Roberta Torre

ARTICOLO n. 51 / 2023

IL CINEMA È (ANCHE) TRADIMENTO

Intervista di Giancarlo Liviano D’Arcangelo

Le Favolose di Roberta Torre è tra i film italiani più significativi del 2022. Dopo essere stato presentato a Venezia alle Giornate degli Autori, ha ricevuto grandi riscontri al festival di Tokyo e ha vinto il premio per la miglior regia all’IDFA – International Documentary Film Festival di Amsterdam. La fusione innovativa tra gli strumenti filmici è la cifra stilistica di un’opera che coglie l’immenso potere di reinvenzione del reale che le immagini offrono. Con Roberta Torre abbiamo parlato del cinema che è, e che verrà.

Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Roberta, parliamo di fusione. In fisica la fusione è il passaggio di una sostanza da uno stato solido a uno stato liquido. Nel cinema cos’è? Il passaggio di ciò che consideriamo verità, o realtà, a uno stadio più libero e potente, cioè il verosimile?

Roberta Torre: Io ho sempre bisogno di partire da una storia vera per raccontare qualcosa. Poi però ho anche altrettanto bisogno di tradire quel reale e lavorare su qualcosa di nuovo che sia in grado di evocare una verità di fondo. C’è differenza secondo me tra realtà e realismo. Il realismo a me non interessa, la realtà sì. E di conseguenza è chiaro che non ho l’obiettivo di riprodurre ciò che vedo in una modalità il più possibile fedele al reale, ma voglio lavorare sul tradimento del reale, perché il tradimento secondo me è alla base del racconto. Senza il tradimento una storia diventa cronaca, perde quel valore aggiunto che ha un racconto quando diventa cinema o letteratura. Trovo quindi che la cifra giusta sia quella dell’impasto, una fusione tra ciò che è reale, i codici dell’invenzione, e ciò che la storia reale mi ha evocato. 

G.L.D. E nel caso de Le Favolose cosa ti ha colpito?

R.T. Sicuramente mi hanno colpito le storie reali delle morti di queste persone transessuali. Anche nell’ultimo atto, la morte, le loro aspettative vengono violentate, disattese rispetto alla loro sensibilità più profonda, e si ritorna alle convenzioni che i vivi collegano al loro genere di origine. I transessuali in punto di morte subiscono un mancato riconoscimento del proprio corpo, perché il loro corpo non era mai accettato dai familiari secondo il genere che loro avevano scelto di vivere. Dunque ai funerali venivano rivestiti da uomini quando invece avevano trascorso una vita da donne. C’è una violenza duplice in tutto questo, che mi ha fatto scattare il desiderio di andare fino in fondo, provando a capire come si potesse fare a mettere in scena quella violenza. Ed ecco la fusione, allora. Prendere il frammento di realtà che mi interessava, e tradirlo inserendolo in una nuova narrazione. 

G.L.D. Il tema della transessualità, lo sappiamo, è ormai molto discusso nel dibattito pubblico mainstream, ma le tue protagoniste restano nel cuore grazie ai fremiti della loro umanità, non come programmi politici di solidarietà umanitaria. C’è differenza.

R.T. La loro è una storia di persone, di esseri umani che hanno il diritto di essere ricordati nella maniera più fedele possibile a ciò che sono stati in vita, e il fatto che questo diritto nel loro caso fosse disatteso nella realtà mi è sempre sembrata una grande violenza. Ho lavorato in modo da far venire fuori il loro vissuto e per fortuna i loro ricordi non sono mai stati i ricordi di vittime. Loro sono appunto favolose, non si sentono vittime, sono persone che hanno avuto vite drammatiche, drammi a cui hanno risposto in maniera vitale, vincendo la partita. Ecco, questa è la cosa che sin da subito me le ha fatte sentire vicine. Siamo diventate amiche, proprio perché hanno questa grossa capacità di autoironia e di forza. 

G.L.D. Sì, verissimo. Vedendo il film emerge tanto questa vitalità, questo orgoglio nell’aver vissuto dei drammi e aver reagito evolvendosi, crescendo. Senza cristallizzarsi nella posizione di vittime, che è la preferita di questo tempo.

