ARTICOLO n. 8 / 2022
COSA RESTA ANCORA DEL ROMANZO?
Si è spesso detto che il romanzo è in pericolo, e che il libro è stretto d’assedio dai nuovi media. Eppure, ondate di nuovi romanzi si susseguono a un ritmo incalzante e, in forma digitale, continuano a lungo a fluttuarci intorno. Ma c’è un fenomeno ancora più sorprendente. Il romanzo realista – più volte dato per morto – continua a essere oggetto di un culto ostinato. Continua a dispensare visioni della Storia e a rivelare preziose verità – a nutrire ambizioni grandiose. Nell’insistenza con cui si dà voce a queste ambizioni c’è, tuttavia, qualcosa di sospetto; c’è una nota di ansietà, un eccesso di retorica, un’enfasi così marcata che finisce col suscitare qualche dubbio. Il realismo gode di buona salute, ma in che modo si è evoluto? Cosa ne è stato, davvero, dei suoi ideali?
Per capirlo è forse utile ricordare in che modo questi ideali ne hanno segnato la storia. Da quando, all’epoca del Robinson Crusoe, ha iniziato a prender forma quel che siamo soliti chiamare «realismo», la cultura del romanzo è stata un luogo di esperimenti arditi, spesso destinati a un meraviglioso fallimento. Minacciati dall’avanzata della scienza, i romanzieri più ambiziosi si sono lanciati all’inseguimento della «realtà», riflettendo instancabilmente sui rapporti tra vita e arte. La realtà inseguita da scrittori come Defoe e Fielding e poi, nel secolo successivo, come Balzac, George Eliot o Flaubert, non era quella delle cronache: era quella dell’esperienza, fatta di emozioni, di quotidianità, di dettagli. E la loro ambizione non si fermava a questo. A interessarli non era solo quel che succedeva tra le pareti di un salotto o nell’anima di una fanciulla innamorata: nei casi più memorabili il racconto delle vite private diventava un’occasione per scavare nelle fibre nascoste di un’intera comunità, per intrecciare il racconto delle vicende individuali a quello di processi sociali ancora in divenire. Queste ambizioni si esprimevano spesso in forma polemica. Molti stili romanzeschi sono stati concepiti come strumenti di conoscenza, con l’intento di rimpiazzare altri stili, degenerati in maniera e incapaci di catturare i moti sottili dell’esistenza. Gli esperimenti della grande stagione modernista sono stati un’ulteriore prosecuzione di questo progetto. Sia Proust sia Virginia Woolf, tesi a narrare la parte sommersa della psiche e il suo complicato rapporto con l’ambiente circostante, reagivano per esempio all’eccesso di dati esteriori tipico del naturalismo.
Il progetto del realismo aveva due implicazioni. Da una parte, l’arte del romanzo era tesa a produrre una visione alternativa, un modello per riformare l’esperienza, per redimere un mondo che la cultura capitalista stava riorganizzando e, secondo molti, compartimentando troppo rigidamente. Le visioni dei romanzieri non avevano l’afflato metafisico che percorre la poesia romantica, ma i loro obiettivi erano altrettanto elevati: restaurare un’armonia perduta, tessere una vasta e fitta rete di legami simpatetici e addentrarsi in dimensioni inesplorate: la dimensione microscopica dei processi interiori, quella macroscopica dei grandi fenomeni sociali e l’interazione tra le due.
Al tempo stesso, l’ascesa del realismo ha coinciso con la nascita di una nuova cultura dell’intrattenimento. Come un filmato in handycam, in molti romanzi i dettagli e i moti della coscienza puntavano ad avvolgere i lettori, a trascinarli nella storia; e così la ricchezza di stimoli visuali. Il confine tra realismo e sensazionalismo era labile. Per suscitare immedesimazione, il romanzo tendeva a far leva su paure o desideri fin troppo noti al pubblico – che consisteva, già allora, perlopiù di lettrici –: finire in miseria, restare senza marito, cedere a un seduttore senza scrupoli, scoprire segreti sul proprio passato familiare. Nei primi anni del Novecento, i romanzieri più rigorosi, non di rado in rotta con il mercato, cercarono infatti di sbarazzarsi dell’apparato melodrammatico e del facile moralismo che sembravano fare tutt’uno con l’arte del romanzo: un gesto che ha portato all’estremo la ricerca di veridicità dei primi scrittori realisti, e che abbiamo visto ripetersi molte volte.
