Sofia Silva

ARTICOLO n. 48 / 2024

CALASSO SENZA NOME

una lunghissima storia

Spesso le ragazze d’oggi principiano le proprie storie d’amore nella velata convinzione che ben presto tutto andrà storto. Lo storto non è più una tragedia bensì una meta sardonica: bisogna saperci arrivare. Raggiungere lo storto può essere gustoso o almeno utile a pagare qualcosa di più grazioso che un modulo F24.  

Ad alcune di noi capita talvolta un errore di sistema: lo storto non si presenta, l’amato ci ama, il plot cade. Nessuna è pronta a che le cose vadano bene.

Un simile attentato alla mia fidata isteria è stato giocato da Roberto Calasso (1941-2021). Bigino per chi ancora non è un suo lettore: Calasso ha scritto ventisei libri. Tra questi, undici titoli compongono l’Opera senza nome e sono stati pubblicati da Adelphi dal 1983 al 2020. Essi sono: La rovina di Kash (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore(2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Per dirla in soldoni (che mi sarebbero valsi un’occhiata di disprezzo post-storico da parte di Calasso), i protagonisti di questi libri sono Zeus e i suoi dèi, il sistema vedico descritto nei Brāhmaṇa, il Progenitore e svariati patriarchi, Utnapishitim, Tiepolo, Talleyrand, Baudelaire, Kafka, Homo saecularis.

Come lettrice nata nel ’90 ho iniziato da Il rosa Tiepolo, recuperando a mano a mano i primi titoli, e posso testimoniare quanto l’uscita de “il nuovo libro di Calasso” fosse di anno in anno un evento atteso con curiosità e un velo di apprensione da parte mia e di mio padre, voraci e ammirati lettori che alla fine si chiedevano l’un l’altra perché Calasso avesse scritto proprio di “questa cosa qui”. In ogni autore solitamente si coglie una certa sincronicità con l’attuale, nella letteratura di Calasso invece regna una logica narrativa e temporale antica, esodata, vagamente irrecuperabile. 

Per una vita ho letto i suoi enigmatici libri sapendo che non sarei mai arrivata alla Verità, anzi, certa che lui non avrebbe mai voluto condividerla con alcun lettore. Due o tre volte mi è stato permesso di pubblicare recensioni alle sue opere, due o tre volte recensioni a Calasso mi sono state cassate (a ragione, erano più criptiche dei libri stessi). In quelle occasioni gli inviavo i testi via e-mail e lui scendeva dal Primo Mobile per rispondermi “Cara Sofia Silva…”. 

Che dire? Coup de théâtre: nel giugno del 2024 persino questo plot, quello in cui le parole di Calasso entrano nelle nari come il fumo di un rito che invade senza richiedere meccaniche dell’intelletto, è caduto. Adelphi pubblica il saggio di autocritica letteraria Opera senza nome; post-mortem Calasso spiega per filo e per segno la propria ambizione da scrittore svelando i più strategici espedienti. Non solo, rivela il disegno escatologico di tutto ciò che ha pubblicato. Rimango allibita. Se nessuna è pronta a che le cose vadano bene, tantomeno si è pronte a che le cose abbiano un senso.

Prima rivelazione contenuta in Opera senza nome: Calasso scrittore ha ambito alla “primavoltità” nella forma, a una letteratura nuova nata da una concezione “sinottica e simultanea” (Léon Bloy) della storia – e dunque del testo – e redatta tramite l’uso di accorgimenti specifici come l’eliminazione degli esponenti di nota o la predilezione di immagini in carta-testo prive di riferimento (spoiler: Calasso rivela di essere stato in questo d’ispirazione per Sebald). «Inventare qualcosa che prima non esistesse […] ma che accogliesse occasionalmente frammenti di forme esistenti». La penultima citazione di Calasso è nientemeno che lo scriba Khakheperraseneb, un grintoso del 1900 a.C: «Che io possa disporre di espressioni ignote, di formule originali, fatte di parole nuove». 

La seconda rivelazione che ho rintracciato si concentra più specificamente sul poter leggere la storia affidandosi alla simultaneità. «Mrs. Procter, quale appare in poche righe dei Taccuini di Henry James, appartiene alla profonda preistoria così come la profonda preistoria converge con la macchina di Turing». Ogni volta che Calasso ha citato venti nomi provenienti da diversi secoli e civiltà all’interno di una stessa pagina cartacea non stava, come ho creduto per molti anni, tessendo un poema per una ristretta cerchia di eruditi con cui prima o poi avrei sbevacchiato Opollo di Lissa, ma stava – diciamola così – trasportando l’algoritmo in Mesopotamia, sottraendo la paratassi al nostro dataismo per applicarla al passato statuendo che in essa esiste senso. Nel legame tra esistenze e fatti umani e sovrumani che non si sono nemmeno sfiorati nel tempo, noi viviamo. E se smettiamo di collegarli, se smettiamo di concepire Ṛta, l’ordine cosmico, come un tappeto di cui tutti i fili sono intrecciabili l’un l’altro, è perché stiamo passando dall’essere una civiltà all’essere una società. (A breve illustro la differenza).

Quindi attenzione, adolescenti in lettura: Calasso vi sta autorizzando a zittire i docenti che lamentano citazioni improprie. Tutto è pertinente; al prossimo tema su Pirandello andate pure giù duro di teatro elisabettiano.

Terza rivelazione: intravedo l’ammissione da parte di Calasso di aver sempre scritto su un unico tema, sul rito di sostituzione per eccellenza, il sacrificio. «Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa.  […] Qualcosa di cui il pensiero non riesce mai a sbarazzarsi». «La civiltà è il luogo del sacrificio». Civiltà è stata sostituita da società. «Escludendo da sé qualsiasi cosa che non sia la società, la società ha escluso un rito ricorrente ovunque, sotto varie forme del mondo: il rito sacrificale». Nella propria «bigotteria laica», «la società rende ragione solo a se stessa e considera la natura un po’ come un parco all’interno di una grande città». Rinunciando alla rinuncia, eliminando il sacrificio, si è perso il simbolico come legame universale.

Stremata dalle rivelazioni che mi pare di aver colto, mangio cereali impiastricciati di burro di arachidi, e il mio pensiero subito vola a un titolo degli undici che costituiscono l’OperaIl libro di tutti i libri, 555 pagine dure e inesorabili come il dio che raccontano. Analisi della Bibbia che mai sfocia in esegesi biblica; non ordinata comprensione di significato quanto piuttosto perpetua creazione di hyperlink di verità e crudeltà tra la Bibbia e ciò che di essa non ha mai smesso di riguardare l’inconscio individuale e sociale.

La lettura del Il libro di tutti i libri opera una immissione di storicità in pagine che spesso si è abituati a leggere con un pensiero aperto alla metafora; questo ritorno del testo sacro nella storia – primitiva, nomadica – non toglie sacralità come si è spesso temuto, ma ne aggiunge. Prodezza di Roberto Calasso: nel sublime, ricordarci che siamo stati frugivori, saprofagi e, talvolta, sacri.