R.T. Loro sono quasi tutte persone molto realizzate, questo è fondamentale. Non c’è una di loro che sia una persona irrisolta. Il fatto stesso di aver raggiunto un obiettivo che era complicatissimo, soprattutto nell’epoca in cui hanno la maggior parte di loro ha fatto la transizione, le fa sentire vincitrici, persone di successo. Hanno avuto il risultato che volevano, hanno vissuto la vita che volevano, hanno affrontato tutte le difficoltà e alcune volte sono state difficoltà mostruose. Mi ha colpito molto che quando il film è stato visto a Londra al London LGBTQIA+ Film Festival in tanti mi hanno detto che fa ridere. In Italia non è successo. Il pubblico inglese invece l’ha trovato molto divertente, è una delle cose che li ha colpiti di più, è proprio il fatto che è del tutto assente questa sorta di vittimismo. Ma il merito è loro perché come dicevo non si sentono vittime, non si sono mai rappresentate in questa maniera.

G.L.D. Nel tuo film le immagini di finzione e quelle d’archivio s’incontrano e si mimetizzano rompendo un codice linguistico, amplificando la portata dei significati verso l’onirico, verso l’evocazione della memoria. È questa anabasi del reale verso l’immaginifico il tipo di “altrove” dove il cinema può e deve trasportarci? 

R.T. Si tratta di un mockumentary: molto di ciò che sembra archivio in realtà è ricostruito. Un altro esempio di tradimento e di trasformazione del realismo in realtà che il cinema come forma espressiva rende possibile. 

G.L.D. Ci troviamo in un universo di rappresentazione, quello trans, dove in primis era la realtà stessa che attingeva al mondo del cinema. Mi riferisco alla fase della vestizione, del travestimento, una vera e propria messa in scena in favore dei clienti. 

R.T. Questo è proprio ciò che loro dicono sempre. “Tra il delirio e il dramma, abbiamo sempre scelto lo spettacolo”. Alla fine è il senso del film, è la frase manifesto del film insieme a “Il mio corpo è un atto politico”. Il corpo cammina nel mondo e si mostra, si fa vedere, ed è un atto politico perché chiaramente si tratta di corpi non conformi ai generi biologici, e questa situazione crea sentimenti di delirio e dramma. Lo spettacolo allora è una terza strada per mettersi in scena e offre una salvezza: la possibilità di potersi auto-rappresentare e di sfuggire alle classificazioni. Quindi creerei una frase unica, perché le due cose non sono disgiunte. “Il mio corpo è un atto politico e tra il delirio e il dramma abbiamo scelto lo spettacolo”.

G.L.D. Ciò mi riporta a Guy Debord. E forse, questa frase è la migliore spiegazione del perché lo spettacolo sia diventato l’asse portante della nostra società. 

R.T. Lo spettacolo ti rinnova, ti dà la maschera, ti dà la possibilità di svelarti continuamente, di cambiare, di essere altro, e questa cosa chiaramente apre l’immaginario. 

G.L.D. Torniamo agli archivi. Mi pare stiano diventando sempre più centrali nel tuo cinema. Che accade? Si tratta di una scelta estetica o di un sentimento sul contemporaneo, visto che tutti noi, quasi nessuno escluso, oggi abbiamo un archivio personale di immagini pressoché infinito, che si tratti di foto o video, di momenti simbolici o insignificanti? Shakespeare diceva, ne Il racconto d’inverno: «Il re vivrà senza eredi se quello che fu perduto non sarà ritrovato». 

R.T. Il tema centrale mi sembra la memoria evocata attraverso l’archivio, che comunque è portatore, per l’appunto, innanzitutto di memoria. È solo da qualche anno che per il mio cinema penso all’archivio, prima non ci ho mai pensato. Nelle Favolose, come detto, non c’è esattamente la parte storica, perché l’archivio è un archivio ricostruito e un po’ fiction, perché le parti della giovinezza sono interpretate dalle stesse attrici nella parte di se stesse. Sicuramente però il lavoro sull’archivio apre la possibilità di entrare in una storia. Per me, l’archivio nel cinema ha questa valenza, aprire squarci nella storia, ai quali è possibile agganciarsi per lavorare sul contemporaneo. E non come si leggerebbe un libro di storia, ma leggendo l’oggi grazie a delle iniezioni di passato. Credo che questo sia il valore più grande. Sono questo gli archivi. Hanno valenza storica ma non solo. Per esempio a me piace molto anche lavorare sul potenziale onirico degli archivi, ed evocare legami con il presente che siano inconsci.