Fin da subito, del resto, i più convinti adepti del realismo hanno cercato di riscattare i romanzi dal girone della letteratura d’intrattenimento, rivendicandone la funzione pubblica. Il romanzo realista si è presentato ai lettori come un catalizzatore del progresso nazionale. In primo luogo, perché permetteva di pensarsi come parte di una comunità più ampia. E perché invitava, al tempo stesso, a meditare sulle sorti di quella comunità. Queste caratteristiche ne hanno favorito l’istituzionalizzazione: quando, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento la letteratura moderna ha fatto il suo ingresso nei programmi scolastici, il realismo è diventato un oggetto di studio e uno strumento pedagogico.
Cosa ne è del modo realista? Continua, nonostante tutto, a catturare l’attenzione, e lo scetticismo degli autori postmoderni non l’ha nemmeno scalfito. Continuiamo a mettere il naso negli ambienti borghesi e a seguire la vita emotiva dei loro abitanti. Continuiamo a cercare nei romanzi un sapere alternativo, la cartografia di una quotidianità ignota che sfugge alle cronache. Concetti di matrice ottocentesca ammantano i melodrammi domestici di cui avidamente continuiamo a cibarci: la letteratura racconta l’animo umano, racconta la nostra storia; è un’analisi, un’indagine, uno studio, un’esplorazione; solleva problemi; offre spunti di riflessione. Lodiamo lo sguardo penetrante del romanziere, la sua capacità di spingersi nei più profondi meandri della psiche, il suo coraggio di fronte alla verità sconvolgente del male o all’ambiguità morale della nevrosi. Al tempo stesso, e con maggior enfasi che in passato, lodiamo la capacità del romanzo di sperimentare tutte le gamme dell’esperienza emotiva e così di intrattenerci in modo efficace. Elogiamo un libro perché nel giro di poche pagine ci ha fatto ridere e piangere, perché ci ha tolto il respiro, ci ha commosso ed esaltato, rapito e scosso. Queste reazioni sono registrate con particolare vividezza da chi racconta le proprie esperienze di lettura sul web, mostrando una propensione diffusa all’immersione, all’identificazione, all’intensità. Più che un incontro con il linguaggio – poiché ogni frase e ogni pagina deve rapinosamente condurre alla successiva, la lingua deve essere invisibile – la lettura costituisce un’esperienza emotiva vicaria. In parte, certo, era così già all’epoca di Richardson, quando le giovani lettrici del 1740 facevano propri i terrori di Pamela, veicolati dalla lingua non letteraria della finzione epistolare, e si perdevano in elenchi di oggetti non molto diversi da quelli che affollano i romanzi di Federico Moccia.
Con ancora più enfasi che in passato, dunque, attribuiamo al romanzo due capacità inscindibili: lo consideriamo in grado di offrire al pubblico un’esperienza di rara intensità emotiva e, al tempo stesso, una conoscenza del mondo che solo la letteratura sembra in grado di garantire. Una delle idee più ricorrenti, ribadita, nei secoli, da teorici e narratori come Diderot, George Eliot, Jonathan Franzen e Zadie Smith, è che leggendo si allena la capacità empatica. I romanzi ci preparano alla pratica quotidiana della compassione e nutrono la conoscenza della nostra e di altre comunità. I libri erano e restano un luogo di crescita morale e civile, e gli autori – il cui viso serio non ci lascia requie – sono piccoli o grandi oracoli di cui si esalta la sapienza, la capacità di poter dire, mostrare, vedere, spiegare, oltre che affabulare. Una piccola religione si sviluppa intorno a quest’idea, con i suoi riti e i suoi sacrari, in cui (come nella musica pop) si mescolano devozione e spettacolo.
Ma il romanzo è in una posizione scomoda; e non perché sia minacciato da altri mezzi d’intrattenimento. Non ha mai avuto così tanti lettori, che continuano, nelle sale d’aspetto e negli aeroporti di tutto il mondo, ad abbandonarsi alle sue lusinghe. Difficilmente, però, può condurci a nuove scoperte. In passato, l’antropologia, la psicologia e molti altri rami del sapere esistevano solo in forma embrionale, e la narrazione romanzesca poteva occupare territori vergini. Alla fine del Settecento, solo un romanzo poteva raccontare la quotidianità e le ansie di una ragazza di provincia in età da marito. Solo un romanzo poteva, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, avvicinare ai luoghi centrali del dibattito pubblico l’esperienza di una sessualità non ortodossa. E solo un romanzo poteva catturare le usanze, gli ideali o la malinconia di una classe sociale al tramonto, o lo slancio e i sogni di una classe sociale nascente. In assenza di tecnologie audiovisive, i romanzi fungevano anche da supporto visuale. Le lunghe descrizioni di Dickens degli slum londinesi, che oggi la maggior parte dei lettori, abituati a periodi brevi, troverebbero insostenibili, erano anche formidabili documentari.