«Non deve meravigliare se, risalendo fino agli inizi del pensiero, si incontrano immancabilmente parole che indicano un ordine cosmico e mentale: ṛtá, asha, ma’at, me, díkē, śimāti, dao, torah. […] Ciò che alla fine si è inteso sotto il nome di scienza non è che l’ultimo tentativo di articolare quell’ordine che già era stato indicato sotto molti nomi. Tutti inesauribili, tutti alla fine provvisori e inconclusi. Tutti indispensabili perché una qualche forma di vita prosegua. La figura del Messia è l’ombra che si intravede dietro la perenne lacuna dell’ordine».

In questi quattro decenni Calasso ha fornito ai suoi lettori una lunghissima storia, ibrida, sincretica, paritaria, in cui tutte le vite e i fatti del mondo sono intrecciati nelle civiltà sapienti, sfaldati nelle società laiche e reintrecciati nei glitch di un mondo post-laico, nel terrorismo, nella “religiosità” dell’algoritmo, nelle riapparizioni del senso in un randomico talk show. 

ARTICOLO n. 29 / 2024

I MEMBRI DEL GROUP SHOW SI VOGLIONO BENE

una mostra collettiva

Un ‘group show’ d’arte contemporanea può essere compilativo o tematico o, nell’ormai più raro dei casi, architettato su una tesi. Intorno a noi il metodo compilativo è il più comune, perché i rischi sottesi ad altre impostazioni sono spesso percepiti come pruriginosi. Per esempio, permane nel modus operandi più in auge una certa diffidenza verso il dato e il metodo biografici. Seppur talvolta il biografismo fa maldestro capolino sfruttando l’inesausto amore verso il dettaglio feticista, abile a imbellettare le idee più scarne, nella maggior parte dei casi esso soccombe di fronte alla rispettosa e universalista deontologia degli operatori dell’arte, che mostrano il linguaggio dell’artista senza chiedergli di aprire la bocca e tirar fuori la lingua. Proprio perché ho incontrato qualcosa di diverso da tutto ciò in una mostra collettiva per di più presso una galleria privata, mi è venuta voglia di scriverne. 

Alla base di quel che racconto c’è un regista di teatro che da alcuni anni agisce la propria autorialità anche nell’arte contemporanea, vestendo i panni di riattivatore di storie e curatore editoriale: Fabio Cherstich. Cherstich ha trovato anche per questo suo nuovo progetto (che segue quello dedicato a Larry Stanton) la complicità di APALAZZOGALLERY di Brescia, galleria con sede a Palazzo Cigola Fenaroli nota per patrocinare una cultura più sistematica del concetto di mostra collettiva, tra le altre cose impegnandosi a importare anche opere non “in vendita”. La mostra di cui scrivo si intitola ROBERTO JUAREZ 80’S EAST VILLAGE LARGE WORKS ON PAPER + DOWNTOWN AMIGOS Y AMIGAS ed è composta da una parte monografica dedicata all’artista americano di radici messicane e portoricane Roberto Juarez (1952). A questa si aggiunge un’estensione da group show che coinvolge sette “amici”, artisti che appartengono alla stessa comunità di Juarez fiorita nell’East Village negli anni della pandemia di AIDS.

Ora, una domanda che bisognerebbe sempre porsi quando il fare e il visitare mostre ambisce a costruire un programma culturale: perché uno show di questo tipo ha senso oggi? Prima motivazione: in campo pittorico l’Italia ancora non ha chiuso il verboso debito con la Transavanguardia; proporre una mostra in cui pittura prodotta negli anni Ottanta e di stampo neo-espressionista, com’è quella di Juarez, accoglie ibridazioni con un’estetica queer e istanze da émigré aiuta a ricordare che gestualità, istinto, soggettività, indulgenze di vario stampo non devono per forza corrispondere ad antintellettualismo e mancanza di ribellione politicamente definita. Seconda motivazione: leggere l’artista tramite il suo “gruppo” è un’operazione che in anni recenti è stata poco esplorata, e proprio da qui inizia la mia conversazione con Cherstich.

Sofia Silva: Fabio, gli otto artisti hanno intrattenuto tra loro rapporti di varia natura: amicizia, istruzione, condivisione di luoghi, sofferenza e amore. Tu e APALAZZOGALLERY lavorate molto anche su Larry Stanton,il cui soggetto pittorico è stata la comunità stessa: bellissimi ragazzi incontrati nei bar di Manhattan. Presentare l’artista tramite la comunità o, viceversa, veicolare il gruppo tramite un soggetto protagonista non è scontato di questi tempi, in cui spesso si pensa che isolare equivalga a tutelare e che la presentazione monografica dell’artista sia la più meritevole, anzi, la più gentilizia. Tu al contrario stai importando storie corali sotto forma di mostre, dando grande rilevanza al dato biografico. Quali sono i rischi e le virtù del tuo approccio? 

Fabio Cherstich: Il taglio narrativo, biografico, corale dei miei progetti legati all’arte visiva deriva dalla mia formazione e dalla pratica del palcoscenico, poiché a teatro non si lavora mai da soli, ma si racconta sempre una o più storie a qualcuno: si fa tutto per un pubblico. Il mio approccio curatoriale è didattico, nel senso brechtiano del termine, fortemente incentrato sullo storytelling, sul fornire i contesti storici per capire i lavori e il pensiero che ci sta dietro. È un dispositivo in cui stage e backstage convivono. Anche in questo caso alla mostra corrisponde un ampio progetto editoriale che raccoglie non solo le immagini delle opere esposte ma pure tutto il materiale di archivio, di “backstage” degli artisti, nonché testi originali e contributi di artisti contemporanei chiamati a rileggere in forma critica i lavori storici presenti in mostra.

S.S. La mostra presenta diversi lavori di Arch Connelly e Jeff Perrone. Connelly (1950-1993) applica sgargianti materiali decorativi su comuni elementi d’arredo, mentre Perrone (1953-2023) crea dipinti utilizzando materiali tessili e bottoni dove l’approccio iperdecorativista incontra tradizioni storico-artistiche in quei decenni extra-canoniche: quella dei nativi e dell’immigrazione africana, indiana, latina, oltre che la tradizione manifatturiera afghana di tappeti.

Tornare ai lavori iconici di questi due artisti, oggi, dopo tutto quel che si è assimilato e organicamente dimenticato rispetto a individuazione e disintegrazione del genere, fa un certo effetto.

Personalmente mi sono interrogata su quanto certi stereotipi della girlishness (l’estetica da diario segreto, burn book e cameretta della ragazza adolescente da Pretty in Pink a Mean Girls) siano sorelle minori del massimalismo decorativo queer che nel 1982 era già musealizzato in mostre quali Extended Sensibilities del New Museum. Questo immaginario sta oggi tornando in voga, in toni più opachi e post-concettuali, ovunque nel mondo ma anche nell’arte emergente della nostra Milano. 