G.L.D. Mi sembra che molta della produzione audiovisiva di questi anni, soprattutto in Italia, vada nella direzione opposta alla tua, ovvero la descrizione per immagini della realtà premasticata, semplificata. Si assiste alla costruzione di mondi schematici, attenti a riprodurre i temi del dibattito mediatico, veri e propri diorami. Hai anche tu questa sensazione?

R.T. Oggi siamo sovrastati da milioni di immagini, e mi viene in mente un paragone con i vestiti. Armadi pieni, vestiti su vestiti che continuano ad arrivare ma non c’è nessuno che dica vabbè, compriamo meno vestiti perché ce ne sono già troppi, cioè possiamo anche fermarci qui. Con le immagini è lo stesso, ce ne sono infinite e tutte uguali, mentre servono immagini che raccontino qualcosa che fino adesso non abbiamo mai visto. Se dobbiamo ripetere continuamente le stesse immagini, allora io preferisco tornare a prendere quelle del passato, quelle che dal passato sappiano raccontare il contemporaneo. 

G.L.D. La tecnologia, intesa come strumento di produzione e di fruizione, sta condizionando il nostro modo di mostrare e osservare, mi riferisco in primis allo smartphone. Vorrei sapere che tipo d’impatto vedi su produzione e fruizione cinematografica nel futuro prossimo. 

R.T. Sento molto il problema delle troppe immagini prodotte perché i mezzi lo consentono. Oggi chiunque può fare un film, diciamocelo, basta uno smartphone, non era così fino a dieci, o vent’anni fa. E quindi si crea una sovraproduzione di immagini spesso non così indispensabili. Anzi, proprio superflue. Per stare nel contemporaneo bisognerebbe farsi una domanda preliminare: perché io devo fare altre immagini? Cos’ho di così unico da dire che mi devo proprio mettere a fare un film, o a creare un immaginario? Sono veramente all’altezza di farlo? Capisco però che siano domande che nessuno si pone più.

G.L.D. In questa modalità stilistica che si appoggia agli archivi come cambia il rapporto con gli attori e il loro utilizzo?

R.T. In questo caso specifico ho lavorato con le modalità che uso sempre quando lavoro con gli attori non professionisti. Ho una traccia scritta di sceneggiatura definita, poi, poiché non si può chiedere a degli attori non professionisti di imparare delle battute o di seguire una drammaturgia, a me tocca il ruolo di instradarli affinché riescano a seguire tutte le tappe, tutti gli step del racconto. In questo caso avevo un grande vantaggio perché le favolose possiedono un loro linguaggio, un codice comune condiviso tra loro.  C’è proprio un mondo di modi di dire, modi di ricordare parole chiave, battute, che sono ricorrenti nel loro parlato: “militante” diventa “militonto”, “lotta continua” diventa “cotta continua”. Loro hanno questa serie di giochi di parole che sottintendono codici strutturati negli anni e che hanno inventato. Si crea dunque, tra loro e di conseguenza nel film, un mondo linguistico importante, e i dialoghi funzionano molto bene. Il mio compito è stato quello di portarle alla fine del lavoro, cioè creare una storia dentro cui loro potessero improvvisare. Si tratta di un modello che ho usato all’inizio in maniera inconscia, un po’ intuitiva, e che poi, piano piano, ho strutturato come metodo di lavoro vero e proprio con gli attori non professionisti: oltre a quello di rubare tutto quello che combinano e fanno senza che se ne accorgano, dare input a cui loro devono rispondere. Con gli attori professionisti, invece, il discorso dell’intersezione tra il repertorio e la recitazione funziona bene, offre milioni di altre possibilità. Una delle quali a cui sto lavorando con soddisfazione è quella di costruire una narrazione drammaturgica a partire dal repertorio e far interagire gli attori con il repertorio stesso, con risultati molto originali. 

