandonato i blog per i social media. I giornali hanno ridotto le loro redazioni, e i giornalisti sono diventati anche loro influencer, o meglio, content creator indipendenti.

Questa è la storia, molto in breve, dell’ascesa dei social media. Se abbiamo un po’ di memoria storica, comprendiamo che la crisi di queste settimane, cioè la rabbia di cui parlavo all’inizio di questo articolo, è solo l’ultimo stadio di una crisi iniziata già molti anni fa.

Le piattaforme di Meta erano già un disastro ben prima che Zuckerberg si convertisse per opportunismo all’ideologia MAGA. Twitter era tossico e pieno di pubblicità anche prima dell’acquisto da parte di Musk. Per anni abbiamo vissuto nell’illusione che questi nuovi media fossero migliori e più progressisti dei precedenti. Questa miopia è stata prodotta dagli ingegnosi modi in cui movimenti sociali e politici progressisti come gli Indignados, Occupy, i giovani delle primavere arabe, i #15M, i #Metoo e i #Blacklivesmatter hanno usato i social media, sorprendendo per qualche anno i politici reazionari. Abbiamo fatto l’errore di attribuire alle tecnologie un’ideologia progressista che non avevano, quando invece erano stati i movimenti sociali progressisti a sfruttare a loro vantaggio tecnologie neoliberali. Ma la Silicon Valley e i suoi maggiori azionisti e imprenditori non sono mai stati liberali. Lo sono stati per opportunismo durante l’amministrazione Obama e Biden, ma intimamente sono tutti cresciuti nel brodo culturale dell’anarco-capitalismo incarnato iconicamente da Elon Musk.  

Non possiamo svegliarci nel 2025 come delle verginelle cieche e strillare al “fascista” o rivendicare un improvviso ritorno all’età dell’oro dei blog. 

Ci sono voluti anni per arrivare a questo stadio avanzato di sussunzione del lavoro culturale da parte delle piattaforme, e ci vorranno anni per invertire anche solo parzialmente la rotta. 

Non si torna facilmente indietro riaprendo un blog. Perché dopo l’iniziale entusiasmo per la rinascita di un “vecchio” medium, ci troveremo di nuovo arenati nel deserto, senza uno straccio di pubblico che faccia la fatica di percorrere la strada necessaria per trovare il nostro blog.

Gli editori hanno fatto l’errore di credere che fosse inevitabile stare sui social, e ora ne pagano le conseguenze.

Però. Qualcosa si muove. La migrazione verso Bluesky (attualmente 30 milioni di utenti) o Mastodon o più semplicemente la riduzione nell’uso delle piattaforme Meta dimostra che è possibile fare a meno di loro. C’è vita al di fuori di questi ecosistemi. Se questa convinzione prende sempre più piede, il potere simbolico del capitalismo della sorveglianza e di piattaforma inizia mostrare qualche pallida crepa, da cui in futuro potrebbero staccarsi pezzi. Ma nel breve periodo, come reagire di fronte a questo disastro? Come sopravvivere, da editori di riviste culturali online, in questo ecosistema in rovina?

Non credo esistano soluzioni definitive, ma strade che vale la pena iniziare a percorrere, il più presto possibile, per aumentare le probabilità di sopravvivenza future.

Dopo anni di rincorsa ai luoghi dove le audience e i lettori si erano spostati, bisogna faticosamente ricostruire una casa, dove invitare le persone, i lettori, a tornare. Invece di rincorrere il lettore occasionale sui social, bisogna riaddestrarlo a “uscire di casa” virtualmente per fare visita alla rivista. Questo significa non solo avere un sito web o un blog accogliente, ma anche e soprattutto far leva su una serie di strumenti online e offline per spostare i lettori verso le riviste, e non più le riviste verso i lettori. Naturalmente questi processi saranno lunghi e faticosi, come un attraversamento di un deserto, e difficilmente diventeranno mainstream.

La rivista Valigia Blu, nel suo annuncio pubblico, è stata molto pragmatica: lascerà Facebook entro un anno, mentre non è ancora certa di lasciare Instagram. Altri hanno deciso invece di smettere di pubblicare contenuti, ma di non cancellare i propri account. Sono forme “dolci” di distacco e disimpegno: si inizia con il diminuire progressivamente la dipendenza da queste piattaforme, senza però abbandonarle del tutto. Ogni rivista, ogni editore, sceglierà le strade più adatte alla propria scala, a seconda di quanto il proprio traffico web dipende ancora da una di queste piattaforme, per non prosciugare del tutto quel rivolo che ancora scorre. Mentre si liberano risorse temporali, emotive e psichiche non aggiornando più queste piattaforme o entrandoci sempre più di rado, si investe quel tempo liberato nella ricostruzione della propria casa al di fuori di Meta o X.

Questa ricostruzione può prendere molteplici vie, anche sovrapposte tra loro. Una delle vie maestre per la ricostruzione della propria casa è la fortificazione (per chi già l’aveva) della propria newsletter, un vecchio strumento tornato di moda, se fatto con cura e creatività. La newsletter è un prodotto editoriale che offre molte possibilità creative e raggiunge direttamente le persone nelle proprie caselle di posta. Ci vogliono anni per far crescere la base degli indirizzi e-mail, e chi ha cominciato anni fa è oggi avvantaggiato. Nel mondo delle riviste culturali esistono molti esempi virtuosi, come Medusa, e nel lungo periodo la newsletter può anche contribuire parzialmente alla sostenibilità economica del lavoro culturale. Ora, il panorama delle newsletter è già molto saturo, direte, ma sono poche quelle fatte bene. Io continuo a credere che una newsletter curata e creativa piano piano troverà sempre la sua nicchia di pubblico e nel lungo periodo può generare più traffico verso il proprio sito web di quanto ne generino i social media oggi.