Di fronte a Connelly e Perrone, mi sono chiesta quanto sia difficile costruire una rappresentazione estetica puramente non-binaria, forse è impossibile; prima pensavo che la decorazione potesse aiutare in tal senso. Cosa ne pensi?

F.C. All’opening della mostra mi ha raggiunto un amico artista milanese, Davide Stucchi. Le sue sculture, frutto di azioni minime, svelano la vulnerabilità degli oggetti, sfidando l’ideale machista dell’artefatto. In lui e nel suo lavoro trovo un intrigante legame con gli artisti queer newyorkesi della generazione Connelly/Perrone. Non sorprende infatti che davanti al lavoro di Perrone, Davide abbia definito il tutto “on DRAG”, un riferimento che si intreccia con il lessico della comunità queer cui Perrone apparteneva. Lo stesso e forse in una forma più pertinente si potrebbe dire del lavoro di Connelly.

Le opere di Connelly, sottoposte a un pesante make-up, si travestono e diventano sculture che nobilitano oggetti comuni grazie all’aggiunta di bigiotterie, glitter e gusci d’uovo glassati. Oggetti sexy, eccessivi, liberati dalla noiosa funzione borghese. Specchi recuperati in mercatini dell’usato o dalla spazzatura diventano preziosi oggetti desiderabili, coperti di tessuti e tulle che richiamano le trame dei collant. I collage di immagini pornografiche incrostati di glitter e stagnola luccicante… Tutto nel suo lavoro è “queer, kitsch, mannered, snobbish, pink, pink, pink, pink” per citare le parole del manifesto che Connelly scrive nel 1982 per codificare la sua opera.

S.S. Facciamo un gioco, azzarda dei lookalike di questi artisti che hanno abitato altre parti del mondo.

F.C. Perrone è un Boetti Queer, sarebbe un doppio show pazzesco. Il diario frocio di Arch Connelly trova affinità col brasiliano Hudinilson Jr., con le sculture sbrilluccicanti e bellissime, vicine al mondo di Raúl De Nieves. E, restando in Italia, la scrittura e gli slogan di Connelly mi fanno pensare al mio amato Nino Gennaro, agli oggetti e alle performance di Desiato. In Connelly intravedo anche ragionamenti concettuali e immaginari vicini ai mondi dell’artista italiana Anna Franceschini, a Davide Stucchi… Sarebbe anche interessante un parallelo tra il suo lavoro e quello di Tomaso De Luca: ci sono delle affinità rispetto all’indagine dei queer spaces e dei queer objects, un’indagine della casa nelle sue varie accezioni che non abbiamo qua il tempo di approfondire, ma che mi piacerebbe indagare in un progetto futuro.

S.S. Come viveva l’arte dei downtown amigos quando usciva dalla comfort zone comunitaria?

F.C. La spinta massimalista, non binaria, provocatoria degli artisti in mostra – molti di loro sono attivisti di ACT UP – nasce da una finalità politica e sociale. All’epoca c’era Reagan al governo e la gente moriva di AIDScome mosche. In questi tempi neofascisti, segnati dal ritorno all’ordine, auspico all’arte e agli artisti di non avere mezze misure. Di non avere paura. Jeff Perrone ha parlato di arte come “cavallo di Troia” per i collezionisti, immaginandoli esibire opere colorate nelle loro case eleganti solo per poi scoprire che i bottoni luccicanti compongono frasi intimidatorie e violente: “The Rich Will Never Allow You To Vote Away Their Wealth” e “Rape”. Pas mal, no?

S.S. Nella mostra assume centralità narrativa anche il luogo di ritrovo comunitario, il bar per esempio, come dimostrano i disegni di Jimmy Wright (1944) e le fotografie di Stephen Barker (1956). Viaggi spesso a New York per riavvolgere il filo di questa storia; quale memoria rimane dei luoghi?

F.C. I lavori diventano una testimonianza visiva di quei queer spaces che sono scomparsi a causa della speculazione contemporanea. Locali dove non esistevano differenze di classe sociale, razza, età, luoghi dove la Comunità si riuniva per vivere la sessualità in una forma libera dentro ad uno spazio protetto. Il Club 82, soggetto dei disegni realizzati nel 1973 da Wright e delle foto di Barker scattate nel 1993-94, è un locale nato negli anni 50, gestito dalla famiglia mafiosa Genovesi e noto al tempo per gli spettacoli di uomini e donne en travesti. Trasformato negli anni ‘60 in locale per show girls, negli anni ‘70 in un drag club e negli anni ‘80 – ‘90 in un gay sex club. Un luogo dove “tutti” andavano. Un altro posto di cui Roberto mi parla sempre è The Bar. Il Bar era il luogo in cui si ritrovavano tutti gli artisti gay – Robert Mapplethorpe, David Wojnarowicz, Peter Hujar, Robert Gober e Edward Albee per citarne alcuni. Roberto, Jimmy, Arch, Jeff e Marc Tambella (1953) – Marc era il barista – ma anche la loro amica Donna Francis, andavano sempre lì. In questo Bar si sono scambiate idee, opere, drink e ogni genere di fluidi per tutti gli anni 80. Era uno degli epicentri della vita culturale della città.

L’erotismo è elemento centrale di molti dei lavori in mostra. È l’energia che la città emanava e che veniva riversata nel lavoro. A detta di tutti la città ha ancora mantenuto questa elettricità, questa tensione sessuale e io sono d’accordo. Basta vedere come le persone ti guardano per strada… New York City è sempre stata una città promiscua e sporcacciona: lo è ancora.

S.S. Le due artiste in mostra, Elaine Reichek (1943) e Donna Francis (1952), stemperano la sofferente gioia delle altre opere con lavori più fermi.

F.C. Tra i vari lavori di Reichek presenti in mostra uno è tratto dalla serie Harlem Arcadia, quattordici ricami basati sui motivi architettonici trovati nelle case a schiera di mattoni e pietra marrone di Strivers’ Row dove Elaine vive e lavora. Strivers’ Row, progettato negli anni ’90 del 1800 come enclave per soli bianchi, è diventato il centro della Rinascita di Harlem quando è stato aperto agli afroamericani nel 1919. Il boom culturale è stato interrotto dalla Grande Depressione, ma il nome Strivers’ Row ha mantenuto un’aura mitica nonostante la difficoltà di immaginare qualsiasi quartiere di New York come un’Arcadia a lungo termine. Questa traduzione dei motivi architettonici neoclassici del quartiere in tessuto cucito e trapuntato porta l’ornamento esterno nel campo del decoro domestico, trasponendo materiali maschili in un linguaggio femminile. Elaine è stata la migliore amica di Jeff Perrone, artista che non a caso è esposto nella sua stessa stanza.