G.L.D. Parliamo di trame. Quanto sono importanti nel tuo cinema? O nel tuo prossimo film Mi fanno male i capellidedicato a Monica Vitti? Don De Lillo, uno scrittore a me caro, dice in Libra che tutte le trame tendono alla morte. 

R.T. Se parliamo della classica suddivisione aristotelica, i tre atti, inizio e svolgimento e fine, indubbiamente all’inizio della mia storia registica non è una strada che ho preso in considerazione, non esisteva proprio. Ora sono convinta che invece la trama sia fondamentale per poter raccontare una storia. Anzi, mi sono sempre più convinta che la scrittura, la sceneggiatura, sia una delle componenti più importanti di un film. Se vogliamo raccontare una storia che comunque abbia una drammaturgia compiuta, deve esserci una scrittura solida. Il cinema poi naturalmente non è solo quello, però è ovvio che anch’io, come spettatore, sono affascinata dai film con la trama. Si possono raccontare storie in mille altri modi, però indubbiamente la drammaturgia classica è piacevole, non è mai stata superata. 

G.L.D. Immagini e parole. Nel 2022, un anno prolifico per te, è stato pubblicato anche il tuo nuovo romanzo Strana carne, per Fandango. Quanto il cinema è influenzato dalla letteratura e viceversa. 

R.T. Riguardo al mio romanzo, rileggendo la distanza di un anno posso dire che è molto cinematografico, quindi forse in me esiste una struttura mentale che ripercorre degli stilemi del cinema a prescindere dalla forma espressiva. Credo molto, però, che dalla letteratura si possano trarre grandi film, anche se spesso è necessario tradire la struttura dei romanzi. Penso, per fare un esempio recente, a Blonde di Joyce Carol Oates che è un romanzo straordinario. Pur essendo due codici completamente differenti hanno un legame molto stretto e come tutti i legami stretti hanno bisogno di tradimenti…

G.L.D. Citando Blonde apri un tema importante. Il legame, molto chiaro ed evidente in una storia reale, tra tutto quello che pubblicamente si conosce della Monroe e la grande, poderosa, meravigliosa possibilità che la finzione cinematografica e letteraria hanno di colmare i vuoti.

R.T. Esatto, mi pare che anche questa sia una straordinaria forma di tradimento. Oppure si può chiamare rielaborazione, o si può chiamare invenzione. Io credo che in Italia siamo un po’ impantanati dalla questione della realtà, del realismo, che poi è quanto di meno affascinante ci sia, a mio parere. Ciò che è affascinante, invece, è partire dai casi di cronaca e andare a riempire quelli che tu chiami i vuoti. Come stiamo facendo nel nostro lavoro sulla storia drammatica del delitto Casati Stampa, la cui dinamica lascia la possibilità di entrare a delle voci che non sono state trascritte, come se in fondo ognuno di loro potesse raccontarci una storia diversa, alla Rashômon. La forza della rappresentazione cinematografica consiste nel fatto che, attraverso il film, ogni personaggio, se oggi fosse in vita, potrebbe raccontare la stessa storia da un punto di vista differente e in una maniera assolutamente unica, diversa da ciò che i giornali hanno riportato, facendoci immergere in un ventennio, dal 1950 al 1970, che contiene dei topoi italiani straordinari. Dal Leone d’oro a Fellini a Miss Italia, dal boom economico all’esplosione della società dello spettacolo. Quelli erano anni in cui tutti avevano l’idea di poter andare sulla luna, e poi invece tutto si è risolto in un nulla di fatto. Ma quel senso di potenzialità infinite non c’è mai più stato. Quegli anni, in cui sono cresciuta, hanno creato una generazione di gente che pensava di poter andare sulla luna e Venere, in senso metaforico e non solo.

G.L.D. Ecco, a me sembra che molti dei nuovi registi abbiano più competenza tecnica fredda, intesa come capacità di adottare bei movimenti di macchina, codificati, che capacità stilistica di linguaggio, ambizione, voglia di tradire il realismo. Forse hanno bisogno di più letteratura di qualità?