Le cose sono cambiate, perché oggi tutto può essere tema di discussione; tutto può essere fotografato, filmato, raccontato – dagli stessi protagonisti – e, ovviamente, razionalizzato. Molti libri di antropologia urbana sono dei capolavori narrativi. Inoltre, gli altri media non si limitano a intrattenerci. La complessità di un sistema urbano può essere raccontata in modo illuminante da una serie TV come The Wire, che troneggia nel pantheon realista e ha un valore educativo che difficilmente si può riconoscere a un romanzo di Carrère o McEwan. Ai romanzi resta, certo, il racconto dell’interiorità, che raramente, tuttavia, costituisce una scoperta. Le caratteristiche di fondo dell’esperienza narrata, i suoi presupposti psicologici e sociali – per esempio la scarsa empatia di un assassino, i comportamenti compulsivi di un adolescente traumatizzato, l’oppressione della società patriarcale, le conseguenze devastanti del sistema coloniale – sono già dibattuti in vari ambiti (e interstizi) dello spazio mediatico. L’emozione del racconto ci cattura, ma è parte di una macchina narrativa che per conseguire il proprio effetto muove da una visione preformata; grattando via la superficie, si trovano giudizi di valore, modelli del mondo e modelli comportamentali ben riconoscibili, e con i quali, spesso, tendiamo a concordare. I romanzi, del resto, si nutrono di temi caldi, e non lanciano sfide al pensiero teorico. Anzi, lo seguono con un certo ritardo. Si muovono spesso sulla scia della grande cultura radicale degli anni ’70, e nella maggior parte dei casi non suscitano questioni che esulino dal campo letterario.
Oggi più ancora che in passato, il modo realista si traduce in una conferma del già noto che ci dà l’illusione di conoscere il mondo. Si risolve in un invito ricorrente all’empatia tragica, in prese d’atto del naufragio di ogni speranza: in particolare in Italia, in cui c’è un particolare interesse per il disagio adolescenziale o giovanile. Ci appassioniamo spesso alle vicende di giovani uomini e giovani donne che faticano a crescere, alle prese con pesanti retaggi. Ripetutamente e implacabilmente, impariamo che la nostra storia familiare ci schiaccia, il capitalismo finanziario ci schiaccia, una corruzione atavica ci schiaccia e – in un perpetuo incubo darwiniano – anche la natura ci schiaccia. Il melodramma realista ci dà l’illusione di capire tutto. E ci invita a riconoscerci. Contemplando frustrazioni simili alle nostre, ripercorriamo il difficile avvicinamento a una maturità irraggiungibile. Vediamo variazioni, in chiave drammatica, del nostro io privato, che fatica ad adeguarsi alle tristi richieste dell’età adulta. Nel far questo, certo, mettiamo il naso in altre case, altri ambienti, altre città, che difficilmente, tuttavia, risultano alieni. Ci abbandoniamo, piuttosto, a un turismo dei sentimenti e degli interni, che ci porta nelle dimore sontuose dei ricchi o nelle stamberghe dei poveri. O che ci spinge per un po’ sui sentieri della nostalgia, riportandoci ai luoghi del passato, a quella stagione in cui la vita abbondava di emozioni estreme che il tempo ci ha obbligato a reprimere.
In tutto questo non c’è nulla di condannabile. Il problema può risiedere, al più, nelle idee nebulose in cui tendiamo ad avviluppare l’oggetto letterario, finendo, contraddittoriamente, col nasconderne la natura: nell’idea che la letteratura debba andare di pari passo con la «verità» e il «senso critico», che possa regalarci una conoscenza speciale. La nostra cultura si fa un vanto di chiamare le cose col proprio nome, di definirle con precisione. Ma guardando alla vicenda del romanzo moderno ci si può chiedere, a ragione, come definirlo; e sorge il dubbio che il modo in cui viene presentato un cine-comic hollywoodiano sia più aderente alla realtà. Cosa resta davvero degli ideali del romanzo, del suo intreccio di teoria e pratica, insieme eroico e fallimentare; dell’ispirazione enciclopedica di Fielding e Balzac, dell’obiettività di Flaubert, della sottigliezza di Jane Austen, degli slanci degli scrittori modernisti, che volevano rinnovare la lingua per «straniarla»? Perché, nella maggior parte delle sue espressioni, il romanzo non sembra sfruttare a fondo il linguaggio: sembra assecondarne l’inerzia.