Donna Francis invece è presente in mostra con un lavoro molto potente dal titolo Black Rider. Cito le sue parole perché mi sembrano emblematiche: «Schwarz Faherin/Black Rider è un ritratto di un mio vicino di casa che ho realizzato negli anni ’80. Gli ho detto di vestirsi come avrebbe desiderato essere ritratto e lui si è presentato vestito da cowboy e con un fucile. Solo in seguito ho usato questa foto per realizzare l’opera. Il titolo è tratto dal termine usato per le persone che viaggiano sui tram in Svizzera senza pagare. Ho pensato che fosse una dichiarazione interessante su come le persone bianche vedono noi, persone di colore».

S.S. Al pubblico italiano la mostra offre un tassello di pittura anni Ottanta, la possibilità di studiare un singolo tramite una comunità. Offre arte politicizzata per essenza e non per intenti programmatici ergo quella di cui il potere sottovaluta la permeabilità, offre radici per gli artisti emergenti che operano nel campo di estetiche queer, offre un modello curatoriale diverso: emotivo e candidamente filologico; l’abbiamo percorsa anche credendo in group show sempre più esigenti, che affondino nella vita sociale degli artisti con rispetto e spudoratezza senza strappare le opere al contesto né ordinandole in faldoni avulsi dalla loro casa o dal loro bar.

ARTICOLO n. 99 / 2023

RENZO BIASION, ROSSO PERIFERIA

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del Novecento attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Volge al termine la nostra brumosa incursione nelle piazze della pittura di paesaggio veneta del XX secolo. Con Orazio Pigato si è introdotto il tema della morale nel dipingere, con Antonio Fasan si è discusso il potere politico dei colori. Renzo Biasion porge un’altra chiave di lettura per affezionarsi a questa disciplina, la pittura, di cui l’immagine non è altro che maschera mortuaria. La chiave offerta da Biasion è la storia: ogni quadro è fonte e testimonianza nonché, se contemporaneo, cronaca dell’attuale.

Al giorno d’oggi si utilizza l’affiliazione alla storia dell’arte per nobilitare l’operato di artisti viventi che fanno uso di vistosi riferimenti – “be’, si sente che ha studiato la storia dell’arte!” – quasi che codesta disciplina sia avulsa dal mondano consumo quanto la sfragistica. La storia dell’arte non appartiene all’arte, bensì alla Storia; è uno dei tanti modi in cui si studia il percorso compiuto dall’uomo, non da forze invisibili.

Ricordo con una certa vividezza le lezioni di storia dell’arte impartitemi quando ero bambina. Nei libri di testo delle scuole italiane l’arte era un serpentone hegeliano, gli artisti non erano che esempi per il dispiegarsi dello Spirito. Per prendere la sufficienza l’alunno doveva mostrare di aver capito le conquiste dell’Umanesimo, non quelle di Donatello. Questo pensare non viene applicato all’arte contemporanea, un po’ per pigrizia nei confronti di deduzione e induzione, un po’ forse perché si crede, idealizzandolo, che il denaro, la speculazione interna al mondo dell’arte, abbia domato lo Spirito. 

Renzo Biasion nasce a Treviso nel 1914 da famiglia veneziana di navigatori e antiquari. Quasi trentenne, si trova impegnato sul fronte greco-albanese e poi internato in un campo di prigionia nazista. Scrittore di stampo neorealista, il suo Sagapò, antologia di racconti ispirati all’esperienza di soldato, è pubblicato da Vittorini per la collana “I gettoni” di Einaudi. Un altro dettaglio estremamente rilevante nella vita di Biasion è che per 34 anni ha scritto critica d’arte per il settimanale Oggi, rivolgendosi a un pubblico non specializzato; questo gli ha permesso di conoscere l’arte grande e piccolissima a lui coeva, e di seguirla senza interruzioni. Biasion è stato insomma il prototipo dell’artista che ne sa una più del diavolo, a oggi ancora temutissimo giacché persino il narcisista è considerato più manipolabile del sapiente. Parte della grandezza di Biasion ha risieduto nel non essere mai succube della propria cultura, nel non trasformare la propria conoscenza enciclopedica in bulimia poetica, nel distinguere sempre l’Io dall’Altro e nel capire che il vero artista non può utilizzare tutte le immagini proposte dal mondo. Che, insomma, è più ardimentoso limitarsi a quel poco che è il destino di ognuno.

La cifra di Biasion, squisito incisore oltre che pittore, è stata quella di rapportarsi a ogni superficie o schermo ottico come fosse la pagina di un libro. Le sue opere più notevoli rappresentano facciate di edifici e pareti d’interno suddivise in cornici, rettangoli, finestre di testo. Spesso queste aree geometricamente abbozzate sono graffiate con ghirigori che disegnano il mobilio domestico, decorato di ricci e torniture: un Matisse della gommalacca. Il suo periodo più pregnante è stato quello bolognese, che va dal 1954 al 1965, «contraddistinto», scrisse Marcello Venturoli, «da una visione del paesaggio urbano di periferia, inconfondibile ancora in quegli anni a Bologna, cupo e solitario, ma splendente di cromia, al comun denominatore dei rossi». 

Impensabile eppur morigerata crasi tra T.S. Lowry e Mimmo Rotella, la Bologna residenziale ritratta da Biasion. Tesserata di panni stesi, poster, tendine e balconi, assomiglia a un parco in miniatura per bambole avanti negli anni. È dignitosa, tranquilla, terribilmente familiare, punteggiata di smalti verde bottiglia; i casoni di argilla appartengono sia all’Italia dei carri che a quella delle berline. Si sa: Bologna è la città che più si presta a ospitare la commutabilità dell’uomo e la fissità delle cose, la noia provata da ogni orologio, la dispersione nel ricordo. È commovente che quei quadri, in cui si intuisce l’operaismo benché siano tiepidi e borghesi, siano stati dipinti nella metà del secolo. Essi vivono come un fermalibri che separa i giardini d’infanzia di Adriana Zarri e Cristina Campo dalle nostre gite volte a rintracciare il tempo che fu grazie a crescentine, birre in oratorio e mercati del vintage.

Vivere nel tempo è cosa d’altri tempi, a noi nipoti del postmoderno non resta che giocarci: tira e molla, rimpiattino, un flirt, un bacetto, levarsi un calzino, un giorno cotonati, un altro lisci, e alla fine morire con i chip nella retina e la crinolina stretta in vita. Se non che i quadri – anche i più inesauribili, avveniristici, eterni – ci inchiodano al passato perché ognuno di essi è testimonianza di un’esigenza espressiva situata nella storia.