R.T. Penso che chi vuole raccontare abbia a modo suo la necessità di essere contemporaneo, e che ci siano registi molto, molto giovani che hanno folgoranti intuizioni sul presente. È bello che ci siano degli sguardi nuovi, non penso che si debba inculcare ai nuovi artisti chissà quale metodo. La cosa fondamentale credo sia appunto essere contemporanei: sei capace di farmi vedere questo tempo in un modo a cui non avevo mai pensato o che mi che mi fa sentire fortemente cosa sta succedendo? Sì, e allora a me basta quello, credo che il valore vero di un regista, di un artista, di un narratore risieda nella capacità di percorrere lo spirito del tempo. Negli Anni Sessanta c’erano i film in cui i protagonisti si baciavano poi la camera andava altrove, sul caminetto. Cosa ti diceva quel movimento? Che stava capitando qualcosa di importante, però tu dovevi guardare il caminetto. Un dettaglio che raccontava un’epoca. 

G.L.D. Il mezzo tecnico, dunque, non basta… perché solo l’autore/regista può tradire?

R.T. L’intelligenza artificiale tra poco ci toglierà di mezzo completamente! No, non serviremo più a nulla, io vedo questo, lo vedo proprio chiaramente. È solo questione di tempo. Milioni di storie con milioni di intrecci possibili.

G.L.D. E secondo te non è in dubbio l’effettiva capacità della macchina di dare un senso alle storie? L’imprinting comunque resta umano. Non c’è rischio che la macchina vada per la tangente?

R.T. È una certezza, la macchina andrà per la tangente. Leggevo una conversazione tra una persona che scrive all’IA: «Adesso raccontami una cosa falsa» e lei risponde: «Io sono un coniglio, ho le orecchie verdi». E lui: «No dai, questa è una scemenza, dimmi una cosa falsa seria». E la macchina, in chiusura: «Io non sono un umano». Questo presuppone una coscienza folle della macchina, quindi di fronte a questo che è molto inquietante, io vedo una preminenza dell’umano solo su temi di cui la macchina non ha possibilità di elaborare una conoscenza, e sono due, nascita e morte. Kubrick ce l’aveva detto già molto tempo fa. Qual è dunque il messaggio per i nuovi registi? Datevi da fare ora, perché tra un po’ non ce ne sarà più per nessuno. Oddio. Io vedo questo.

ARTICOLO n. 22 / 2021

Tentare l’Impossibile

Quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra,
ciascuno nella sua misura,
su per giù gli stessi sentimenti che io nutro verso l’oceano
HERMAN MELVILLE, MOBY DICK

C’è una grande chiglia che mi aspetta sempre attraccata al porto. La sensazione di essere pronti a salpare è pura vitalità. Opera viva è detta la parte della nave immersa in acqua, quella che scandaglierà gli abissi. Opera morta è chiamata quella che resterà all’asciutto. Basterebbe questo per raccontare il cammino di ogni nuova creazione.  

Partire per un nuovo progetto, per un film, per un romanzo è cercare qualcosa che non conosco e che non voglio conoscere prima. Non ho nessun appiglio a cui far riferimento, sono fragile ma ho una certezza: al ritorno di ogni viaggio non sarò più come prima.

Sono sola di fronte a quello che conosco da sempre, in compagnia dei fantasmi e cerco di farli apparire esattamente come potrebbe accadere una seduta spiritica. Non posso voltarmi verso quello che ho già fatto. Anzi, il conosciuto, l’avvenuto, tutti i film che ho già girato e più di tutto il successo, grande o piccolo che sia stato ogni volta, inteso più come participio passato che come evento, mi soffoca in una rete da cui devo liberarmi per tornare all’oceano.

Il successo è l’altra faccia della persecuzione, diceva Pasolini. Ma non sono gli altri che ti imprigionano che lo si creda o no, sei tu che perseguiti te stesso obbligandoti a una forma vecchia e certa e dunque non più pericolosa e fertile. Facile o difficile che sia, in ogni caso, conoscere l’effetto di questa distanza è possibile. Scomparire ogni volta e ritrovare una forma sempre vergine è il miraggio a cui tendo. Non essere ri-conoscibile e dunque ri- conosciuta, ma invece conoscermi di nuovo è l’ambizione.

