Rachele Salvini

ARTICOLO n. 15 / 2025

TORNADO FORZA CINQUE

eletricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.

(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso.  (Dario Valentini)

Ovvio che sia sposato. 

Rimango fino a tardi a giocare a biliardo sul retro del Cold Blood dopo che la band ha suonato. Potrebbe sembrare che stia parlando di una sera specifica, ma non è così: abbiamo cominciato mesi fa, dopo il concerto dei Clementines, una band di Bristol la cui originalità si è manifestata esclusivamente attraverso orrendi maglioni da sci anni Ottanta, e poi l’abbiamo fatto di nuovo, ancora e ancora. Lui beve IPA, ovviamente, e io pure, per mostrargli che non faccio scherzi. Sento la pancia gonfiarsi sotto i jeans attillati, ma apro una birra ogni volta in cui ne apre una lui. Collego il mio account di Spotify al juke box e metto su l’ultimo disco dei Last Shadow Puppets tutto di fila, perché non ammetto interruzioni e canzoni brutte in riproduzione casuale. 

Sua moglie, una bionda tatuata con le labbra rifatte, viene al locale e si siede sul bancone accavallando le gambe; lui si appoggia di fianco a lei e si toglie lo sporco da sotto le unghie con uno stuzzicadenti. Ridono sempre mentre io giro tra i tavoli, assistendo i gruppi con il soundcheck, passando birre, mix improbabili di cocaina, erba, pasticche di ogni colore e dimensione, barrette di cioccolata, Redbull, e spingendo le influencer più zoccole tra le braccia di bassisti dinoccolati che altrimenti non scoperebbero neanche pagando. Intanto, il mio capo e sua moglie ridono tra loro di non so cosa. Lei fa l’estetista e viene a bere un gin tonic alla fine del turno al salone di bellezza. Mi saluta sempre, come dicono i conoscenti dei serial killer insospettabili o dei padri di famiglia omicidi. Io invece lo dico per ricordarmi che la moglie del mio capo: 

  1. Non sospetta di nulla 
  2. È pure carina con me 
  3. E se fossi una persona normale, mi sentirei una merda. 

Ma la sera mi piego sul tavolo da biliardo comunque e alzo lo sguardo su di lui per cogliere un’ombra di desiderio. 

Noi due, al contrario, non ridiamo mai insieme. Devo dargli credito: credo che la ami. Ogni volta, dopo, mentre si tira su i pantaloni, ha le labbra all’ingiù, come se si sentisse in colpa.

Ma come mi sento io? 

Me lo chiedo solo quando lo saluto, infilo le cuffie e mi avvio verso la fermata dell’autobus. Il Cold Blood è in centro, ma in chiusura è sempre molto tardi e fuori non c’è quasi nessuno. Da quando ho cominciato a trattenermi con il capo, ogni volta in cui esco dal locale sento quest’aria fredda sulle guance che mi ricorda sempre, senza eccezione, del ritiro per la gestione del lutto in Oklahoma dove mi avevano spedito i miei a undici anni. Una notte come al solito non riuscivo a dormire ed ero rimasta a fissare le stelle chiarissime che si vedevano con una limpidezza disarmante dalla piccola finestra sopra il mio letto. Erano così vivide che mi avevano fatto quasi paura, e l’unica soluzione logica alla mia insonnia e inquietudine mi era sembrata uscire da sola, a piedi nudi, solo per trovarmi davanti a quello che sembrava un misto tra un lupo e una volpe fermo in mezzo al prato, appena fuori dalla baita dove dormivano tutti gli altri pre-adolescenti che come me erano lì per superare traumi insormontabili attraverso la preghiera e attività creative di dubbia utilità. 

Avrei poi imparato che si trattava di un coyote. Mi fissava e io ero paralizzata, la pianta dei piedi incollata all’erba perché non sapevo cosa fosse né che dovessi fare, se scappare o fingere di non avere paura. Aveva questi occhi arancioni che luccicavano nel buio ed era secco-secco, le orecchie puntate verso l’alto. Avrebbe potuto aggredirmi e farmi a pezzi, e allora i miei avrebbero avuto due figlie morte invece che una.

Non era un cane; percepivo qualcosa di selvatico, più delle volpi che rubavano gli avanzi dai cassoni della spazzatura a Nottingham. Davanti a questo animale mi ero sentita come quando nei sogni ti sembra di cadere, non sai cosa fare o cosa ti aspetta, sai solo che stai precipitando e tutto ciò che ti resta è attendere di schiantarti. Ecco, io avevo aspettato che il coyote mi azzannasse, ma eravamo entrambi rimasti immobili a studiarci finché un refolo di vento mi aveva colpito il viso. Il coyote aveva annusato qualcosa nell’aria, mi aveva lanciato un’ultima occhiata ed era trotterellato via, nel bosco. Più tardi, mentre i miei compagni erano impegnati a dipingere con le dita, recitare frasi del Vangelo e intrecciare coroncine di erbe aromatiche, mi ero chiesta se era quello ciò che aveva provato mia sorella prima di morire: la sensazione di precipitare.

Il vento che si aggira tra le strade di Nottingham, a migliaia di chilometri da quella baita in Oklahoma, mi colpisce allo stesso modo ogni notte e mi riporta davanti a quel coyote. Quando ci penso mi ripeto le domande e i consigli dei preti e degli psicologi del ritiro, applicandole alla mia situazione odierna da quasi-trentenne che si scopa il suo capo sposato, ma non riesco bene a identificare un sentimento specifico o quantomeno predominante. Devo semplificare i fatti come se fossero istruzioni per ricordarmi che è normale avere sentimenti: per esempio, sento che il capo mi piace. È alto e ha questi eccellenti occhi nocciola, grandi, tondi, con un anello verde intorno alla pupilla, e i capelli biondi tagliati alla Eminem, ed è il proprietario del locale indie più alternativo della città. Però si porta dietro un sentimento spiacevole: è sposato, e sua moglie è bella e ride sempre. Mi saluta con un sorriso che mi sembra genuino sotto il silicone. 

Dal canto mio, a quasi trent’anni non ho mai avuto un vero fidanzato, e i miei sono avvolti in una coltre di nebbia e dolore da troppo tempo perché possa ricordare che faccia abbiano quando le cose vanno bene.  

Ci sono tanti fattori da considerare per analizzare il mio stato mentale. 

Come mi fa sentire tutto questo?

  1. Colpevole?
  2. Arrabbiata?
  3. Triste?
  4. Altro?

Per aiutarmi a identificare qualcosa ho cominciato a mettere insieme una playlist su Spotify chiamata post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro. Comincia con Talking Shit About a Pretty Sunset dei Modest Mouse e finisce con How to Disappear Completely dei Radiohead, che sono forse tra i pezzi più significativamente deprimenti nella storia della musica.

Qualche sera dopo sto aiutando con il soundcheck dei River Banks, che si sono improvvisamente armati di un sintetizzatore perché chiaramente in fissa con il secondo album dei Glass Animals. Fino a ieri l’altro il cantante, Jacob Reaver detto appunto River, si era presentato sul palco con un tripudio di pettinature alla Elvis, giacche di pelle troppo strette e jeans skinny che gli accentuavano il pacco — in altre parole, voleva essere Alex Turner. Invece ora mi guarda attraverso questo paio di occhiali dalla montatura spessa che sicuramente indossa per scena. Sta facendo una transizione dall’Alex Turner post-esplosione degli Arctic Monkeys negli Stati Uniti, al tipino teneramente intellettuale dei Glass Animals. 

            «Quand’è l’ultima volta che avete sostituito il microfono?», mi chiede Jacob, allungando ogni parola come se tutto il mondo pendesse dalle sue labbra. Voglio spaccargli la faccia ogni volta in cui suonano qui, ma il capo dice che ci vede del potenziale, nei River Banks. E con potenziale intende: tutte le ventitreenni in fissa con gli Arctic Monkeys vogliono scoparsi Jacob, e per ogni ventitreenne con la minigonna e un disturbo alimentare ci sono almeno sei uomini che la seguono più che volentieri nel locale. 

            «Perché?» chiedo a Jacob, che non mi guarda nemmeno mentre sorseggia un sidro e consulta la lista dei pezzi da suonare stasera annotata ordinatamente su una Moleskine. «Questo microfono non ti sembra consono alla tua voce soave?».

            Quando percepisce il sarcasmo alza lo sguardo dalla Moleskine. «Vabbè, dài», risponde. «Basta dirlo, che mi ami».

            «Ciucciatelo, ‘sto microfono».

            Jacob ride. «Dài, April. Puzza dell’alito di ogni singolo cantante che ha mai messo piedi qui dentro. Mi ritrovo in bocca il DNA di ogni singolo stronzo».

            «Compreso il tuo, purtroppo, e ti assicuro che nessuno qui intorno vuole il tuo DNA in bocca» ribatto. «Hai bisogno d’altro?».

            Lui mette giù la Moleskine. «Un bacio portafortuna prima dell’esibizione?»

            Indico il suo batterista, una specie di Ed Sheeran gonfiato a pressione che si porta dietro cento chili di sovrappeso. È chinato ad accordare i tamburi, e la t-shirt troppo stretta gli si alza fino a mostrarci la riga del culo. «Chiedi a lui».