Al pari di Pigato e Fasan, anche Biasion per tutta la vita ha rifiutato l’affiliazione a movimenti di avanguardia e di reazione nonché a gallerie, preferendo rimanere figlio di un Veneto lirico e astorico. D’altronde, come Fasan, ancora giovinetto Biasion aveva ricevuto il benestare da De Pisis, una sorta di cedola per uscire dal tempo. Eppure, persino l’arte di questi veneti che hanno fatto voto di castità verso lo Zeitgeist, che hanno strofinato con la cenere i titoli più roboanti del Corriere della Sera… persino la loro umiltà è serva della Storia. I quadri di case rosse della periferia bolognese vivono come parentesi ricamate al centro del secolo, un poco affettati, elegiaci, rivolti all’ “urbanistica dell’anima”, ma al contempo capaci di trasmettere il passaggio della periferia da quartiere a identità.  

Di fronte a ogni quadro – visto al mercato, al poliambulatorio, in casa di parenti – bisogna impegnarsi per cogliere il dato storico. Spesso è camuffato: l’arte che fa largo uso di citazioni non discute la storia dell’arte, ma mistifica se stessa. L’arte che utilizza un linguaggio futuribile traveste, talvolta queerizza, il presente. L’arrendevolezza all’approccio realista – come è stato il caso di Pigato, Fasan e Biasion – spesso soggiace a un disinganno e può essere più introspettiva di quella che esibisce un panorama simbolico. Ogni quadro è un rompicapo, una possibilità di studiare la Storia, una presa di posizione politica nascosta tra colori e superfici. Spero, con questa trilogia di articoli, di aver acceso nel lettore affetto e curiosità verso quel quadro di paesaggio da tre soldi appeso da decenni in corridoio.

ARTICOLO n. 86 / 2023

ANTONIO FASAN, UN FORNO GIALLO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Ogni giorno si compiono numerose scelte di selezione e ben poche scelte d’invenzione. Mi sveglio e, tuta o tailleur, decido come vestirmi. Al cafè, premo il dito sulla vetrinetta per segnalare il pasticcino che desidero. Al negozio di arredamento, mi domando se acquistare il cuscino di chintz o quello di lino (compro quello in lino anche se il mio cuore è di chintz). Cuore, cuore… Lui mi scrive di essere nell’atrio, che emoji gli mando? Sì, un cuore, ma di quale colore? Giallo, bianco, marrone, grigio, arancione, azzurro, blu o un disperatissimo rosso?

Quasi ogni movimento della quotidianità presuppone la scelta necessaria o contingente di un colore preselezionato da tendenze, usi, costumi, disponibilità; a noi è chiesto solo di abbinarlo o tuttalpiù di rapportarci a esso accogliendolo o rifiutandolo.

Nelle arti definirsi ‘colorista’ equivale ormai a offrire un Plasmon anziché un chewing gum. Molti artisti hanno solo una vaga idea del perché usino determinati colori; anzi, sempre più spesso il colore trascende l’artista immettendo nell’opera sottotesti che l’ignaro artefice maneggia solo in seconda istanza. 

Chi ha già letto il primo episodio di questa serie dedicata al paesaggismo veneto sa che non scrivo di pigmenti o pruderie tecniche, bensì dei significati morali, economici e politici veicolati dai toni e dalle sfumature. Al rosa shocking basta un niente per divenire il più statalista, se non fascista, e paranoico tra tutti i rosa, ma può essere ammansito con un nero tinto nel marrone e in qualche gocciolina del sangue di Marie Duplessis.

Nella mia città, Padova, che io vedo giallorosa e allegra come una madonna che si è persa tra le villette residenziali, ha abitato, nel secolo scorso, un pittore che faceva il fornaio in Piazza della Frutta e che durante il Ventennio trascorse i suoi twenties and thirties inventandosi colori domenicali, fiduciosi e antifascisti. Aureolini pescati, azzurri lavati caricati di bianco, verdi menta luminosi e saturi.

Antonio Fasan (1902 – 1985), amato e collezionato in vita da spiriti cui non siamo indifferenti quali Giò Ponti e De Pisis, è da tutti descritto come un fanciullo speculativo che appare tra le farine del forno. Il critico e pittore Vincenzo Costantini lo paragona a un «tipo di studente o giovane farmacista che, vestito di un lungo camice bianchissimo ci guarda con occhio immobile dietro i vetri degli occhiali». Anche il mercante Carlo Cardazzo rimarca la bontà di Fasan: «è veramente “un candido”» e «sembra più un allievo della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola che quello che è». Giò Ponti, che lo coinvolge in mirabili progetti, compendia Fasan nella “’impenetrabilità dei temperamenti sensibili”.

Fasan comincia a dipingere nel 1926 e oltre all’ambiente padovano frequenta dapprima quello veneziano, dove grazie alla Biennale scopre Modigliani che lo allontana da Ettore Tito, e si appassiona a Renoir e Degas, per cui tradisce Ciardi e Zandomeneghi. Non si iscrive all’Accademia ma visita gli studi dei pittori di poco più anziani, tra cui Ottone Rosai e Giorgio Morandi. Ammira un coetaneo, lo speciale Giuseppe Viviani. 

Fasan dipinge farfalle, conchiglie, ventaglietti, fichi, viole del pensiero, cachi, l’esterno degli Scrovegni, cavallucci marini, le strade dove passeggio e pasteggio, calicantus e alchechengi.

Nei decenni in cui la casa era amministrazione della donna “custode del focolare”, “madre nuova per figli nuovi”, mater matuta, a mesi alterni gravida o gonfia di minestra littoria (un consommé chiarificato servito con bignè), Fasan ama stare in casa: ritrae la moglie Carmela e impara la lezione da tappezzerie, tovaglie e calzettoni. Il pittore è muliebre: si spegne il truce focolare, risorgono le stanze. Lo stesso giallo saltella da un paio di pantofole agli affreschi di Jacopo da Verona presso l’Oratorio di San Michele alle casette che verranno costruite poco prima del boom.

Poveri i colori, oggidì prigionieri politici tra delinquenti comuni sull’isola dei consumi, allontanati dalle tribune… Eppure, ogni tanto se ne sente parlare. In questo anno 2023 la rozzezza patriarcale della politica italiana ha trovato ulteriore sfogo nelle critiche a Elly Schlein colpevole di essersi rivolta a una esperta di armocromia. Io stessa, che nella vita invento colori e scrivo di colori quotidianamente, mi sono rivolta tempo addietro a una deliziosa armocromista del trevigiano, cui ora affiderei anche la scelta delle mie espressioni facciali. 

Ben prima di suggerire quali colori conviene utilizzare per non sembrare uno zombie (sempre che un aspetto in salute sia desiderato), l’armocromista rivela al cliente di quale tono e sottotono è la sua pelle: freddo, caldo, chiaro, scuro… Probabilmente paghi di sapersi bianchi, gli avversari di Schlein hanno trovato ulteriore modo di declassare l’intelligenza cromatica a suon di risate e sbuffi.

Mi ricompongo e torno a Fasan, con le parole di Giovanni Comisso: «È un placido, sereno e distillato pittore. Egli incomincia come l’ostrica a lavorare lentamente di madreperla un granellino di sabbia, scoperta l’essenza di un oggetto, di un paesaggio o di una figura egli lentamente la elabora, sempre negli elementi strettamente necessari, portandola ad una evidenza preziosa e brillante. Sue doti principali sono: gusto di colore e sommessa, ma armoniosissima fantasia».