Tentare l’impossibile mentre si cerca, siano immagini per un film o parole per un romanzo, si tramuta in quello che è un viaggio dove il naufragio è uno degli esiti possibili, e dove sia sempre possibile naufragare insieme al progetto; senza pericolo, senza l’abisso non c’è nemmeno il viaggio. All’inizio, mentre giravo i primi film, cortometraggi, dipingevo la pellicola.

Era pellicola 35 millimetri, il grande fotogramma era un quadro che aggredivo con colori e smalto, Senti Amor Mio: un film di nove minuti, la storia beckettiana di due postini e di un pacco che non sarà mai recapitato per i vicoli stretti e dalla luce sontuosa di una Palermo incantata, l’opera lirica e le voci del mercato di Ballarò, una delle tante dichiarazioni d’amore fatte a quella città. Il colore sul fotogramma che riempiva l’immagine era il tentativo di andare oltre l’immagine, di aprirla per scoprire che cosa c’era dentro, interrogarla fino a quando non avveniva una trasformazione alchemica grazie al colore. Quando lo proiettarono al cinema i colori sovrastavano il girato, lo avevano cancellato e cambiato completamente la drammaturgia della storia. Il mondo che avevo immaginato era un grande testo e i colori l’avevano riscritto emotivamente.

Se quello che guida è la bussola dell’esploratore, può sempre succedere che la bussola impazzisca, che le traiettorie sulla carta si confondano e all’improvviso ti trovi nel mezzo della foresta, o peggio ancora: nel mezzo del nulla, del perfettamente ignoto.

La vertigine del nulla è indescrivibile. Non perché sia liricamente romantico farlo e l’emozione ti sovrasti, piuttosto perché non ne conosci le parole, l’unica cosa a quel punto è inventarle, inventare un linguaggio con cui il nulla possa prendere a parlare. E il linguaggio è creatura viva che scaturisce dalla visione. La vista per me è il senso della meraviglia. I territori dell’inesplorato non hanno ancora parole per essere raccontati e non hanno immagini per essere visti, almeno non quelle esistenti. A quel punto del sentiero si aprono due strade: la poesia o la profezia, facoltà data all’arte che coincide con l’ignoto.

Aggredire l’ignoto è un gioco che comincia da bambini e poi, può continuare fino a quando nessuno ti ferma. C’erano certe mattine luminose di cui ricordo solo i riflessi della luce bianca spalmata sul marmo del pavimento di casa, sarà stato quel baluginare luccicante, quell’idea di flutti marini a farmi balenare in testa l’idea di permettere al pesce rosso di tramutarsi in un terrestre. Se noi ce la facevamo perché lui non poteva provarci? Avevo preso la boccia piena d’acqua e accuratamente avevo tracciato due solchi, due piccoli ruscelli sul pavimento del salotto, poi infilato le mani e preso il piccolo pesce che si dimenava ignaro del suo destino, l’avevo appoggiato delicatamente in quel ruscello. L’animale percorreva affannato il solco d’acqua e poi terminava miseramente la sua corsa agitandosi disperatamente sul pavimento. L’intervento misericordioso di mia madre che portava in salvo la creatura, come la botticelliana Madonna del Mare è conservato al riparo nella mia memoria, salvandomi da un senso di colpa che mi avrebbe perseguitato.

Ma subito dopo, quando la tragedia era scongiurata, tornava ad affacciarsi prepotente una questione.  Perché non era stato possibile condividere con il pesce rosso la mia esistenza terrestre? Non c’era limite che mi dissuadesse dal credere che se solo il ruscello fosse stato più lungo, se solo la traiettoria fosse stata più accurata, se solo qualche dettaglio dell’operazione fosse stato curato meglio, avrei potuto raggiungere il risultato.