            «Colpo basso», risponde Jacob. Alle sue spalle vedo il capo che esce dal suo ufficio con una sigaretta dietro l’orecchio. Mi lancia un’occhiata, indica la porta. Improvvisamente ho voglia di fumare.

Taglio corto con Jacob. «In bocca al lupo» gli dico, che in teoria dovrebbe essere una metafora per augurare buona fortuna, ma sappiamo entrambi che detto da me ha un senso molto letterale. 

Insomma sto giusto per mettere mano alle sigarette e seguire il capo che è già fuori a fumare, quando sua moglie entra nel locale e invece che saltare sul bancone e accavallare le gambe come al solito marcia diretta verso di me e mi afferra le guance come se fossi un cavallo e volesse guardarmi i denti. 

            «Stupida, stupida troia», mi dice, con questa voce cantilenante, da bambina, come se stesse recitando una filastrocca. Il che mi fa ancora più paura che se fosse entrata urlando e spaccando tutto. Sento addosso lo sguardo di Jacob, del gruppo, della barista. 

«Magari non collegare al juke box il tuo account Spotify con le tue playlist da troia, se vuoi fare le cose di nascosto», dice, continuando a canticchiare con un’inquietante voce dolcissima, come una squilibrata, come se stesse parlando con una bambina. 

Del capo non c’è traccia, e sua moglie mi stringe così forte che sento l’interno delle guance toccarsi e il sapore di sangue in bocca, ma riesco a divincolarmi. 

Avrei dovuto aspettarmelo. Nessuno mi viene in aiuto, ma lei mi lascia e mi domando se debba mollarle uno schiaffone. Non mi sono mai picchiata con nessuno e lei ha tutta l’aria di una che potrebbe cavarmi gli occhi con quelle orrende unghie finte squadrate. Detto questo, la mia stupida bocca del cazzo non riesce a trattenersi. 

«Gesù», dico. «Chi l’avrebbe mai detto che le unghie di plastica appiccicate con la colla potessero graffiare così», le dico, massaggiandomi le guance. 

Lei fa per avventarsi di nuovo su di me, ma il capo finalmente entra nel locale e la afferra per togliermela di dosso. Non sembra sorpreso, tutt’altro. La allontana pacatamente e si piazza davanti a lei, dandomi le spalle. «Tu ti devi calmare», le dice, poi si volta verso di me. «April. Stasera te la prendi libera».

 «Bravo, mandala via», fa la moglie. 

Non so che dire. Il capo mi fissa con quegli occhi nocciola con gli anelli verdi intorno alle pupille e non vedo assolutamente niente dello sguardo tutto triste e pieno di senso di colpa che ha di solito dopo aver scopato. Mi guarda, anzi, come guarderebbe il finestrino della macchina lasciato aperto per sbaglio in una notte di pioggia. 

Lancio un’occhiata a Jacob, che scuote la testa come se lo avessi deluso personalmente. Vaffanculo, penso, e cerco di non dirlo ad alta voce. 

«April», ripete il capo; sua moglie si agita, lui la trattiene. «Non abbiamo più bisogno di te stasera».

«Stasera?!», grida lei. 

Lui sospira. «Vai», mi dice. 

Allora vado. 

Quando esco c’è ancora luce fuori. Nella loro casa appena fuori dal centro, i miei stanno probabilmente per mettersi a tavola: riso e pollo, potrei scommetterci. Al massimo una salsa di curry comprata alla Tesco e una London Pride in mezzo al tavolo. Tutto meglio dei pancake surgelati da ficcare nel tostapane e i due limoni rinsecchiti nel frigo del mio appartamento. 

Mi avvio alla fermata per andare dai miei e penso di metter su una playlist — non post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro, ovviamente, ma non ne ho pronta una intitolata ops, sua moglie ci ha beccati. Non so come dovrei sentirmi in un’occasione di questo tipo, quindi non metto proprio niente, e mentre cammino mi chiedo se mi mancherà, se magari ho fatto l’errore di innamorarmi, qualsiasi cosa voglia dire. Come mi sento, se sto bene, le solite domande. Come sta la bambina che era stata catapultata in un ritiro per la gestione del lutto in Oklahoma? 

Sto che con il capo c’era un semplice scambio di fluidi corporei e non è che lui mi ascoltasse, mi facesse ridere, o fosse interessato a un qualsiasi aspetto della mia persona che non fosse direttamente collegato al mio ruolo di manager del locale. Non mi parlava di sua moglie e mentre mi siedo sull’autobus mi rendo conto che non so niente di lui tranne che:

  1. È il più grande fan degli Stone Roses che conosco 
  2. Beve IPA
  3. Fuma Lucky Strike 
  4. Il suo snack preferito al pub sono i pretzel al formaggio
  5. Quando viene socchiude un occhio solo, come se avesse un tic. 

Poi comunque penso che gli scambi di fluidi sono sempre stati il mio unico modo per ritrovarmi, e forse è normale sentirmi un po’ così quando uno scambio di fluidi che accade a cadenza regolare finisce. Considerato soprattutto che potrei perdere il lavoro migliore che abbia mai avuto, nonostante tutti gli stronzi saccenti egomaniaci con cui devo avere a che fare, come Jacob Reaver detto River dei River Banks, o i Clementines e i loro maglioni da sci anni Ottanta. 

            Quando scendo alla fermata mi chiedo persino come mi sento ad aver potenzialmente sfasciato il matrimonio del mio capo e aver contribuito ad arrecare danni probabilmente permanenti all’autostima della moglie. 

            «Nulla», dico ad alta voce, scuotendo la testa per scacciare via quelle domande fastidiose e inquisitorie. Non sento nulla. Non è colpa mia, mi dico, se non è riuscita a tenerselo stretto.

            E ci credo davvero mentre dai cassonetti spunta questa volpe spelacchiata con in bocca un topo, come se vedere canini in momenti particolarmente significativi della vita fosse la mia maledizione. La volpe ha le orecchie abbassate, ma trotterella con il topo morto che le ballonzola in bocca, e mi passa accanto come se fossi invisibile. 

            Rimango ferma per un attimo, ma quando mi volto per vedere dov’è finita, la volpe è già sparita sotto una macchina parcheggiata per godersi il pasto, allegramente indifferente a tutti i miei drammi e quelli di chiunque avrebbe incontrato sulla sua strada. 

Come previsto: pollo, riso, e una bottiglia di London Pride che si aspettavano di dividersi in due e che invece ci divideremo in tre.

            Mio padre sta guardando il telegiornale. Negli ultimi anni, Nigel Farage è diventato il suo guru, e non si perde una parola di tutta la spazzatura che gli esce di bocca. Vorrei riuscire a litigarci, dirgli che Nigel Farage è un demone e finirà all’inferno a succhiare il cazzo al diavolo. Ma dopo mia sorella, l’entusiasmo di mio padre per il Brexit è stata la sua salvezza: grida e lancia tovaglioli contro il televisore quando parla il sindaco di Londra o Jeremy Corbyn, oppure si alza in piedi per applaudire quando Farage dice qualcosa di orribile sugli immigrati. Quando non è impegnato in disquisizioni politiche o non è al circolo coi suoi amici del partito, sembra uno sconosciuto entrato in casa per sbaglio e ci guarda come se avesse sempre bisogno di indicazioni per trovare il bagno. 

            Mia madre è più come me: va in automatico. Continua a preparare le sue tortine con la frutta secca al brandy quando arriva novembre, e a marzo riempie la casa di ovetti di cioccolato Cadbury. Cucina riso per cena, sandwich di tonno a pranzo, prende un pollo arrosto alla rosticceria dietro casa e lo affoga nella mostarda. Ma almeno ha smesso di apparecchiare anche per mia sorella. 

Ha smesso l’anno scorso, per dire la verità. Solo quindici anni dopo. 

            «Non hanno più la crema al caramello da Sainsbury», sta dicendo a mio padre. «Come lo vuoi il caffè d’ora in poi? Vaniglia francese o nocciola?».

Lui scrolla le spalle. «Mi va bene normale», dice. 

Quando sono entrata dovevo avere la mia solita faccia stirata, con la bocca sottile e gli occhi aperti a malapena, perché nessuno mi ha chiesto il motivo per cui fossi lì o se fosse successo qualcosa. Mia madre si è alzata e mi ha riempito un piatto di riso e pollo, ed ora eccomi qui, ad ascoltare Farage che sproloquia di immigrati e mia madre che sproloquia di crema al caramello. 

«Buono il pollo», cerco di chiacchierare, perché non so come dire che probabilmente oggi sono stata licenziata. 

«Grazie, tesoro», fa mia madre, versandosi un bicchiere di London Pride. «Il pollo di Tesco è molto meglio di quello di Sainsbury».

Mia madre era una sous-chef in un ristorante in centro a Nottingham prima di passare le sue giornate a parlare di polli di Tesco e creme per il caffè di Sainsbury. Ovvero prima di mia sorella.

