Silvia Calderoni

ARTICOLO n. 55 / 2024

SMISURATO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Bologna. Sono qui da qualche giorno in prova con Motus, la compagnia con cui lavoro da quasi vent’anni: stiamo per debuttare in città con il nuovo spettacolo, Frankenstein (a love story). In realtà non è la prima volta che lo mettiamo in scena ma i nuovi lavori, che iniziano acerbi a stare nel mondo, hanno bisogno di tempo per prendere sicurezza e imparare le leggi interne che li governano. Per questo mi piace pensare che ogni città è un nuovo debutto. È tarda mattinata, in teatro Theo e Daniela stanno finendo i puntamenti delle luci mentre Martina ed Enrico equalizzano i microfoni. Io non servo a niente dunque, dopo aver messo a posto i costumi, prendo qualche ora di stacco. Saluto Alexia in camerino e ancora con la tuta da training indosso il marsupio ed esco. E dal nero del teatro, ancora con l’eco del maniglione antipanico che sbatte dietro di me, divento tutta pupilla contratta dalla luce del sole. 

C’è un bel tepore, cammino sotto i portici vampireggiando e facendomi trasportare dalle scie della gente, aspetto che gli occhi si adattino al reale e io con loro. Faccio giusto in tempo a smettere di lacrimare che li vedo arrivare in due sulla stessa bicicletta: Eva e Omero, che coppia incredibile. È passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo incontrate, i loro capelli sono molto più lunghi. Non mi hanno ancora vista, sono concentrati nel loro passo a due: è così disarmante la loro confidenza. 

Li osservo nella parentesi di tempo prima che il loro sguardo mi intercetti e mi godo la mia invisibilità sovrannaturale. Poi mi vedono e la mia apparizione riordina tutto. 

Ci abbracciamo, Eva lega la bici, ci sediamo a un tavolino del bar e ordiniamo un caffè. Facciamo sempre, come minimo, due cose contemporaneamente. Un dialogo serrato come se l’avessimo interrotto la sera prima ci possiede: non ci vediamo da mesi ma fanno così le amiche, lasciano i convenevoli sul tavolo ed entrano come due razzi nella materia profonda, negli aggiornamenti di vita, in questo come stiamo che è matrice di ogni cosa. Un torrente di parole che scavalla il caffè, scavalla la passeggiata, scavalla la spesa dal fruttivendolo e ci teletrasporta in un camminare balordo mano nella mano nella mano in tre, in direzione di una stamperia in via Ugo Bassi.

Bologna è stracolma di gente, di bar, di stuzzicherie, di cibo. E nel tempo di questi discorsi appassionati mi accorgo come le vie soffrano di un blocco intestinale. Sature, gonfie, sudate, unte, strabordanti di grassi.

“È ok per te se entro in stamperia dieci minuti mentre rimani fuori con Omero?”

Omero è una delle poche persone che conosco che esulta di felicità ogni volta che nel suo campo visivo entra una Fiat Panda, corridore instancabile con una spiccata passione nel confezionare gelati alla sabbia bagnata. 

“Nessun problema, stiamo qui sotto i portici, facciamo un giretto”.

Omero ha un grande dono, si sposta continuamente e mentre lo fa anche le cose e le persone che ha attorno si spostano con lui in una ristrutturazione continua dell’ambiente circostante. Ignora le regole dello spazio urbano muovendosi a un ritmo imprevedibile in qualsiasi direzione, risignificando segnali stradali, marciapiedi, semafori, flussi cittadini, auto, biciclette che sfrecciano veloci. È beatamente dentro il mio stesso mondo ma è lui a disegnarlo, piedino dopo piedino. Ogni stimolo diventa direzione, ogni oggetto abbandonato diventa vettore irresistibile verso il pavimento. Mischia con coraggio il camminare con il correre, il saltare con lo sdraiarsi a terra, le lacrime con lo sputo. Straborda di entusiasmo per la città che misteriosamente controricambia dimostrando d’avere abbastanza spazio per contenerlo. Fino a che in un preciso istante di questo scarabocchio cinetico, si ferma per sempre, immobile, incastrato in un mistero. 

“A cosa pensi?”
Mi verrebbe da chiedergli. 

È concentrato su ogni sua distrazione, una collezione infinita di false partenze. Omero quando si alza sulle punte dei piedi non arriva all’altezza del mio coccige e questo mi commuove.

Si sfila continuamente dalla mia mano mentre provo a serrare la presa, al contrario rimane manina docile quando la lascio respirare e in questo assaggio di anarchia mi trovo anche io incastrata in un mistero. E Bologna diventa Parigi a metà del Novecento e Omero diventa il mio Guy Debord. C’è tutto: stabilire una relazione particolare con la città, abitarla come se fosse la propria casa. Disegnare percorsi che non coincidono con il resto della moltitudine, inciampare nelle buste della spesa cariche di Parmigiano e verdure biologiche, sfrecciare tra i cammini premeditati e assopiti dei passanti. La metropoli è un labirinto e Omero cambia forma a ogni suo passo: si lascia condurre dalla città che lo prende, lo guida e per un attimo, la città stessa riprende fiato. Flâneur senza bisogno di teorizzarlo, Omero è un piccolo dandy a zonzo, in deriva. 

Dentro questa moltitudine di eventi indipendenti, con il cuore in gola, temo per ogni suo passo: immagino che sparisce dietro all’angolo, che cade e sbatte il mento e si taglia con una bottiglia affilata, che si punge con una siringa rimasta lì dagli anni Ottanta, che viene investito da ogni bici, ogni auto, ogni autobus, che viene sbranato da ogni cane che passa. Che viene rapito dagli alieni, seriamente. Nonostante queste visioni terrificanti mi trattengo per non anticiparlo su ogni sua mossa e all’improvviso, dentro questo mio esitare, respiro e mi faccio guidare da questo piccolo caleidoscopio dotato di coscienza. Tramite lui mi ritrovo a godere pienamente dello spettacolo che la città offre, lasciando spazio nella mia partitura visiva a ogni continuo urto di cui Omero fa esperienza camminando per la città. 

Eva esce dal negozio tenendo tra le braccia una busta piena di fotocopie. 
“Cosa ne dite di andare a prendere la bici e fare una passeggiata fino a Gare de l’Est?”