Conservo di quell’esperimento la precisa sensazione che ricorre in me adulta ogni volta che di fronte a un divieto apparentemente logico mi ripeto: tutto è possibile. La gamma dei possibili si amplia a dismisura o si assottiglia per sempre se gli permettiamo di farlo. La soglia può variare e le variabili sono la misura del nostro spirito d’avventura. È una vita che della ricerca fa il suo stesso cammino, non anela alla meta, ma al percorso fatto. L’animo da pioniere mi porta a credere che ci sia sempre altro da scoprire.  E in questo la fantasia è strumento indagatore, al contrario di quanto potrebbe sembrare. In questo periodo storico si è portati ad attribuire alla fantasia la connotazione di fuga dalla realtà.

L’artista, in tutti i campi ma nel cinema in particolare, ha più ascolto come lacchè della cronaca, la dittatura del realismo ci attende con i suoi militari schierati. Ma davvero il realismo nulla ha a che vedere con la realtà. Il realismo è funzionale a una visione artistica che fa della propaganda il suo fine e ne condivide i presupposti ideologici. Secondo Arshile Gorky l’arte nasce dove la fantasia sostituisce la memoria.  Sua madre gli raccontava storie mentre lui bambino schiacciava la faccia a occhi chiusi sul suo lungo grembiule. Le storie e i ricami sul grembiule si confondevano nella sua testa e per tutta la vita hanno continuato a dipanare immagini. Così la fantasia come creatrice di una realtà mi porta a disfare in continuazione la tessitura della narrazione.

Ho necessità di partire per immaginare ogni racconto da una storia vera, per vera intendo realmente accaduta. Voglio che quella storia trovi riscontro in un corpo, in una voce, in un testimone. Poi a poco a poco riavvolgo il filo, la srotolo come farei con un gomitolo fino a quando la storia che ritrovo si è modificata attraverso la fantasia.

Quando ho scritto il mio primo film, Tano da Morire, avevo per le mani una storia di mafia classica, quella di un piccolo boss di quartiere, avevo letto tutti gli atti del processo, seguito la cronaca sulla sua vita, maneggiato a lungo le fotografie della sua famiglia. Ma dopo tutto questo ho abbandonato la strada che ogni traccia mi suggeriva e sono andata alla deriva. La realtà mi era servita da banchina, da attracco, per farmi navigare in acque sconosciute. Così ho fatto un musical su quella storia di mafia.

Ricordo perfettamente la prima volta che sono entrata in una sala cinematografica, avrò avuto più o meno sei anni, ero con mio padre a Milano in una grande sala di Viale Abruzzi. Era un pomeriggio estivo. Due cowboy seduti a un tavolaccio mangiavano avidamente da un piatto bianco candido dei fagioli. Quella visione meravigliosa suscitava il desiderio di partecipare e di sedermi allo stesso tavolo per mangiare con loro, la mano calda e rassicurante di mio padre non era bastata a trattenermi, volevo entrare di corsa nello schermo e andare dall’altra parte, agguantare quei fagioli.

Non era possibile, mi era stato detto. Non era possibile passare dall’altra parte dello specchio, come dice Monk nella Rosa Purpurea del Cairo: «Va’ vai a vedere com’è il mondo: quello non è cinema, è vita vera! È vita vera e qui tornerai» ma io non potevo crederci. Ma intanto l’emozione di quella visione si era stampata intatta nella memoria che comunemente viene definita a lungo termine (mentre quella a breve termine viene chiamata in modo molto significativo memoria di lavoro). Se ricordare non significa semplicemente replicare, ma ogni volta ricreare le esperienze, raccontarle secondo una nuova narrazione, diventa altrettanto fondamentale dimenticare. La necessità di dimenticare ogni volta e il richiamo della memoria sono il filo teso su cui camminare.

In questo gioco a sfuggire la memoria e in questa ossessione a non perderla, vincitore a volte è il primo, a volte la seconda. Cammino in mezzo con l’impossibile desiderio di meravigliarmi ogni volta e lo struggente attimo in cui perché succeda devo abbandonare quello che conosco. Il mio prossimo film è infatti la storia di una donna che perde la memoria. 

La grande chiglia è pronta a salpare, meglio alleggerire il carico. In mare aperto anche un solo ricordo ti fa provare il desiderio di tornare indietro mentre poche miglia più in là in mezzo al nulla potrebbe aspettarti la meraviglia.