ARTICOLO n. 48 / 2024
Di Sofia Silva
CALASSO SENZA NOME
una lunghissima storia
Spesso le ragazze d’oggi principiano le proprie storie d’amore nella velata convinzione che ben presto tutto andrà storto. Lo storto non è più una tragedia bensì una meta sardonica: bisogna saperci arrivare. Raggiungere lo storto può essere gustoso o almeno utile a pagare qualcosa di più grazioso che un modulo F24.
Ad alcune di noi capita talvolta un errore di sistema: lo storto non si presenta, l’amato ci ama, il plot cade. Nessuna è pronta a che le cose vadano bene.
Un simile attentato alla mia fidata isteria è stato giocato da Roberto Calasso (1941-2021). Bigino per chi ancora non è un suo lettore: Calasso ha scritto ventisei libri. Tra questi, undici titoli compongono l’Opera senza nome e sono stati pubblicati da Adelphi dal 1983 al 2020. Essi sono: La rovina di Kash (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore(2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Per dirla in soldoni (che mi sarebbero valsi un’occhiata di disprezzo post-storico da parte di Calasso), i protagonisti di questi libri sono Zeus e i suoi dèi, il sistema vedico descritto nei Brāhmaṇa, il Progenitore e svariati patriarchi, Utnapishitim, Tiepolo, Talleyrand, Baudelaire, Kafka, Homo saecularis.
Come lettrice nata nel ’90 ho iniziato da Il rosa Tiepolo, recuperando a mano a mano i primi titoli, e posso testimoniare quanto l’uscita de “il nuovo libro di Calasso” fosse di anno in anno un evento atteso con curiosità e un velo di apprensione da parte mia e di mio padre, voraci e ammirati lettori che alla fine si chiedevano l’un l’altra perché Calasso avesse scritto proprio di “questa cosa qui”. In ogni autore solitamente si coglie una certa sincronicità con l’attuale, nella letteratura di Calasso invece regna una logica narrativa e temporale antica, esodata, vagamente irrecuperabile.
Per una vita ho letto i suoi enigmatici libri sapendo che non sarei mai arrivata alla Verità, anzi, certa che lui non avrebbe mai voluto condividerla con alcun lettore. Due o tre volte mi è stato permesso di pubblicare recensioni alle sue opere, due o tre volte recensioni a Calasso mi sono state cassate (a ragione, erano più criptiche dei libri stessi). In quelle occasioni gli inviavo i testi via e-mail e lui scendeva dal Primo Mobile per rispondermi “Cara Sofia Silva…”.
Che dire? Coup de théâtre: nel giugno del 2024 persino questo plot, quello in cui le parole di Calasso entrano nelle nari come il fumo di un rito che invade senza richiedere meccaniche dell’intelletto, è caduto. Adelphi pubblica il saggio di autocritica letteraria Opera senza nome; post-mortem Calasso spiega per filo e per segno la propria ambizione da scrittore svelando i più strategici espedienti. Non solo, rivela il disegno escatologico di tutto ciò che ha pubblicato. Rimango allibita. Se nessuna è pronta a che le cose vadano bene, tantomeno si è pronte a che le cose abbiano un senso.
Prima rivelazione contenuta in Opera senza nome: Calasso scrittore ha ambito alla “primavoltità” nella forma, a una letteratura nuova nata da una concezione “sinottica e simultanea” (Léon Bloy) della storia – e dunque del testo – e redatta tramite l’uso di accorgimenti specifici come l’eliminazione degli esponenti di nota o la predilezione di immagini in carta-testo prive di riferimento (spoiler: Calasso rivela di essere stato in questo d’ispirazione per Sebald). «Inventare qualcosa che prima non esistesse […] ma che accogliesse occasionalmente frammenti di forme esistenti». La penultima citazione di Calasso è nientemeno che lo scriba Khakheperraseneb, un grintoso del 1900 a.C: «Che io possa disporre di espressioni ignote, di formule originali, fatte di parole nuove».