Annuisco e mi ficco in bocca un altro pezzo di pollo. Nigel Farage sbraita ancora dal televisore. Il silenzio di casa dei miei è così insopportabile, da quindici anni a questa parte. Immagino di riempirlo: al lavoro mi hanno mandata via oggi. 

Perché? 

La conversazione finirebbe lì. Semplicemente, non ce la faccio. Continuo a masticare in silenzio pensando che devo aver fatto qualcosa di davvero sbagliato nella vita se a quasi trent’anni decido di passare il mio inaspettato giorno libero a casa dei miei, ma mentre sto cercando di riordinare i pensieri ripetendomi le istruzioni imparate al ritiro per la gestione del lutto, mi squilla il telefono. È il capo. 

Tiro indietro la sedia — non ci penso nemmeno a parlargli seduta davanti ai miei. Mia madre e mio padre non protestano quando esco dalla stanza e sento le mani già umide e sudate intorno al cellulare. 

«April?», fa quando sono in corridoio, in piedi davanti al muro dove un tempo i miei tenevano una foto in cui io e mia sorella eravamo sedute su un muretto a Margate. Avevamo i piedi penzolanti e le facce tutte sporche di gelato. Dopo aver mangiato eravamo andate su una giostra, e io avevo vomitato sulle scarpe di mia sorella. Adesso attaccato al muro non c’è niente. 

«April, ascolta». Esita. Sento che aspira, poi la sirena di un’ambulanza. È fuori a fumare. «La situazione è questa».

            «Ho capito», lo interrompo. 

            «No. Aspetta». Abbassa la voce. «Noi non dobbiamo vederci più».

            Classico. «Okay».

            «Quindi ho pensato…». Si schiarisce la voce. «Hai presente il mio amico Tyler, l’americano?».

            «Il proprietario dell’Hydro?».

            «Lui».

            «Non è a Londra? Che c’entra con me?».

            “Aspetta. Sì, è a Londra, ha questo locale a Soho, ma sta investendo su…». Si interrompe di nuovo. Ho come l’impressione che sua moglie sia piazzata lì davanti a fissarlo mentre parla con me. «Insomma, ha comprato questo locale storico l’anno scorso. Ha cominciato a rinnovarlo, ma vuole una voce nuova, giovane, più europea per selezionare le band e gestire le serate».

            Europea?

            «Okay».

            «L’ho chiamato. Ti prende volentieri».

            Fisso la parte di muro vuota dove stava la fotografia con mia sorella. Non so cosa dire. Più di tutto, come al solito, non so come sentirmi. 

            «Mi mandi a Londra?».

            «No», risponde. Si schiarisce la voce. «April. Ascoltami bene. Questa è un’ottima opportunità per te, capisci?».

            «Okay», ripeto. Sta arrivando l’inculata. Lui (o meglio, sua moglie) sta per spedirmi in un buco di merda in Galles o roba del genere. Già mi vedo in una cittadina invasa di pecore, dove piove sempre e suonano solo gruppi di musica celtica ultracinquantenni. Sto già pensando di rispondergli che se sento un’altra cover di Whiskey in the Jar mi impicco.

«Sarà un’avventura», continua. «Ti mando a Oklahoma City».

Cerco di non mettermi a urlare. Ogni volta che succede qualcosa, qualche stronzo mi manda in Oklahoma. Come se fosse un purgatorio in terra. Il luogo dove espiare i tuoi peccati o gestire ogni dolore. Ehi, se puoi sopravvivere in questo posto dimenticato da Dio, puoi superare qualsiasi cosa. 

«Oklahoma City. In Oklahoma», ripete. 

«So dov’è Oklahoma City», rispondo. 

Quello che ricordo dell’Oklahoma: 

  1. Boschi e parcheggi ugualmente vasti. 
  2. Cappelli da cowboy. 
  3. Armadilli schiacciati sulla strada. 
  4. Io che intreccio corone di rosmarino e dipingo con le dita circondata da altri bambini e preadolescenti che recitano una preghiera sull’onniscienza di Dio. 
  5. Il coyote che mi fissa. 

«Ci sono già stata», rispondo, e mi rendo conto di non averglielo mai detto. 

«Ottimo», fa, senza chiedere se mi sia piaciuta, o perché mai una ragazza di Nottingham sia finita in Oklahoma. «Che dici?».

            Per una manciata di secondi non so cosa rispondere; sento solo i rumori della strada che gracchiano dal telefono e Farage che sbraita ancora dal televisore. Lancio un’occhiata alla cucina; mia madre si alza per servire un’altra porzione di pollo e riso a mio padre. 

            «Okay», rispondo, scrollando le spalle come se potesse vedermi. 

            «Sul serio? Posso dare il tuo numero a Tyler e dirgli che ci stai?».

            Mi sembra quasi di vedere sua moglie che gli ordina di tagliare corto cercando di non farsi sentire, le lunghe unghie finte che creano archi nell’aria mentre gli intima di buttare giù: il grosso è fatto, ho detto sì, e non c’è bisogno di convenevoli. 

            «Okay», ripeto. «Vado in Oklahoma».

            «Grande», mi dice, sollevato, come se gli avessi appena risolto un bel rompicapo acconsentendo a rimuovere la mia fastidiosa presenza dalla sua vita coniugale. «Grazie davvero».

            «Grazie a te», rispondo, perché non so che altro dire. 

«Buona serata», dice un attimo prima di buttare giù senza aspettare la mia risposta. È l’ultima volta in cui sento la sua voce. 

In Oklahoma mia sorella non c’è nemmeno mai stata. Io sì, e me lo ricordo non appena il taxi che mi viene a prendere dall’aeroporto di Oklahoma City taglia in mezzo ai campi grigi e sconfinati interrotti solo da benzinai ed enormi croci. Sono gli stessi di più di quindici anni fa. 

            Il tassista prova a fare conversazione, ma io metto su la mia playlist — post sesso con il mio capo. Mi prometto che sia l’ultima volta in cui la ascolto. 

L’ultima volta in cui sono stata in questo paese avevo dodici anni e non capivo niente. Non è cambiato molto. 

America: o la ami o la odi. Ecco le cose che odio: 

  1. Camminare per quaranta minuti per arrivare al The Rattery, il locale dove lavoro, perché i mezzi pubblici non esistono;
  2. I parcheggi sconfinati e i centri commerciali suburbani tutti uguali che sembrano costruiti a colpi di calcestruzzo e Philadelphia;
  3. Il fatto di aver visto almeno tre pistole pendere dalle cinture di uomini che ordinavano al fast food o facevano benzina. 

Cose che non odio: 

  1. Il manager esecutivo del The Rattery. Eric: ventisei anni, un metro e novantacinque di barretta proteica ficcata in un paio di jeans scuri e una semplice t-shirt bianca, come se fosse uscito da un film di James Dean. Stivali da cowboy scuri tutti graffiati, tatuaggi che gli fioriscono sulla pelle chiara, una canna rollata infilata dietro l’orecchio. 
  2. A proposito: in Oklahoma è legale comprare l’erba se te la prescrive il dottore. 

«Mi è stata prescritta per i problemi alle ginocchia», mi dice Eric la prima volta in cui ci incontriamo per parlare del mio ruolo come manager creativo del The Rattery. È spaparanzato con uno stivale da cowboy sulla scrivania nel nostro ufficio sul retro, e sta rollando una canna. «Non ti spuntano un metro e novantacinque dal nulla a quindici anni senza qualche conseguenza sulle giunture», continua. 

            Vorrei dirgli che se vuole può sforzare le mie, di giunture, ma mi trattengo perché l’ultima volta in cui ho fatto sesso col mio capo è stata la ragione per cui adesso sono qui. Davanti a Eric. Seduta alla mia scrivania. 

            «Almeno puoi fumare quando vuoi senza problemi», commento. 

            «Esatto. Non tutti i mali vengono per nuocere. Per esempio, tu sei stata buttata fuori dal tuo paese perché scopavi la gente sbagliata. E io mi sono trovato con una collega con un accento megasexy».

            Spalanco la bocca. Non riesco a credere che l’abbia detto. 

            Lui fa un sorriso sbilenco, tutto di lato, come se riuscisse a muovere solo la parte sinistra della bocca. «Dài, Mata Hari, nessuno ti manda in un buco di culo in mezzo agli Stati Uniti senza un vero motivo. Ma non preoccuparti. Qui nessuno ti giudica. Ci vogliamo tutti bene, qui», mi dice. «In ogni caso. La storia è la stessa: devi selezionare i gruppi, occuparti del calendario, contattare i manager e gli agenti, preparare i contratti, promuovere le serate, e in sostanza fare quello che facevi al Cold Blood». Vorrei riuscire a smettere di guardarlo mentre chiude la canna con una generosa leccata alla cartina, e poi se la infila dietro l’orecchio. «Bene, Mata Hari. Il nostro obiettivo primario questo trimestre è arrivare ai Kings of Leon».

            Quando lo dice sento la bocca secca. Non ho mai lavorato con un gruppo così grosso. «Sul serio?».

Il primo istinto è dirgli che i Kings of Leon sono forse la band che odio di più al mondo, e che detesto la voce del cantante con una passione ardente. Quando qualche cliente fetente metteva Sex on Fire nel juke box del Cold Blood me ne andavo sempre fuori a fumare. 

