Silvia Ronchey

ARTICOLO n. 61 / 2024

EROS

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

«Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere», diceva Lucrezio (De rerum natura, IV, vv. 1105-1111). 

Ma se, scriveva tre secoli prima Platone nel Simposio, Efesto il fabbro, il dio del fuoco e delle fucine, apparisse in quel momento ai due amanti con i suoi strumenti e chiedesse: cosa volete? forse volete fondervi? Io potrei farvi diventare da due uno solo, finché sarete in vita e poi ancora nel mondo dei morti, loro stupiti e imbarazzati direbbero di sì, che è proprio quello che da tempo desideravano, da due diventare uno, congiungendosi e confondendosi (192d). 

Sempre nel Simposio Aristofane racconta che in origine gli esseri umani avevano quattro braccia e quattro gambe e due facce rivolte all’opposto su un’unica testa, e quando volevano muoversi velocemente rotolavano come una palla. Fu Zeus, per moderare la pretesa di perfezione di queste creature sferiche, a dividerle in due, incaricando Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero di fronte. Ma gli esseri umani così scissi sentivano una terribile mancanza dell’intero originario e ognuno andava cercando la metà perduta e la abbracciava e cercava di fondersi con lei, fino a morire di inedia e di inazione. Perciò Zeus, impietosito, inventò l’unione sessuale e da allora ogni essere umano cerca di ritrovare così l’unità antica e di riunirsi alla metà mancante (189d-191d). 

«Ma coloro che trascorrono insieme tutta la vita — cito ancora — non saprebbero neppure dire che cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno potrà credere che si tratti solo del piacere sessuale. È evidente che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere. Di ciò che vuole ha un presentimento, e parla per enigmi».

 «La verità, vi prego, sull’amore», invocava Wystan Hugh Auden. Non c’è nulla di più beffardo del discorso di Aristofane nel Simposio e del suo mito degli uomini palla. Chi può dire di conoscerlo, l’amore?

Eros stesso è l’unico dio che non è né sapiente né ignorante. Nel Simposio c’è il famoso discorso di Diotima, dove dice (203e): «Eros non è mai sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza». Segue spiegazione: «Gli è propria la tensione verso la sapienza, dunque è più ignorante dei sapienti; ma d’altra parte non è ignorante, perché gli ignoranti non desiderano diventare sapienti». 

Il fatto è che Eros è figlio di una mancanza: sua madre è Penìa, Povertà, che durante il banchetto per la nascita di Afrodite chiede l’elemosina alla porta degli dèi. Lì si imbatte in Pòros, figlio della dea Mètis, Intelligenza. Lui è ubriaco e lei lo seduce mentre è semincosciente. Dal connubio nasce Eros, che contiene in sé un’assenza, un’indigenza (penia), ma proprio da questa è spinto a cercare ogni via, sotterfugio, espediente (poros) per raggiungere ciò cui tende: così Platone, Simposio, 203b-e. In questo senso per Diotima Eros, non essendo né mortale né immortale, in una stessa giornata ora vive, quando trova una nuova strada (poros), ora muore ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ma ciò che si è procurato è poco e scorre sempre via (203e). 

Perché è vero che l’amore è una manìa, ossia una forma di follia in senso tecnico, classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia, per esempio nel Fedro di Platone. È vero che, come diceva Omero, l’amore fa perdere la ragione anche ai più saggi. È vero che scrolla la mente come una ventata che si abbatte sulle querce, come diceva Saffo. Che suscita nella psiche un’affezione bipolare: «Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo», come diceva Anacreonte. Che sgomenta chi dopo anni riconosce il suo «sguardo struggente sotto le palpebre scure», come Ibico: «Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci».

Ma è anche vero che solo attraverso questa emozione che “scioglie le membra” proprio come la morte al guerriero omerico (la formula omerica: «Si sciolsero le membra, e la vita volò via»), attraverso questa vana macina di ricchezza e miseria – tutto ciò che Eros accumula scorre via, per questo non è mai né povero né ricco –, di sapienza e ignoranza, questo continuo sperpero che chi ama fa di sé, l’amore crea quello stato di vuoto, di penuria assoluta, di vanificazione dei fini materiali di cui affolliamo la nostra esistenza per superficialità, per horror vacui, per orrore del vuoto, o semplicemente per conformistica, depressa accettazione delle regole della tribù. 

Eros sgombra il campo: procura un’alienazione mentale che ci salva dall’alienazione sociale, ci mette in contatto con l’assoluto, ci rende indifferenti a ogni status aleatorio, a ogni ricchezza illusoria, ci spinge a raggiungerne un’altra più profonda. Eros «ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità» (Platone, Simposio, 197d).         

Per questo l’amante è più caro al dio e più divino dell’amato (180b). Il desiderio alimentato dalla mancanza fa sì che l’amante continuamente si ravvivi e la passione diventi tensione verso la ricerca di un inesprimibile bene e faccia di lui «un uomo destinato a vivere in modo bello» (178c) e a «creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima», come dice la maestra d’amore di Socrate, Diotima (206b-c).

Così, come nella fiaba di Amore e Psiche, Eros è il misterioso tramite dell’unica possibile conoscenza umana, il mezzo dell’unico possibile miglioramento individuale, il veicolo dell’unica possibile sintonia della psiche con il cosmo. Perché l’una e l’altro, per i greci, sono generati e permeati da Eros. 

Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Nella Teogonia di Esiodo emerge direttamente dal caos, nelle cosmogonie orfiche si identifica con la stessa energia cosmica: come racconta Aristofane negli Uccelli (693-699), dal seno sconfinato dello spazio primordiale, da Caos, Notte, Erebo, Tartaro, che ospitavano la materia senza che ci fossero ancora terra né aria né cielo, «la Notte dalle ali di tenebra generò un uovo pieno di vento, e da questo uscì Eros, sul cui dorso splendevano ali d’oro, ed era simile alla tempesta, e congiunto a Chaos nella vastità del Tartaro covò la nostra stirpe e questa fu la prima che venne alla luce».

Ed è così che gli umani, per citare Cole Porter, begin the beguine, cominciano la danza — una danza estenuante, come appunto la beguine. Nessun essere umano può essere defraudato della sua energia. È una forza che porta ordine al cosmo e un apparente disordine all’anima. Ma se raccogliendo la sapienza greca si contempla nel microcosmo dell’anima il processo ciclico di desiderio e tensione, unione e creazione, distacco e mancanza, sconvolgimento e rinnovamento che governa il grande cosmo, se ci si immerge nel suo vuoto e ci si specchia nel suo  caos, se ci si scioglie dalla sofferenza dell’io per cogliere nelle vicissitudini della psiche individuale il riflesso dell’anima del mondo, si può come i greci avere il dono di avvertire, nella beguine di Eros, il rumore di fondo dell’universo.