La seconda rivelazione che ho rintracciato si concentra più specificamente sul poter leggere la storia affidandosi alla simultaneità. «Mrs. Procter, quale appare in poche righe dei Taccuini di Henry James, appartiene alla profonda preistoria così come la profonda preistoria converge con la macchina di Turing». Ogni volta che Calasso ha citato venti nomi provenienti da diversi secoli e civiltà all’interno di una stessa pagina cartacea non stava, come ho creduto per molti anni, tessendo un poema per una ristretta cerchia di eruditi con cui prima o poi avrei sbevacchiato Opollo di Lissa, ma stava – diciamola così – trasportando l’algoritmo in Mesopotamia, sottraendo la paratassi al nostro dataismo per applicarla al passato statuendo che in essa esiste senso. Nel legame tra esistenze e fatti umani e sovrumani che non si sono nemmeno sfiorati nel tempo, noi viviamo. E se smettiamo di collegarli, se smettiamo di concepire Ṛta, l’ordine cosmico, come un tappeto di cui tutti i fili sono intrecciabili l’un l’altro, è perché stiamo passando dall’essere una civiltà all’essere una società. (A breve illustro la differenza).
Quindi attenzione, adolescenti in lettura: Calasso vi sta autorizzando a zittire i docenti che lamentano citazioni improprie. Tutto è pertinente; al prossimo tema su Pirandello andate pure giù duro di teatro elisabettiano.
Terza rivelazione: intravedo l’ammissione da parte di Calasso di aver sempre scritto su un unico tema, sul rito di sostituzione per eccellenza, il sacrificio. «Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa. […] Qualcosa di cui il pensiero non riesce mai a sbarazzarsi». «La civiltà è il luogo del sacrificio». Civiltà è stata sostituita da società. «Escludendo da sé qualsiasi cosa che non sia la società, la società ha escluso un rito ricorrente ovunque, sotto varie forme del mondo: il rito sacrificale». Nella propria «bigotteria laica», «la società rende ragione solo a se stessa e considera la natura un po’ come un parco all’interno di una grande città». Rinunciando alla rinuncia, eliminando il sacrificio, si è perso il simbolico come legame universale.
Stremata dalle rivelazioni che mi pare di aver colto, mangio cereali impiastricciati di burro di arachidi, e il mio pensiero subito vola a un titolo degli undici che costituiscono l’Opera, Il libro di tutti i libri, 555 pagine dure e inesorabili come il dio che raccontano. Analisi della Bibbia che mai sfocia in esegesi biblica; non ordinata comprensione di significato quanto piuttosto perpetua creazione di hyperlink di verità e crudeltà tra la Bibbia e ciò che di essa non ha mai smesso di riguardare l’inconscio individuale e sociale.
La lettura del Il libro di tutti i libri opera una immissione di storicità in pagine che spesso si è abituati a leggere con un pensiero aperto alla metafora; questo ritorno del testo sacro nella storia – primitiva, nomadica – non toglie sacralità come si è spesso temuto, ma ne aggiunge. Prodezza di Roberto Calasso: nel sublime, ricordarci che siamo stati frugivori, saprofagi e, talvolta, sacri.
«Non deve meravigliare se, risalendo fino agli inizi del pensiero, si incontrano immancabilmente parole che indicano un ordine cosmico e mentale: ṛtá, asha, ma’at, me, díkē, śimāti, dao, torah. […] Ciò che alla fine si è inteso sotto il nome di scienza non è che l’ultimo tentativo di articolare quell’ordine che già era stato indicato sotto molti nomi. Tutti inesauribili, tutti alla fine provvisori e inconclusi. Tutti indispensabili perché una qualche forma di vita prosegua. La figura del Messia è l’ombra che si intravede dietro la perenne lacuna dell’ordine».
In questi quattro decenni Calasso ha fornito ai suoi lettori una lunghissima storia, ibrida, sincretica, paritaria, in cui tutte le vite e i fatti del mondo sono intrecciati nelle civiltà sapienti, sfaldati nelle società laiche e reintrecciati nei glitch di un mondo post-laico, nel terrorismo, nella “religiosità” dell’algoritmo, nelle riapparizioni del senso in un randomico talk show.