Decido di rimanere neutrale. Devo imparare le regole della manager creativa ideale: 

  1. Non insultare i gusti musicali del capo
  2. Non scoparti il capo

«Lo so, lo so», risponde Eric, prima che dica tutto questo. «Sono enormi. Li vorrei per l’inaugurazione della nuova stagione, per perdere un pochino della reputazione troppo country che il The Rattery si è fatto con il tempo».

I Kings of Leon, penso, erano “enormi” qualche anno fa, e quando i fan affezionati li mettono al juke box, qualche stronzo (me) alza inevitabilmente gli occhi al cielo. Non capisco molto di emozioni e sentimenti, ma se so una cosa per certo è che provo verso tutta la produzione dei Kings of Leon quello che prova l’intera popolazione mondiale per Mr. Brightside dei Killers. Ma Eric non sembra dello stesso parere. 

«Sono appena usciti con il nuovo disco e sarebbero perfetti, perché sono famosi ma hanno radici in Oklahoma», spiega Eric. «Suonavano qui spesso, agli inizi. Io non li ho mai visti. Ero troppo giovane, non potevo ancora entrare nei locali».

Mi trattengo di nuovo prima di dirgli che se avesse un minimo di sale in zucca, il primo gruppo dell’Oklahoma che dovremmo trascinare sul palco per il rebranding del locale sono i Flaming Lips. Andrei a cercare Wayne Coyne in ogni buco di bar a Tulsa e lo prenderei per quel mazzo di riccioli che si ritrova finché non mi direbbe di sì. 

            Mentre fantastico su questa possibilità, Eric sembra notare qualcosa nella mia espressione, perché inclina la testa come un cane che sente un rumore che non capisce. «Cosa?», fa. «Non ti sembra una buona idea?».

            Alzo le spalle, ma un sorriso mi si allunga sul viso. «Non sono una grande fan dei Kings of Leon».

            Lui si mette a ridere — una risata ampia e profonda che mostra i suoi inspiegabilmente bianchi e perfetti denti bianchi da americano. «Okay, be’, facciamo così, Mata Hari. Una per te, una per me. Puntiamo ai Kings of Leon per la prima sera della stagione, e la prossima volta a un gruppo storico dell’Oklahoma che vuoi tu».

            Annuisco cercando di non arrossire. Mata Hari. Che adulatore. Purtroppo sono suscettibile alle parole smielate dette con l’accento del sud, e perdono qualsiasi cosa alla bellezza. Solo che lui continua a fissarmi come se dovessi rispondere. 

            «Cosa?» chiedo. 

            «Un gruppo storico dell’Oklahoma», ripete. 

            Oh. Mi sta interrogando. 

            «I Flaming Lips», rispondo subito. «Vorrei i Flaming Lips».

            Lui sorride di nuovo tutto a sinistra. La mia risposta sembra convincerlo. «Sapevo che avremmo fatto grandi cose insieme». Apre un cassetto e tira fuori un grosso raccoglitore. «Qui ci sono tutti i contatti di agenti, manager, giornalisti, influencer, qualsiasi indirizzo email e numero di telefono che possa servirti». Sbatte la manona sulla copertina. «Vammi ad acciuffare i Kings of Leon, e poi conquistiamo i Flaming Lips. Nelle prossime settimane, cerca di chiamare una manciata di gruppi per suonare durante la prima stagione. Ora fatti un giro per il locale, vedi che gente c’è. Dopo la serata, se vuoi, facciamo un giro sul mio pick-up e ci fumiamo questa canna. Benvenuta in Oklahoma». Mi fa l’occhiolino, che immagino sia la mia battuta d’uscita. E vorrei non essere così patetica, ma riesco a malapena ad alzarmi per l’ansia, una roba che non provo da quando alle medie la preside mi faceva chiamare per dirmi che i miei erano venuti a prendere perché mia sorella doveva andare all’ospedale.

Mi piacerebbe sembrargli Mata Hari, ma quando mi alzo in piedi mi tremano le ginocchia e spero di non lasciare una chiazza di sudore sulla sedia davanti alla sua scrivania. 

Primo giorno di lavoro e sono già nei guai. 

Il The Rattery è grande, ma è completamente foderato di legno chiaro e sembra più una stalla che un misto tra un bar e una sala concerti. Alla parete sono appese targhe e fotografie autografate di cantanti country che non conosco o che forse avrei preferito non conoscere: Qui è dove Garth Brooks ha fatto i primi passi della sua carriera, dice una targa dorata dall’aspetto solenne. Un Kid Rock strafatto mi sorride da una foto autografata in cui schiaffa la mano sul culo di Sheryl Crow. Mio Dio.

«Non male, eh? Il peggio del peggio», fa una voce alle mie spalle. Appartiene a un tizio sui quaranta che sembra un misto tra Kid Rock e Rob Zombie, con i capelli biondo sporco lasciati lunghi sulle spalle, una maglietta del film Halloween di Carpenter, e una manciata di denti piccoli e affilati con cui fatico a immaginare che riesca a masticare, considerato che gliene mancano parecchi. Non mi sorprenderei se fosse il nostro primo cliente della serata, pronto per la sua lattina di birra chiara (il giovedì a quanto pare c’è una promozione: tre Bud Light per sette dollari), ma in mano tiene una felpa arancione che dice SICUREZZA e capisco subito che questo misto di Kid Rock e Rob Zombie è nientemeno che un collega. 

            «April», gli dico, porgendogli la mano. «Sono la nuova manager».

            «L’inglese», risponde, e mi chiedo se stia calcando l’accento del sud. «Benvenuta. Sono il capo della sicurezza e l’organizzatore della serata quiz il martedì. Mi chiamo Alex. Alex Turner, non Trebek», aggiunge, e aspetta la mia reazione. 

            Ovviamente non capisco la battuta. Trebek? E questo tizio davvero mi vuol far credere che si chiama Alex Turner?

            «Ti chiami Alex Turner?», chiedo allora, pensando a Jacob Reaver detto River dei River Banks e tutti i miei connazionali e clienti del Cold Blood che se potessero ergerebbero un monumento in marmo del cantante degli Arctic Monkeys in mezzo a Trafalgar Square. «Stai scherzando?». 

            Lui alza le sopracciglia. «No. È il mio nome. Non Trebek». Scuote la testa, come se fossi la prima persona al mondo a non aver capito la sua battuta indiscutibilmente brillante. «Non sai chi è Alex Trebek?».

È il mio turno di scuotere la testa. 

«Io organizzo la serata quiz. E Alex Trebek era il conduttore di Jeopardy», risponde. 

«Uh-uh», dico. «Non ho presente».

Lui mi guarda. Io lo guardo. Nessuno dei due apre bocca.  

«Be’», conclude, e fa per andarsene. «Auguri».

Rimango lì ferma davanti alla stupida targa di Garth Brooks e la foto di Kid Rock con Sheryl Crow e penso di dire qualcosa per non farmi detestare più di quanto non abbia già fatto. 

«Ti chiami Alex Turner», gli dico. «Come il cantante degli Arctic Monkeys».

Lui si volta per un attimo. «Uh-uh», dice, imitando il mio accento. «Non ho presente». 

Che cazzo. 

Ondate di ragazzini. 

Anche al Cold Blood venivano diciottenni mascherati da venticinquenni, e le ragazze tra i ventidue e i ventitré erano sicuramente le prede più ambite dai trentenni in jeans skinny e giacca di pelle col capello lunghino a mo’ di Julian Casablancas. Ma gli avventori del The Rattery sembrano anche più piccoli, forse perché non si nascondono dietro la pretesa del look alternativo. I nuovi giovani americani non sembrano interessati a sembrare diversi. Le ragazze sono rigorosamente bionde, con la pelle che brilla sotto gli strati di illuminante, e indossano jeans larghi, spesse scarpe da ginnastica e top elaborati che mettono in mostra piercing all’ombelico e tatuaggi più o meno già visti: simboli dell’infinito, rondini e stelline. I ragazzi hanno lo stesso look, fatta eccezione per le t-shirt e le felpe dell’università o degli Oklahoma City Thunders e i cappellini da baseball calati in testa. Tutti hanno in bocca una di quelle orrende sigarette elettroniche che, invece di dare al locale il classico puzzo di tabacco stantio come Dio comanda, riempiono l’aria di nuvole al mentolo e schimicate ai frutti di bosco. 

In questo contesto, io me ne sto seduta al bancone ad approfittare dell’offerta tre Bud Light per sette dollari, fingendo di non essere una di quelle inglesi che sanno bere cinque IPA di fila senza vomitare. C’è una sola IPA disponibile al The Rattery, e la barista, una ventitreenne con la maglietta di Taylor Swift e un rossetto color fragola, mi spiega che è roba pesante. 

«Si chiama F5», dice, mostrandomi la lattina verde su cui è disegnato un tornado. Poi, probabilmente perché sono qui da sola e con i miei jeans skinny neri, gli stivaletti a punta e la mia camicia extralarge leopardata a maniche corte sembro probabilmente una lesbica dei primi anni duemila finita qui per caso, la barista cerca di fare amicizia e mi spiega un po’ di roba sui tornado, sul fatto che in Oklahoma ci siano tra i peggiori di tutto il paese; e continua a parlare, mi dice del film Twister, che è stato girato proprio qui intorno, e poi mi racconta che questa IPA locale si chiama F5 perché un tornado Forza 5 fa i danni peggiori. 