‘Fantasia’, parola ancor più tabù che ‘colorista’, soppiantata da ‘creatività’, nozione commercialista-friendly, o da ‘immaginazione’, più gestibile dai pedagoghi. 

Fantasia coloristica è saper accedere a manifestazioni cromatiche che non abbiano senso, ma che creino il senso. Nulla è più difficile del colore. Il disegno si vede, il colore si percepisce. Per associare un messaggio a un colore, per creare un nuovo messaggio, è necessario essere iscritti da anni alla palestra della trascendenza così come è necessario vivere nell’astrazione, ovvero destrutturare ora dopo ora, giorno dopo giorno, lo spirito cromatico dello zerbino del vicino, di un buco nell’asfalto, una vetrina di Tigotà, una tiara, un Pontormo, un pannello di laminato bianco con orribili macchie effetto legno, una teiera, un cappotto di Max Mara, un bubble tea.   

Tutti bravi ad adorare Morandi, che ovatta le anime scosse nei grigi bruniti del suo inimitabile stillicidio; ma sfido il lettore ad amare un altro adepto della madreperla, Fasan pittore fornaio: saturò i colori più pii, puerili e sereni per inventare la pace in tempi di guerra.

ARTICOLO n. 77 / 2023

ORAZIO PIGATO, CIELO BIANCO

Quanti quadri vediamo ogni giorno? Tantissimi, anche nei luoghi della quotidianità: sale d’attesa, mercati, trattorie… Orazio Pigato, Renzo Biasion e Antonio Fasan – tre pittori veneti del ‘900 attenti all’umiltà e alla domesticità dello sguardo – ci accompagnano in questa trilogia di articoli pensati per riconciliarci con i dipinti, di tutti i tipi e qualità, che sono intorno a noi.

Pranzo in trattoria. Alle pareti un gabbiano un po’ storto, il ritratto di una ragazza con la blusa di Minni, un piatto da portata carico di pennellate azzurre. Attendo una prescrizione nella sala d’attesa del medico: la veduta di un laghetto, un putto brunito dal tempo. Per tornare a casa attraverso il mercato delle pulci: una flotta di navi a righe, una pioggia di virgole s’abbatte su un alberello. 

Quanti quadri incontro ogni giorno, tantissimi. Occhieggiano nei luoghi della quotidianità, testimonianze di un sentire che qualcuno, forse non un artista, ha formalizzato in un qualche giorno di un qualche anno. Esposti alla disattenzione; più immediati e dunque indifesi di un documento scritto o di una traccia audio o video. Oggetti bizzarri i quadri, domestici e dispersi.

Guardare in contesti occasionali tanti quadri brutti o banali o decorativi o dilettanteschi è importante. Quando l’occhio è maleducato ma il display è buono e l’ambiente arioso, lo spazio bianco di una galleria è in grado di nobilitare anche una tela dipinta al grest. Al contrario, per intuire la reale forza di un dipinto è utile, come in un rendering mentale, sottrarlo al bianco e riposizionarlo tra le ‘cose’; sul marciapiede di un mercato, per esempio, tra rubinetterie di ricambio e posacenere, oppure localizzarlo in quelle abitazioni da professionisti all’italiana in cui volenti o nolenti ogni tanto si accede. Eccolo, il quadro, cinto da una robusta cornice bianca, tra tappeti in polipropilene, fermacarte Swarovski e fotografie di bambini sdentati.

In contesti di questo tipo ho incontrato i dipinti degli autori veneti di cui scrivo in questa trilogia di articoli: Orazio Pigato, Antonio Fasan (1902-1985), Renzo Biasion (1914-1996). Sono convinta che se non avessi prestato attenzione nel corso della mia vita a moltitudini di dipinti qualunque – banali, ingenui, pacchiani, scartati, rovinati, tradizionali, irrilevanti – non avrei mai colto la diversa timidezza dei quadri di Orazio Pigato, l’avrei persa nella modestia di altri paesaggi disseminati nel formicaio di negozi antiquari e mercati della provincia italiana, che salvano il salvabile, spesso democraticamente. Per questo The Italian Review, rivista priva di immagini, è il luogo giusto in cui scriverne – non tutta la buona pittura salta all’occhio, alla buona pittura ci si può anche ‘addomesticare’, termine che scelgo per sottolineare una difficile dimensione di mitezza e pazienza dello sguardo dello spettatore.

Tra centinaia di vedute della campagna veronese, impressionismi alberghieri inghirlandati di amarene Fabbri o bruni uvettosi da casa canonica, ma anche tra tanti quadri benfatti, perché un orto, un casolare, una veduta di Cavaion sono diversi, sono opere d’arte, se dipinti da Orazio Pigato?

Mi sono imbattuta nella storia di Pigato in un periodo in cui collezionavo scritti di Renzo Biasion. In un volumetto del 1971 pubblicato dalla Galleria Ghelfi di Verona e intitolato Liricità di Orazio Pigato, Biasion – protagonista dell’ultimo articolo di questa trilogia – scrive poche righe in cui condensa il senso di mantenere un’identità regionale all’interno di prospettiva e cultura internazionali: «Si sa, i veneti sono portati al colore. Una linea del colore veneto potrebbe partire dai primitivi e fermarsi a Guglielmo Ciardi? A mio parere non esiste soluzione di continuità tra un Guglielmo Ciardi e un Pigato. La linea del colore veneto prosegue e si rinnova con tutti i moderni paesisti, da Semeghini e Gino Rossi ai trevigiani e ai veronesi. Tutti hanno guardato i francesi ma sono rimasti veneti, in loro è rimasto l’antico sangue».

Orazio Pigato nasce a Reggio Calabria nel 1896, trascorre sin dall’infanzia la vita a Verona dove muore nel 1966. Inizia a esporre nel 1918 al Museo Civico di Verona; nel 1921 è in una rassegna regionale d’arte di Treviso; nel 1922 è ammesso per giuria alla Biennale; del 1923 la prima partecipazione a Ca’ Pesaro, e poi ancora, nel ‘24 e ’25, Biennale e Ca’ Pesaro. Anche Umberto Boccioni era nato a Reggio Calabria e morto a Chievo, Verona, a 33 anni, nel 1916. I primi critici insistono sull’ombra lunga dell’ardito Umberto, mentre altri asseriscono che i dipinti giovanili di Pigato, perduti, fossero debitori a un certo post-impressionismo veicolato da Gino Rossi ma visto anche su tele francesi. Guido Perocco, in Pittori di terra veneta (1969), lega Pigato alla lezione di Corot in maniera più convincente. Biasion e Perocco sono coerenti sul posizionamento di Pigato. Costui presenta – scrive Perocco – una “impronta lirico-patetica, “tipicamente veneta” e “stati d’animo di soffuso lirismo […] entro una visione che denuncia un profondo equilibrio e serenità interiore”. Anche Biasion, in chiusura al suo scritto, insiste su come la moralità di Pigato sia in sé artefice dell’opera: «Per esempio, chi ha mai parlato della “classicità” delle composizioni di Pigato? [..] Le mostre attuali serviranno a farlo a conoscere meglio e a dargli il posto che gli spetta nella pittura italiana dal ‘20 al ‘60? È sperabile. E i giovani saranno disposti a capire il lato pittorico e il lato umano dell’opera sua? Un alto ordine morale l’ha regolata ed è da augurarsi possa servire da esempio». 