Anzi: forse la narrativa è proprio il luogo in cui il peso greve del mondo si manifesta in modo più forte. Al suo interno si possono, infatti, sperimentare nuove forme di cognizione, affrancando la lingua dagli schemi consueti. E il fatto che questo avvenga solo di rado, e che il più delle volte avvenga l’esatto contrario, la rende un fruttuoso oggetto d’analisi. L’insegnamento della letteratura è stato e continua a essere importante. I romanzi e i racconti sono stati, in molti casi, il luogo in cui le visioni dominanti in determinati gruppi umani – non solo le ideologie aberranti dell’imperialismo o del patriarcato, anche prospettive morali rassicuranti ma limitate – hanno rinnovato la propria seduzione. Per questo è utile capirli: per mostrare il modo in cui anche attraverso costrutti linguistici relativamente elaborati gli esseri umani tendono ad adagiarsi in un’inerzia di massa; forse in un narcisismo di massa, che preclude l’incontro con le possibilità della Storia. Ed è utile, a questo fine, un dibattito ricco di voci dissonanti, che attinga anche alle teorie del racconto. La letteratura può essere, oltre che una fonte di emozioni, un marchingegno da smontare.
Non c’è, in fondo, da temere. Ogni cultura letteraria cova sviluppi inattesi. Si continua a cercare, attraverso il racconto, un’esperienza di alterità, di sconcerto; una via verso nuovi stati d’attenzione. E si continua a farlo – come del resto è sempre stato – non solo attraverso una simulazione della realtà, e non solo attraverso storie lineari. Il realismo, val la pena di ricordarlo, è una scelta tra le tante. A contare non è il metodo, ma il fine – e nulla ci riguarda più intimamente delle visioni mostruose di certi scrittori. Le trame convenzionali si dimostrano, spesso, catene da spezzare: strane digressioni suggeriscono i legami invisibili tra ciò che ci riguarda da vicino e ciò che è fuori dal nostro campo percettivo; ci portano a stabilire correlazioni tra fatti e oggetti apparentemente lontani. La visuale sul presente si dimostra angusta, forse infruttuosa: proiezioni in un futuro possibile ci portano a guardare a noi stessi e al nostro rapporto col mondo da altri punti di vista, a immaginare e interrogare nuove forme di coesistenza. E la lingua più trasparente si rivela un carcere: prose strappate ai meccanismi stanchi dell’affabulazione rivestono il mondo di nuove parole, in grado di illuminarne nuove sfumature, avventurandosi in luoghi apparentemente banali – come una periferia urbana o un paesaggio di provincia – e incoraggiando nuovi tipi d’investimento affettivo. E, soprattutto, quel che credevamo di sapere si rivela infondato. Sfuggendo alle logiche comuni o corrodendole dall’interno, i romanzi continuano a spingersi nelle pieghe nascoste della quotidianità, in realtà pulviscolari e aliene che le forme consuete faticano a catturare.
Rinsaldare il rapporto tra il romanzo e ciò che è altro da noi non significa baloccarsi in illusioni metafisiche. Significa rispolverare le risorse del linguaggio, strappandolo alla tirannia di una sintassi anchilosata, di un lessico impoverito, di stereotipi durevoli ma logori. Queste si esprimono al meglio nell’invenzione più multiforme, che può nutrire un ecosistema linguistico sano. Sfruttare a fondo le potenzialità del linguaggio narrativo, portandolo a un’osmosi con quello poetico o con molti altri registri e discorsi, è un buon modo per sintonizzarci sulle sfumature delle cose, per rinnovare il legame tra le parole e gli oggetti. È un modo, inoltre, per far esperienza del mistero, della non-comprensione – e per farci venir voglia, però, non tanto di contemplarne le soglie, quanto di oltrepassarle. Di fare a nostra volta esperienza dell’ignoto: anche – perché no – con la razionalità.