«La lattina è verde perché il cielo diventa verde poco prima di un tornado», aggiunge mentre apre uno di quei seltzer alcolici alla frutta per una ragazza con la t-shirt della University of Oklahoma. Ascolto cercando di non fissare la pista da ballo, dove una trentina di giovani si sono buttati in una danza orripilante, che a quanto pare, mi dice la barista, si chiama two-step. Non l’ho mai vista prima dal vivo, forse solo in un film western che sarebbe potuto piacere a mio padre o una commedia romantica dei primi duemila in cui Reese Witherspoon o qualsiasi altra bionda torna nella città natale del sud per innamorarsi di un rude cowboy dal cuore d’oro che la conquista senza molte parole, ma con mosse di danza ineccepibili. Dal juke box arriva una canzone di country contemporaneo che non ho mai sentito prima, una roba disgustosa con l’autotune che non ha niente a vedere con la spensierata nostalgia di Johnny Cash o Willie Nelson.

Alex Turner, non Trebek, è in piedi ai margini della pista e si guarda intorno masticando uno stuzzicadenti con la voracità di chi vorrebbe passare l’intera serata fuori a fumare. A quanto pare, la politica per consumare tabacco è di uscire, ma le nuvole chimiche delle sigarette elettroniche sono perfettamente accettabili anche dentro. Alex non mi ha ancora rivolto un’occhiata dopo il nostro magico incontro di completa incomprensione culturale, e sto giusto cominciando a chiedermi cosa cazzo sia venuta a fare in un posto del genere e come possa trasformare questo locale in un tempio del rock indipendente, quando sento un urlo e un trambusto generale alle mie spalle, proprio dalle parti del juke box. Alex Turner, non Trebek se ne accorge prima di me e parte in automatico, diretto verso la fonte del dramma — e io non posso fare a meno che seguirlo, interrompendo la barista e i suoi tornado con la scusa di far parte dello staff e dover quindi risolvere l’emergenza.       

Mi porto dietro la mia Bud Light che sa di piscio per godermi la scena di una ragazza magrolina con una nuvola di capelli neri mentre prende a calci il juke box che ancora si ostina a trasmettere la canzone inascoltabile di cui scopro il titolo, Honey Bee di Blake Shelton — da mettere in una playlist intitolata, roba da non ascoltare mai. 

Alex Turner, non Trebek si precipita ad afferrare la ragazza facendosi strada tra gli amici di lei, che ridono e la incoraggiano. Le dice qualcosa che non afferro, quindi mi avvicino ancora. Gli occhi della ragazza sono grandi e gialli e le pupille sono gonfie come palloncini. 

«E dài», protesta lei, «seriamente mettete roba così al The Rattery?».

Non potrei essere più d’accordo. 

«Tesoro, non ha importanza che ti piaccia o no», ribatte Alex. «Se ci spacchi il juke box non ascoltiamo niente di niente».

«Meglio di questa merda qua», risponde lei, e molla un altro calcio. 

I suoi amici, tutti rigorosamente maschi, ridono. 

Alex fa un passo in avanti. «Se lo fai un’altra volta mi trovo costretto ad accompagnarti fuori».

La ragazza lancia un’occhiata ai suoi amici, prende un sorso del suo seltzer alcolico e poi accartoccia la lattina. Non è acconciata diversamente dalle altre tipe che si dimenano sulla pista, con un top bianco attillato e un paio di jeans larghi, ma ha un corpo sottile e fibroso e lo sguardo di chi non si farà proprio buttare fuori da nessuno. «È tutta la sera che sento solo musica country o Taylor Swift. Non riesco nemmeno a trovare la mia band nella lista».

«Okay», fa Alex. «Scegli una canzone e aspetta il tuo turno come tutti gli altri».

«Ma non c’è la canzone che voglio!».

«Chandra, lascia perdere», interviene un suo amico, un bel tipino col viso pulito che probabilmente se la scopa o se la vuole scopare. Le mette un braccio intorno alla vita. «Lo sai che il The Rattery è diventato squallido».

«Ma non lo era!», insiste lei, e per enfatizzare la sua frustrazione comincia a dare grosse pacche sullo schermo del juke box. «E i The Chakras sono il miglior gruppo di tutta Oklahoma City! Come potete non —».

«Mai sentiti», risponde Alex, poi le afferra il braccio. «Tesoro, stasera hai bevuto abbastanza. Devi andare».

Solo allora mi avvicino al punto che Chandra e i suoi amici si voltano con l’espressione di chi vorrebbe proprio sapere cosa cazzo voglio. E in realtà non lo so nemmeno io, ma la manager che risolveva ogni singola richiesta assurda dei gruppi al Cold Blood salta improvvisamente fuori dalla ragazza inglese confusa in mezzo a questa massa di campagnoli. 

«Okay, okay», comincio. «Ti capisco. Questa roba fa schifo pure a me», dico, anche se la canzone di Blake Shelton è finita da un pezzo per sfumare in una altrettanto smielata. La ragazza mi guarda strizzando gli occhi, come se volesse interpretare il mio accento o almeno capire cosa voglio da lei. Le porgo la mano. «Sono April, la nuova manager del The Rattery. Mi hanno chiamato per aiutare a ritrovare la grinta rock ‘n’ roll di un tempo».

Chandra lancia un’occhiata trionfante ad Alex e lui tende la mascella mentre le lascia il braccio. 

1Ce n’è bisogno», mi dice Chandra, e per un secondo sembra farsi più tranquilla. 

«Quindi hai un gruppo?», le chiedo. «Che genere fate?».

I suoi occhi tornano a farsi grandi e lucenti e sono sicura che sia fatta di qualcosa, ma non sono sicura cosa. Data la mia esperienza con le band al Cold Blood, direi coca. 

«Sì, sono la cantante dei The Chakras», indica il tipino col viso pulito, che deve far parte del gruppo. «Siamo un gruppo queer, alternativo, poliamoroso, un po’ elettronico, un po’ rock ‘n’ roll, con punte sperimentali e derive spirituali», risponde, qualsiasi cosa voglia dire, e mi sembra che si sia preparata questa formula e abbia imparato a recitarla ogni volta che qualcuno le fa questa domanda. In mezzo al suo petto, sopra la scollatura del top, scorgo un tatuaggio con simbolo del chakra nella mano. Il nome del gruppo non è granché, ma lei sembra esattamente il tipo di cantante che avrei invitato al Cold Blood. Ha il piercing alla lingua e l’aria di una che ha visto cose, forse non sempre belle. Come me.

«Bene, Chandra. La prossima settimana faccio un po’ di selezioni per i gruppi che vorrei suonassero questa stagione. Che ne dici di lasciar stare il nostro juke box ma presentarvi da me?». 

Lei alza un sopracciglio e un angolo della bocca, e il suo amico col viso pulito le stringe un polso, tutto eccitato. Sento addosso lo sguardo di Alex che mi studia. Do il meglio di me, quando devo calmare un cantante petulante dall’ego tanto gonfio quanto fragile. 

«Chi l’avrebbe mai detto che avrei ricevuto un invito a un’audizione per aver preso a calci un juke box», mi dice Chandra con tono di sfida. 

Non attacca. «Già», rispondo, tirando fuori il cellulare per prendere il suo numero. «Sei una vera rockstar».

Un uomo, lo so per esperienza, non avrebbe percepito il sarcasmo. Lei sì. Pianta gli occhi nei miei e io le sparo lo stesso sorriso di sfida che mi ha appena indirizzato lei. «Quindi, rockstar, comportati bene e forse ti troverai proprio lì». Indico il palco vuoto oltre la pista da ballo. «Sennò nulla».

Chandra apre bocca, ma esita per un attimo. «D’accordo», ammette alla fine. «Ho un disturbo dell’attenzione. A volte mi prende così».

«Sì, e chi te l’ha diagnosticato? Il tuo spacciatore?», interviene Alex. 

Io alzo una mano per farlo stare zitto prima che Chandra si irriti di nuovo. «Dammi il tuo numero, rockstar».

Chandra ignora Alex, come se fosse completamente invisibile, e con voce flautata mi detta ogni cifra del suo numero come un segreto. Quando ha finito, però, si volta verso di lui. «Così è come si trattano i clienti», gli dice, con un sorrisone. «Io sono la cantante di un gruppo rock che sta per far saltare in aria Oklahoma City, e tu sei solo un miserabile buttafuori coi capelli unti e i denti marci che guadagna otto dollari l’ora».

Faccio un lungo sospiro e chiudo gli occhi. Quando li riapro, Alex sta accompagnando Chandra e i suoi amici fuori dal locale. Lei sghignazza come una maniaca mentre Alex mi lancia uno sguardo e scuote la testa, deluso come se gli avessi detto che la sua battuta su Alex Trebek non fa ridere proprio per niente. 