I giovani, le generazioni nate successivamente al miracolo economico, non sono stati poi così disposti. La sfida era quella di leggere una morale, un’architettura del sentire, attraverso le impalcature del disegno oppure del colore. Come reperire la moralità di una sfumatura di rosa, garrula o corrucciata che sia? Esiste un’amoralità nella saturazione di un verde? Può un grigio differire dall’altro e divenire immorale? Eccome, suggeriscono questi critici veneti gustosamente ingialliti. Un grigio può essere sgargiante, secco, monumentale, umile, estivo, invernale, danaroso, muffoso, stupido, dottorale, frivolo, sepolcrale. Per questo un d’après può essere la nemesi del quadro originario. Pigato domava la sua tavolozza, allevava rosa, grigio, verde e bianco come galline. Ne conosceva l’età, il mangime, usi, bizze e costumi, il sapore delle loro uova. 

Lo spettatore di pittura contemporanea spesso ambisce a incontrare un’opera che gli proponga un’epifania visiva: costui entra in uno stanzone e aspetta che l’opera lo “colpisca”, quasi che il moto dell’attenzione si direzioni dall’opera al fruitore e non viceversa. L’inanimato, a guisa di sanguinosa sirena, richiama col canto l’animato e lo ghermisce. Invertendo il processo si restituirebbe la carica attiva allo spettatore e quella passiva all’opera, e si tornerebbe a comprendere il valore del termine utilizzato da Biasion, disposizione: i giovani “saranno disposti”? Leggere un quadro, leggerlo nell’intimo fino ad arrivare ai valori del suo autore, è una gran fatica, irta di tranelli, giusta. Dinanzi a un quadro, sia esso esposto al poliambulatorio o in galleria, è chiesto di scegliere: leggere l’opera o (pensare di) essere letti da essa? 

Morale: parola bellissima e laica di cui oggi spesso s’impadroniscono eruditi manigoldi conservatori. Dov’è la morale di un pittore?  Utilizzo un appiglio che niente ci azzecca, ma che torna utile all’interno di una fruizione “comunicata” o “popolarizzata” dell’arte come quella attuale: il primo capitolo dell’ultimo libro di Martin Amis, La storia da dentro, si intitola “Etica e morale”. Personaggio tra i personaggi, Saul Bellow racconta una storiella riguardante una chiesa della Rinascita in West Virginia e un predicatore puritano indagato per truffa che frequenta un sex club attingendo dalle elemosine. Bellow spiega che in America i due peccati sono stati percepiti in maniera diversa: «La morale riguarda il sesso, l’etica il denaro» – andare al sex club è immorale, pagarlo con i soldi delle elemosine è non etico. Applico questa differenziazione pop tra etica e morale alla pittura visibile oggigiorno: parte della figurazione contemporanea, con i suoi apparati narrativi travolgenti onirici o realistici volti allo stupore, all’enfasi e alla malia, è spesso etica immorale; le immagini che essa contiene non ledono alcuno, ma cercano di infastidire o meravigliare gli spettatori irritabili o in cerca di straniamento. Proprio perché si è ormai predisposti a immagini etiche e immorali, entrare nella morale del nostro paesaggista veneto è laborioso. Pigato è morale e la morale di Pigato è la serenità, consustanziale alla breve stanchezza che precede la sera, alla mitezza, ai cieli mai azzurri e sempre lattiginosi, pesanti di umidità e polveri, poggiati sui tetti delle case, privi di raggi, stesi.

ARTICOLO n. 64 / 2023

LE MIE LACRIME EVAPORANO

La temperatura dell'estate

Da un decennio faccio finta che non sia estate. Questo perché l’estate italiana è pura cronaca, un canale all-news che alterna barbecue, roghi e stelle cadenti.

Scrivo questo primo paragrafo a inizio giugno e già immagino i dolori dell’estate: scemeranno i titoli che sostituiscono a “catastrofe climatica” la parola “maltempo” e inizieranno le perifrasi per descrivere l’Italia che brucia. Qualcuno in settembre dirà che un’alta percentuale di roghi dolosi è dovuta a “povera gente” che fa danno per ledere il vicino, far crescere gli asparagi selvatici, non annoiarsi, stanare i cinghiali. Gesù, i cinghiali – inizieranno i servizi sui cinghiali nell’Urbe deserta, sui cassonetti che bruciano, sulle code, sulla necessità di idratarsi col gelato gusto frutta ché la crema fa ingrassare, sull’escherichia coli e gli enterococchi nelle acque calde e sporche. Qualche sudato amministratore si mostrerà scandalizzato perché un tedesco in mutande si è tuffato in un canale di Venezia, nella prospettiva di multare persino i bagnanti nei teleri di Gentile Bellini; qualche politico commenterà le azioni estive di Ultima Generazione (che nell’agosto 2022 si incatenò alla Cappella degli Scrovegni, l’unica immagine dolce come la giustizia dell’intera stagione) e lo farà con parole tanto bonarie quanto inascoltabili. I social perderanno l’unica utilità di strumento di divulgazione professionale, per mostrare foto di paradisi naturali che porteranno alcuni a pensare di provare invidia quando no, non la proveranno più, perché l’invidia richiede immaginazione. Poi arriverà l’ecfrasi degli storyteller novecenteschi, i templari della Sammontana: scrittori, poeti, editorialisti, tendenzialmente Millennial, determinati a liricizzare tutto, tovaglie onte, teste di triglia, latte di Coca-Cola tra i cardi, schedine dell’Eurojackpot aggrovigliate alla lattuga di mare. Filtrata dalla loro penna l’estate italiana è un sospiro languido e dorato; la Morte è in ferie, il caldo ci accarezza, tutti sono innamorati. E poi di nuovo cinghiali.

L’estate. Proprio oggi leggo sui quotidiani che la Procura di Padova, la mia adorata città, ha impugnato 33 atti di nascita, dal 2017 a oggi, di figli di coppie omogenitoriali, dichiarandone illegittimo già uno. I bambini si troveranno orfani di un genitore davanti alla legge. I fratelli non saranno più fratelli. Il Procuratore esclude ripercussioni sulla “vita sociale” della bambina a cui è già stato negato il secondo genitore; e la vita interiore, psichica, il simbolico di quella bambina, chi lo tutela quello? Quale estate dovrebbe mai iniziare con una notizia così? 