Ovviamente si può provare ad aprire profili sui social media “alternativi” emergenti, come Mastodon o Bluesky. Il primo è una cooperativa federata, indipendente e con uno standard etico molto alto. Ma è ancora molto poco popolata. La seconda è una specie di S.r.l. fondata dall’ex proprietario di Twitter, al momento senza pubblicità e non ancora infangata dal rumore di fondo tipico di X (ma potrebbe diventarlo). Con pazienza, anche queste piattaforme potranno far crescere marginalmente il traffico verso i contenuti culturali.

Molte altre riviste, come Lucy della Cultura, hanno iniziato invece a produrre podcast, alcuni anche molto popolari. È una strada possibile. Ma produrre podcast di qualità costa molto e rende, per il momento, molto poco. In più, si lascia la dipendenza da Facebook per abbracciare la dipendenza da Spotify, che monetizza con le stesse logiche di Meta, senza compensare i podcaster. Solo le grandi imprese editoriali, e qualche manipolo di volontari molto accaniti e creativi, riescono per il momento a sfruttare adeguatamente questa opportunità.

Ma non è sostituendo una tecnologia con un’altra, che risolveremo le cose. Una rivista culturale è una comunità di attivisti e di lettori, non è solo un’impresa commerciale. E sta in piedi solo se questa comunità si riconosce nella rivista. E allora serve costruire nel tempo un’infrastruttura di relazioni radicate nel mondo fisico, tramite incontri periodici, gruppi di lettura, festival, giornate di festa comuni, pranzi per strada per auto-finanziarsi, accanto a campagne di crowdfunding perennemente attive.

Guardate l’esempio di Radio Popolare a Milano. È nata nel 1976, dà lavoro a circa 30 persone. Ognuno di voi, se l’avete mai ascoltata, avrà giudizi contrastanti sui loro contenuti e sulla loro linea editoriale. I più vecchi diranno che era molto meglio 20 anni fa, o 10 anni fa, o 30 anni fa. Altri diranno che non è più come prima, bla bla bla. Ognuno di loro ha le sue ragioni. La radio ha attraversato tante diverse stagioni. Ha cambiato sede e pelle più volte. Ma è ancora lì. In piedi, con una sede di cui è proprietaria, un auditorium dove continua a fare concerti e un bacino di ascoltatori affezionati che continua a pagare un “canone” volontario simile a quello del servizio pubblico. E lo fa in un’industria, quella della radiofonia locale, in crisi da anni, sia perché la pubblicità locale è sempre più aspirata da Google e Meta, sia perché i contributi statali sono sempre meno.

Eppure è viva ed è un esempio di lavoro culturale (faticosamente) sostenibile, che si è ibridato con il digitale senza legarsi alle piattaforme. Non è per forza l’unico modello possibile e sicuramente nemmeno il più innovativo, ma la lezione di Radio Popolare è che qualsiasi impresa (qui nel senso di avventura epica) culturale resiste e sopravvive solo se alla base c’è un pubblico deciso a sostenerla. Sono i lettori il capitale sociale delle imprese culturali. In ogni rivista ci vorrebbero delle persone deputate al rapporto quotidiano con i lettori, così come a Radio Popolare c’è qualcuno che sta alla porta ad accogliere gli ascoltatori che hanno voglia di passare a visitare la radio, o che rispondono al telefono.

Le riviste vivono se smettono di essere l’orticello privato di qualche aspirante intellettuale e se si presentano come un’infrastruttura di base, come i parchi e le farmacie, dove i lettori possono trovare pace e “medicine” per la loro fame di sapere. Nessuna delle soluzioni elencate fin qui sarà sufficiente per recidere in maniera sostenibile il cordone con le piattaforme digitali, probabilmente per molti editori e riviste è già troppo tardi. Ma tutte insieme, queste soluzioni sono una strategia che riuscirà a salvare qualcuno. Prima si inizierà a sperimentare la diserzione del lavoro culturale dalle piattaforme, e prima prenderà forma un pubblico di lettori allenato a fare a meno dei social media.

Se più voci iniziano a gridare tutte insieme che non è inevitabile stare su Meta o X, che è uno spreco di tempo e risorse, altre si uniranno via via e piano piano la narrazione dell’utilità di questi strumenti inizierà a scricchiolare. Potrebbero volerci degli anni, e potremmo attraversare diverse fasi: sicuramente la transizione sarà lenta: le persone non abbandoneranno questi spazi da un giorno all’altro, ma li troveranno sempre più noiosi, entrandoci sempre meno, trovandoci sempre meno cose interessanti, fino alla saturazione. Forse queste piattaforme andranno addirittura in rovina, ma altre che devono ancora nascere o esistono già, come TikTok, prenderanno il loro posto nel mainstream.

È possibile, ma non inevitabile. Nel frattempo, chi avrà costruito una casa accogliente sarà pronto per offrire ai fuoriusciti e ai disertori un pasto caldo e un pugno di parole per cui valga la pena fermarsi a leggere.