A fine serata, Eric mi sta aspettando in piedi appoggiato al suo pick-up scuro, la canna in mano e il sorriso piegato sui dentoni bianchi e perfetti. È una notte placida, e una brezza leggera asciuga tutto il sudore provocato dall’umidità del The Rattery. «Pronta, Mata Hari?».

Non aspetta che risponda e si volta per abbassare il lato più corto del retro del pick-up. Ha addosso la stessa t-shirt bianca di prima, che mostra i suoi muscoli tendersi quando lascia che la lastra d’acciaio scivoli giù. «Ti farei sedere di fianco a me, ma non posso permetterti di arrivare in Oklahoma senza costringerti a fare una girata sul retro di un pick-up». Si volta e mi fa uno dei suoi occhiolini da cowboy americano che sa benissimo cosa (mi) sta facendo. «Monta in sella», dice, e mi porge la mano per aiutarmi a salire. Io eseguo, poi chiude il letto del pick-up. «Quando parto, chiudi gli occhi e ricordati: non c’è niente che possa andare troppo male se ti siedi sul retro di un pick-up in corsa, accarezzata dal vento tutto matto dell’Oklahoma». 

Mi fa ridere.

            Oh mio Dio, penso. Ho appena riso. A bocca aperta, con l’aria che mi sfuggiva dalla gola, un’espressione di gioia che non sono riuscita a fermare. Con il capo non lo facevo mai. 

            «Sei proprio un incantatore», gli dico, e lui finge di spararmi con due pistole fatte con il pollice e l’indice di entrambe le mani. 

«Divertiti», mi dice, e monta in macchina. 

Mette in moto e sento la potenza del pick-up sotto di me, la città che comincia a sfilarmi intorno coi suoi mattoncini rossi e gli edifici alti ma non troppo perché con tutti questi tornado non si sa mai. Guardo il The Rattery con la sua insegna d’oro e il cartellone bianco che dovrebbe elencare i gruppi delle prossime serate — è vuoto, ma ancora per poco. Li lascio alle spalle col vento che mi frusta i capelli sudati sul viso, rivolta verso questo nuovo mondo che mi esplode intorno per scacciare quello vecchio: 

1. Il capo e sua moglie che raccolgono i cocci del loro matrimonio

2. Jacob Reaver che si lamenta del microfono

3. I miei che mangiano pollo e riso

4. Le volpi con i topi morti in bocca

Mi lascio tutto questo alle spalle, non mi sono mai sentita così e per una volta non ho playlist adatte: sono nuova, intera, in ginocchio sul retro del pick-up di un americano biondo che continua a farmi sorridere. 

Eric accosta in un punto imprecisato appena fuori da Oklahoma City, in campagna. Spegne il motore e scende di macchina, gli stivali da cowboy che scricchiolano sullo sterrato. Siamo solo io e lui, le luci della città ormai lontane. La stradina polverosa somiglia a quella appena fuori dalla baita dove dormivo al ritiro per la gestione del lutto, e cerco di tenere gli occhi bassi per non guardarmi intorno e ricordare della dodicenne confusa e sola che ero. 

Magari dovrei pure aver paura. Ho visto troppi documentari su omicidi e serial killer americani per non sentire un formicolio di ansia addosso. Ma Eric si arrampica sul retro del pick-up e si siede di fianco a me, e forse quest’ansia che provo non è del tutto spiacevole.  

            «Allora?», chiede, e si sfila la canna da dietro l’orecchio. Nel silenzio totale sento il suo respiro e il calore del suo corpo accanto al mio. Accende la canna, ma me la passa per lasciarmi fare il primo tiro. 

            Neanche a dirlo, è l’erba migliore che abbia mai fumato. Dritta dal negozio, confezionata dopo essere stata coltivata amorevolmente nei campi californiani.  

            «Allora che?», chiedo, mentre l’erba mi scioglie i pensieri. Non voglio dargli l’impressione di pendere dalle sue labbra, perché Eric sa bene quello che sta facendo e sa pure che lo so anch’io. E la verità è che non so come comportarmi quando a qualcuno sembro piacere davvero. Non che sia mai successo. 

            Lui ride. «Allora che? È la tua prima volta sul retro di un pick-up. Non ti sorprende proprio niente, eh, Mata Hari?».

            Alzo lo sguardo su di lui. Riesco a vedere il suo sorriso tutto spostato di lato anche nel buio. «Sono felice», rispondo, ridendo, e anche se lo sto solo prendendo in giro, quelle parole hanno un sapore strano nella mia bocca. «È questo che vuoi sentirti dire?».

            Lui prende un lungo tiro e trattiene il fumo nei polmoni, strizzando gli occhi. Poi lascia andare. «Eddài. Lo so che sei la ragazza inglese troppo figa per noi poveri contadini, ma lasciati sorprendere». Alza un dito verso il cielo. «Scommetto che le stelle non si vedono così a Nottingham», e ha ragione.

            Quando guardo in alto, mi ricordo della notte in cui non riuscivo a dormire sulla mia brandina nella baita durante il ritiro, quando la limpidezza delle stelle mi aveva disturbato, come se potessero restituire lo sguardo e vedermi, aprirmi ed esaminare tutto il subbuglio che avevo dentro dopo mia sorella.

            Ora è lo stesso. Le stelle chiare e luminose mi inquietano. Non so cosa c’è, lassù.

            «Che c’è?», chiede Eric. 

            Alzo le spalle. «In realtà non è la mia prima volta in Oklahoma», rispondo, e non riesco a credere che glielo sto dicendo. Non l’ho mai detto a nessuno in tutta la mia vita. 

            È la canna, mi dico; è l’erba che mi scioglie e mi confonde. 

            «Davvero? Non ci credo, Mata Hari. Tutte queste manfrine, e viene fuori che hai già fatto un giro sul tuo primo pick-up con un altro stronzo».

            Rido. «No, no. Ero piccola». 

            Lui si fa più vicino. Sa di fumo, dell’odore di chiuso del nostro ufficio, del legno bagnato di birra del The Rattery. 

            «E che ci faceva una bambina inglese nelle campagne dell’Oklahoma?», chiede.

            Glielo dico. Ma non gli racconto della malattia, di tutte le notti in ospedale a Nottingham, dei sintomi più dolorosi o dei miei genitori. Non ho ancora trovato le parole giuste per parlare di tutto questo neanche con me stessa. Quindi gli racconto del mio ricordo più vivido in Oklahoma: la notte del coyote. 

            «E mi guardava con gli occhi di chi ha davvero fame», gli dico alla fine, tra una boccata di canna e l’altra. «Di chi ha bisogno. E ho pensato a lei, a mia sorella. Mi sono chiesta se quando era malata avesse mai avuto la forza di sentirsi così. Sul ciglio del burrone».

            Appoggio la mano sotto di me. Il letto del pick-up è freddo, seminato di polvere e pezzettini di legno. Eric guarda in alto, verso le stelle, appoggiando la testa contro il bordo del pick-up. 

«Forse non mi ha attaccata perché ha riconosciuto in me la stessa… boh, paura», continuo. «La stessa fame e lo stesso vuoto».

Non so perché gli sto dicendo tutto questo, ma forse in fondo sì, e quando ho finito, Eric non si scompone. «Mio nonno è stato spazzato via dal tornado forza cinque del 2013», dice, come se mi stesse raccontando di aver fatto benzina. «È sopravvissuto, ma non è mai stato lo stesso». Poi si volta verso di me e fa il sorriso tutto di lato. La sua faccia mentre me lo dice è come una di quelle canzoni allegre che parlano di cose tristi. Tipo Train in Vain (Stand By Me) dei Clash. Quelle canzoni sono le mie preferite. «È la vita, Mata Hari», aggiunge, e giuro che vorrei chiedergli di più: che significa che suo nonno non è mai stato più lo stesso, se sta bene fisicamente o mentalmente, e se Eric ha una madre o un padre o una nonna o qualcun altro che invece è rimasto. 

Ma non importa, perché lascio la canna sul letto del pick-up, metto una mano intorno al collo di Eric e lo bacio così forte che lo sento annaspare, quasi come se per la prima volta fossi stata io a coglierlo di sorpresa. 

Quando vede Chandra che sale sul palco in pompa magna con addosso un vestitino verde trasparente da cui spuntano i piercing ai capezzoli (e, a dirla tutta, anche le areole piccole e perfette), Alex mi lancia la stessa occhiata rassegnata che mi ha riservato la sera in cui l’ha accompagnata fuori dal The Rattery. Il locale è chiuso per le selezioni dei gruppi, e Chandra con i suoi The Chakras sono i primi a suonare davanti a me, seduta a un tavolaccio di plastica che Eric ha tirato fuori dallo sgabuzzino. Mi sentirei tremendamente importante, se solo non fossi così imbarazzata davanti al look di Chandra. Lo sguardo di ogni maschio presente, che include una trentina di musicisti e i membri della sicurezza, sembra calamitare sui suoi capezzoli. Lei non sembra affatto a disagio. Anzi. 

            La parte di me che mi piace di meno è quella che prova una specie di invidia. Non sono mai stata la tipa che si scandalizza né quella che richiede attenzione, perché l’attenzione di solito mi fiocca addosso senza che neanche provi a ottenerla.