Inutile dire che c’è l’idea di estate italiana, e l’estate stessa. Ogni ventuno di giugno inizia il dickensiano Canto d’Estate, prendiamo per mano un tizio smunto con i braccioli, lo Spirito dell’estate passata: rivediamo la piazza di campagna piena di passerotti che saltellano tra le chips, oggi sbranati dai gabbiani; di sera corriamo verso il campanile inseguendo il garrito delle rondini, oggi ingollate dai falchi. Con le palpebre socchiuse e impastate di crema solare, udiamo la cantilena del Cocco Bello e il papà sbuffare perché qualche altro bimbo gli ha spruzzato il giornale con l’acqua di mare; il nostro sudore profuma di lenzuola d’albergo e ci innamoriamo di qualsiasi ragazzino che abbia il caschetto di DiCaprio. Il nostro nostalgico amico, lo Spirito, ci dà un bacino e ci si scioglie appresso, lasciandoci alla mercé di un sole antagonista.

L’estate italiana è dei bambini, agli adulti ormai si dovrebbe chiedere solo di arginare i danni e sopravvivere moralmente. E proprio per elargire un consiglio in merito alla sopravvivenza morale ho deciso di unirmi a questa serie estiva dedicata all’idea di temperatura. 

Il mio consiglio: piangere leggendo, piangere copiosamente nella giornata più calda della stagione; affrontare una catarsi che frigga insieme moccio e sudore, questo è l’unico modo per resistere all’Italia che ci si scioglie tra le mani.

Nel giorno torrido dell’estate 2022, la più calda dal 1979 e quella che ha segnato la più grave siccità in Europa nel corso di cinquecento anni, sdraiata in un posto indefinito lungo la costa Est sudavo l’acqua che non avevo bevuto, mi ricoprivo la pelle fototipo 1 di bolle, mentre il naso si intasava poiché leggevo e rileggevo i ricordi di Edith Eva Eger e in particolare la pagina in cui si separa definitivamente dalla madre davanti all’ingresso di Auschwitz. L’anno prima si consumava la medesima scena lungo la costa Ovest con un libro di Mario Tobino, Per le antiche scale, che racconta l’andirivieni in un manicomio lucchese poco dopo la metà del secolo; meno straziante a livello oggettivo, ma commovente per me che sono affettivamente ossessionata dagli alienati. L’estate antecedente era stato il turno di Tutti i viventi di C.E. Morgan, che mi aveva commosso pazzamente ma non ricordo perché, rammento solo che mia cugina chiese: “Cazzo piangi ancora?”. L’anno prima fu la volta di un paginone della nostra migliore scrittrice, la Rosa Matteucci, che ho il privilegio di chiamare amica; non ricordo se per una scena con il padre o in memoria di un infante, fatto sta che le telefonai con voce spezzata e lei, sempre contegnosa, mi liquidò con un “Caretta sto marciando”. Quest’anno penso di essermi bruciata il libro più straziante in maggio, Come d’aria di Ada d’Adamo, la storia della scrittrice, ancor giovane madre malata di cancro e di sua figlia, affetta da una grave patologia. La narrazione piena di grazia dei loro corpi esili, sofferenti e dipendenti, del destino di uno quando sarà privo dell’altro, s’intreccia al pulsare sociopolitico di temi come l’aborto terapeutico, il dopo di noi, le barriere non solo architettoniche, attraversati da queste due creature massimamente femmine.

Ricercare lacrime interpersonali, che esulano dai propri dolori, nei giorni in cui gli italiani si dimenano per celebrare l’idea di estate, offre conforto. Tiene saldi alla vita, impedendo a questo nemico, il nuovo caldo, di bruciare la coscienza. Forse la mia è solo una versione alfabetizzata dell’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, il “tenace attaccamento” della povera gente allo “scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, la “rassegnazione coraggiosa” all’affanno, quando si è sostenuti da alcuni valori. Forse lo scoglio cui sta attaccata la mia ostrica è il dolore corale, oggi soppiantato dalla sua confusa sorella, la rabbia. 

La rabbia divora se stessa oltre che la mia siesta. Gradi 32, sdraiata sul divano ascolto una voce provenire dalla radio, un dirigente privo di biografia utilizza parole populiste per annientare il concetto di agroecologia. Sento: “tradizione” – mi assopisco pensando che non va bene che persino gli agricoltori abbiano cominciato a starmi sulle palle – “melanzane…”. Zzz. Questo problema dell’essere privi di biografia è penetrato nel mondo dell’arte: artisti bravissimi, privi di biografia. A dover raccontarne la vita dopo i diciotto anni, si elencherebbero le mostre in istituzione; per fortuna che le privazioni infantili spesso corrono in soccorso al discorso biografico, altrimenti costoro sarebbero per la maggior parte grandi professionisti, alla meglio professionisti con vizi. Mi sveglio, qualcheduno su Radio3 parla di Botticelli, ma io ho cominciato a odiare persino Botticelli e pure questo non va affatto bene. Nel mio dormiveglia dittatoriale, sogno di rinchiudere La Nascita di Venere nel deposito degli Uffizi, privando ben tre generazioni di Italiani di quella composizione lassista. L’arte negata è arte politica. Zzz. Un’intervista a un bagnino. Zzz. Il meteo.

Se la temperatura delle estati d’adulta è quella che permette alle lacrime della mia catarsi arrostita di seccarsi sulla pelle, da ragazzina era la temperatura della Resistenza. Al liceo, l’intera classe fuorché la sottoscritta adorava il professore d’italiano. Il prof era borbonico, penso, e dava da sei in su onde poter dire in classe quello che gli pareva. I miei compagni mangiavano la carota, felici di avere un professore così bonario. Questo individuo dell’Italia che fu aveva un programma culturale riassumibile in: Tomasi di Lampedusa, Federico de Roberto, tutti i librettisti d’opera e stop. Di conseguenza la mia scaletta di letture estive doveva compensare le lacune dell’anno scolastico: sotto l’ombrellone si portava Pratolini, Fenoglio, Vittorini, i lenti vagoni dei loro treni, la polvere sulle loro suole. Mi sembra archeologia, l’idea che una ragazzetta veneta litighi su Fontamara con il proprio professore abruzzese, però l’esempio è utile a suggerire l’idea di quanto sia cambiata, almeno per me, la temperatura dell’estate. I venticinque gradi percepiti di allora accompagnavano la mia scaletta estiva di libri utili a conoscere l’Italia magica che mi aveva preceduta, i 35 gradi di oggi accompagnano lo scalone di libri dolenti che aiutano la mia coscienza a rimanere salda, contro ogni canale all-news, contro chi fa spallucce se interrogato sul prelievo dell’acqua per uso agricolo, contro il gelato al pistacchio come unico pasto, contro il mirabolante evento di ritrovarsi un cinghiale nel cassonetto.