Non stasera. 

            «Luce e amore», comincia Chandra con voce suadente. Ha gli occhi semichiusi, forse un effetto di un’altra droga o una mossa da palcoscenico, e continua a mordersi convulsamente le labbra, scoprendo i canini come se fosse una bestia pronta ad attaccare. I membri del gruppo — tutti uomini, fatta eccezione per una tastierista bianca, altissima e magrissima con i rasta, sembrano esattamente i tipi che farebbero parte di un gruppo chiamato The Chakras: hanno l’aria di chi vive di droghe psichedeliche, orge di gruppo, malattie veneree e meditazione. 

            Alex, in piedi vicino alla porta, mastica il suo stuzzicadenti con l’aria di chi ha ascoltato i Metallica per tutti gli anni Ottanta e non si è ancora mosso di lì. Oggi ha addosso una maglietta dei Megadeth e i capelli non sembrano essere ancora stati lavati dal weekend appena passato. O magari, lavati o meno, hanno ormai raggiunto questo stato di untuosità permanente. 

            I The Chakras suonano un paio di pezzi, un misto tra il sound dei Modest Mouse degli inizi e gli Animal Collective dei primi 2010, e Chandra ha una bella voce profonda alla Florence Welch. Sono tutti bravi, compreso il tipino col viso pulito che si è portato dietro una Stratocaster scalcinata che ha tutta l’aria di essere un pezzo vintage, ma Chandra è ovviamente la vera star. Si muove sul palco e intorno ai suoi musicisti con l’aria di una che non solo si lascia scivolare l’attenzione morbosa addosso — la pretende. E, noto, bacia con la lingua sia il chitarrista che il bassista, e si struscia addosso alla tastierista stangona con un dolce rollio dei fianchi. 

            Ogni tanto, tra le pause strumentali, Chandra tira fuori la sua sigaretta elettronica e ne prende una lunga boccata che poi rilascia in una nuvola densa da cui risorge come Charlize Theron nella pubblicità di un profumo, con la sicurezza di chi è già alla notte della loro prima esibizione al The Rattery. Ci avevo visto giusto. I musicisti intorno a noi sono rapiti. L’unico che non sembra convinto è Alex Turner, non Trebek, che getta via il moncone di stuzzicadenti rimasto e se ne mette subito in bocca un altro. 

            Sono brava, penso. L’ho vista subito, Chandra, mentre tirava calci al juke box. Le altre band che ho invitato sono nomi che ho visto in giro sui social media o che ho trovato nel raccoglitore che mi ha dato Eric, ma i The Chakras sono una scoperta. Li avrei invitati al Cold Blood di sicuro, senza ammettere nessuna protesta del capo. Il quale avrebbe comunque lanciato un’occhiata a Chandra e avrebbe detto sì. 

            Quando il gruppo finisce e il secondo comincia a prepararsi sul palco, Chandra volteggia dritta verso di me. «Allora, baby?», mi fa. «Non male, eh?».

            Io sorrido, pronta ad attuare la mia strategia, come facevo con Jacob Reaver detto River dei River Banks e con tutti i cantanti egomaniaci che passavano dal Cold Blood: fargliela annusare. «Sì, non male, dài». Fingo di non trovare le parole, e i tratti del viso di Chandra sembrano liquefarsi per un secondo. «Okay, rockstar. Fammi andare a fumare una sigaretta e ti dico che ne penso, d’accordo?».

            Il sorriso di Chandra è scomparso, e lei continua a contrarre la mascella scoprendo i canini come faceva sul palco. Mi alzo dal tavolino sbilenco mentre i tecnici assistono il secondo gruppo, cinque maschietti bianchi in pantaloni stretti e giacche di pelle che potrebbero venire scambiati per una manciata qualsiasi di membri dei Kasabian, Franz Ferdinand, o Cage the Elephant. L’indie rock sa essere così prevedibile, a volte. È chiaro che i The Chakras sono i più interessanti; lo so io come lo sanno tutte le altre band, e come soprattutto sa Chandra. 

            «Stai scherzando, spero», mi trattiene Chandra prima che esca dal locale. 

            Io mi volto con un sorrisone dipinto in faccia. «In che senso?».

            «Se non ci selezionate siete dei deficienti», risponde. Non ha più gli occhi semichiusi come sul palco — si morde le labbra finché non vedo una macchiolina di sangue fiorirle su quello inferiore. Non so esattamente che droghe si faccia questa, ma le voglio provare tutte.  

            Non rispondo e le faccio l’occhiolino, poi mi volto e mi dirigo verso Alex. 

            «Hai una sigaretta?», gli chiedo, e lui mi segue fuori subito, non tanto perché gli stia simpatica, quanto per avere finalmente una scusa per fumare. 

            Ci lasciamo l’umidità del locale alle spalle per tuffarci in quella di Oklahoma City. Oggi non c’è neanche un refolo di vento tra i palazzi, e i capelli mi si appiccicano al collo. 

            «Stai giocando con la tipa sbagliata», fa Alex, passandomi una Newport. 

            «Mmm?». Il fumo mi avvampa nei polmoni. 

            «L’hai vista l’altra sera. L’hai vista oggi. Chandra è matta in culo».

            «Se fosse un uomo non lo diresti». 

            Lui scuote la testa. «No, invece direi esattamente lo stesso. L’ho già fatta la roba che si fa lei. Hai notato questi?». Si indica i denti, e non so se dirgli sì o no. Se gli dicessi sì ci rimarrebbe male, ma un no significherebbe mentirgli. Lui capisce immediatamente quello che sto pensando. «Esatto, li hai notati. Non perdi metà denti a quarant’anni perché mangi troppe caramelle e non vai dal dentista».

Mi schiarisco la voce, sentendo il fumo che mi sfrigola nei polmoni.

«Sei la manager. Sai tu cosa fare. Non voglio dirti come fare il tuo lavoro, ma…». Alza le spalle. «Chandra ha una reputazione da queste parti. Ha due bambini con due padri diversi, di cui uno è in galera. Fino all’anno scorso lavorava allo strip club sulla statale, e un giorno uno dei tizi che si scopava ha afferrato uno dei suoi figli, neonato, e l’ha strapazzato. Così». Finge di scuotere qualcosa nell’aria. «Adesso quel povero bimbo è strabico. E lei continua a farsi e scoparsi gli spacciatori. O chiunque passi sulla sua strada».

Ci avevo visto giusto anche su questo: Chandra ha visto cose brutte. Sicuramente più brutte delle mie. Quando Alex mi dice tutto questo penso a mia sorella, al terrore di vedere un bambino perdere tutta la gioia. 

Il dolore è, come al solito, una catena di eventi e ricordi che sotterro ogni giorno attraverso la musica e il mio lavoro: rivedo la mia solitudine di fianco a mio padre che grida contro la TV e mia madre che affoga i polli nella mostarda, il sorriso della moglie del capo trasformato nell’espressione più incattivita e terrificante che abbia mai visto, e poi io, impacchettata su un aereo, spedita dall’altra parte del mondo. Tutto quello che so adesso di Chandra mi fa venire voglia solo di entrare, chiederle di suonare, e dirle che stavo solo scherzando, certo che li vogliamo.

«Okay, be’», rispondo, e spengo la sigaretta sotto la suola della scarpa. «In tutto questo, l’unico stronzo a cui non offrirei un contratto è il tipo che le ha shakerato il bimbo come un margarita. Chandra mi sembra solo una poveraccia. E il suo gruppo spacca».

Alex scuote la testa. «Va bene, va bene. Dammi pure dello stronzo sessista. Non è perché è una donna», dice. «È perché è una tossicodipendente disperata. Fidati. Non ti puoi fidare dei disperati». Poi apre bene la bocca per mostrarmi i pochi denti rimasti e le gengive annerite. «Se non lo fossi stato anche io, adesso non sarei ‘un miserabile buttafuori con i capelli unti e i denti marci che guadagna otto dollari l’ora’. Sarei il cantante di un gruppo metal e cagherei in testa a quei froci dei Greta Van Fleet». 

Quando si volta per andarsene non posso fare a meno che sentirmi di nuovo in colpa. 

Che schifo. Da quando sono in Oklahoma, non ho fatto altro che sentire. 

Quando rientro, Chandra è seduta al mio posto al tavolo sbilenco che mi ha dato Eric. Mi avvicino e mi schiarisco la voce. 

            «Devo alzarmi?», chiede, con la solita aria di sfida.

            «Prego», le dico. 

            Lei lo fa di malavoglia. «Quindi», comincia, ma io la interrompo. 

«Chandra, ascolta, il tuo gruppo mi piace. Siete interessanti e tu ti muovi bene sul palco. Ma —».

            «Ma cosa?», m’interrompe. Ha gli occhi ancora più vitrei di prima. Deve aver fatto un rinforzino mentre ero a fumare. «Cosa ne sa una trentenne inglese che ascolta ancora i Gorillaz?».

            Ouch. Questa brucia. 

            «Che hanno di male i Gorillaz?», chiedo, più offesa dal fatto che sia così ovvio che li ascolti. 

Non fa in tempo a rispondere, perché Eric entra nel locale e per un attimo mi distraggo.  L’altra sera ci siamo baciati sul retro del suo pick-up finché non si è fatto giorno, e poi ancora e ancora le notti successive, ma quando ha provato a infilarmi la mano nelle mutandine, mi sono irrigidita. 

Lo so che non ha una moglie, e so anche che il capo del Cold Blood era diverso. Non ci provava nemmeno, a farmi ridere. Eppure. 

Ora Eric indossa una delle sue t-shirt bianche e i jeans scuri e gli stivali e come al solito quando lo vedo mi sento precipitare a terra.

Chandra si volta, segue il mio sguardo, ed Eric mi saluta col suo sorriso enorme e sbilenco fatto di dentoni perfetti da bimbo. 

«Ehi, straniera», mi dice, avvicinandosi al tavolo, e mi sfiora la mano con le dita. «Mi sembra che le selezioni stiano andando alla grande».

Il fatto che mi abbia anche solo toccato la mano davanti a tutti mi fa formicolare. Come se non se ne vergognasse e non ci fosse niente di segreto. 

«Sei tu il capo?», gli chiede Chandra. La sua voce è tornata quella suadente da esibizione. Non aspetta che Eric risponda. «Abbiamo appena fatto l’audizione e abbiamo spaccato».

Lui mi lancia un’occhiata, e io gli sorrido. «Bene, mi fa piacere», le dice. 

Chandra tira indietro la testa, e la nuvola di capelli neri lisci le ricade sulle spalle. «Peccato per te che te la sei persa». 

Lui si gratta la nuca, arrossendo leggermente, poi tira fuori la canna da dietro l’orecchio. Mi sembra a disagio per la prima volta da quando l’ho conosciuto. «Be’», dice, balbettando leggermente. «Mi affido a April», e senza voltarsi se ne va a grandi passi verso l’ufficio. 

A ogni suo passo che si allontana, il mio cuore sembra tornare a battere regolarmente. Sento il sudore che cola sulla pancia e abbasso lo sguardo sulla lista di band che si esibiranno, cercando di concentrarmi su quello che devo fare. 

Ma Chandra torna a rivolgersi a me. «Carino lui. Ottima mossa, baby», mi dice. 

Per un attimo vorrei non starmene seduta al tavolo mentre lei mi guarda dall’alto. Mi sento piccola, racchiusa nel mio imbarazzo. Apro la bocca per ribattere, ma lei fa prima. 

«Tranquilla, ci vedo lungo per queste cose», dice. «Siete fatti l’uno per l’altra».

Mi devo ricomporre, tornare a parlare di musica e non di Eric. «Okay, be’. Come ti dicevo, stiamo cercando di fare le cose in grande. Vogliamo riportare il The Rattery alla gloria rock ‘n’ roll di un tempo. Sai, quando non c’era solo questa roba country con l’autotune e le canzoni di Taylor Swift».

            «È esattamente quello che voglio io», risponde, annuendo, e tira una lunga boccata di sigaretta elettronica. 

            «Ma come ti ho detto, stiamo puntando in alto».

            «Tipo?».

            Io mi avvicino. «Il mio capo vuole i Kings of Leon».

            Lei apre la bocca in un grosso sorriso. «Stai scherzando? Hai detto che lui», fa un gesto che dovrebbe indicare Eric, ormai andato da un pezzo. «Lui vuole i Kings of Leon?». Annuisco, e a quel punto è lei ad avvicinarsi. «Ti piace, eh?».

            Cerco di non andare a fuoco. Non ho idea di cosa rispondere. 

«Okay, allora», continua. «Da donna a donna». Si china per guardarmi bene negli occhi, e quando lo fa almeno due o tre tizi tra tecnici e musicisti si voltano a guardarle il culo. «Se ce li fate aprire, ti porto almeno uno dei Kings of Leon per un concerto acustico segreto. E tu fai una bella figura col tuo principe azzurro».

Ignoro il commento su Eric. «Sei seria?».

            Lei sorride. «Come un attacco di cuore».

            «E come pensi di fare?». 

            «Ogni uomo passato dall’Oklahoma farebbe di tutto per le spogliarelliste dello strip club sulla statale», mi dice. «Non sottovalutare il potere di due donne che si uniscono per prendersi quello che vogliono».

            Le porgo la mano. Lei finge di sputare sulla sua, al che la imito per stringerla. 

«Non lo farei mai, rock star», rispondo, e lei sorride con quegli occhioni tondi pieni di metanfetamine.  

            E così becco i The Chakras, e pure i Kings of Leon. 

La sera delle selezioni Eric mi dice che ha una sorpresa per me. Io ho deciso di non dirgli niente dei Kings of Leon finché non sono sicura al cento per cento che ci stiano, quindi faccio finta di niente mentre apre due PBR e me ne passa una. Siamo di nuovo nel suo pick-up, e stavolta sono seduta di fianco a lui, con una canzone di Tyler Childers che irrompe dallo stereo.

«Dove mi stai portando?», gli chiedo. 

Lui prende un sorso di birra. «Aspetta e vedrai», dice, e come al solito la destinazione è un classico buco in campagna, in mezzo al nulla, dove potrebbe succedere di tutto. Il silenzio tra gli alberi di ginepro e di cedro, interrotto solo dal fischio del vento che ci ricorda della minaccia incombente dei tornado, è esattamente lo stesso di quando ero qui l’ultima volta. Ogni sera, piano piano, l’Oklahoma si schiude, i ricordi che sembrano sciogliersi. Da adulta le cose sono diverse: ci sono metanfetamine, spogliarelliste, nonni travolti da tornadi, padri in galera, bambini strabici e pistole. Ma ci sono anche biondi di un metro e novantacinque che scendono di macchina per aprirmi lo sportello e farmi scendere, e una roba del genere mi fa sopportare persino i Kings of Leon. 

Quando scendiamo, siamo in una radura. Eric afferra un piccolo oggetto che somiglia a un megafono e si posa un dito sulle labbra per dirmi di fare piano, poi ci sediamo uno accanto all’altra nel letto del pick-up. Mi stringe la mano e aziona il megafono che amplifica un suono registrato: un cane che abbaia e poi ulula — un urlo acuto, disperato, forse una richiesta d’aiuto. 

Mi volto verso Eric e il suo sorriso sbilenco. «Volevo portarti i coyote», sussurra. «Ora dobbiamo solo aspettare».

Così aspettiamo. Rimaniamo così, racchiusi nel buio, in un silenzio tondo e plastico dopo le ore passate a farci assordare al The Rattery. Intorno a noi c’è solo il vento, ogni tanto la chiamata artificiale dei coyote dal suo microfono. 

A un certo punto vedo i primi occhi gialli. Sono piccoli e brillano nell’oscurità per un attimo, come due lucciole. Li vede anche Eric. Aziona di nuovo la chiamata, ma l’animale se ne va subito, come se avesse capito che lo stiamo ingannando. Non ne vale la pena. 

«I nativi americani chiamano i coyote “i cani delle canzoni”, perché ululano più dei lupi e delle volpi. Sembra che cantino», mi spiega Eric. «Di solito non si fanno fregare dai richiami artificiali. Hanno orecchio. Li sanno riconoscere».

Un altro paio di occhi gialli compare nel buio, in lontananza. Si muovono lentamente, come se il coyote esitasse, un passo alla volta, alla ricerca del nostro richiamo. 

«Se vuoi ci avviciniamo», fa Eric, piano. 

Penso al coyote spelacchiato che si era avvicinato a me quando ero bambina, il modo in cui mi aveva guardato come se volesse dirmi qualcosa. Ero così stupida e confusa da aver davvero pensato che fosse mia sorella. Me ne ero convinta anche nei giorni successivi, quando i preti e gli psicologi volevano farmi pregare o parlare mentre io volevo solo riuscire a esistere senza di lei. Avevo pensato che volesse dirmi: guardati, lì a lamentarti di non riuscire a superare la mia morte, mentre io sono qui fuori al freddo a cercare semplicemente di mangiare. Ogni notte. Ogni giorno. Alla ricerca di quel poco di carne cruda che mi consenta di sopravvivere. Tesa nel pericolo costante di essere catturata da un cacciatore o finire sotto una macchina. Ma tu lamentati. 

Gli occhi gialli si spengono e riaccendono a seconda del modo in cui l’animale muove la testa e il riflesso della luna li colpisce. Ogni volta in cui scompaiono, mi auguro sempre che tornino. Eric scivola contro di me, il suo corpo grosso e caldo che si avvolge attorno al mio come quello di una conchiglia intorno a un paguro nudo. 

Forse siamo pari, adesso, penso. Mia sorella è venuta da me quella notte, e ora io sono tornata da lei. E sì, lo so che in Oklahoma mia sorella manco c’è mai stata davvero, che è stato tutto nella mia testa di dodicenne confusa, che agli animali non importa un fico secco dei nostri stupidi tormenti da umani e che se mi sono svegliata una notte in cui c’era un coyote in mezzo al campo è stata solo una coincidenza, così come è stata una coincidenza finire di nuovo qui in Oklahoma. Devo ricordarmi che è successo sempre tutto per motivi molto terra terra:

1. Mia sorella si è ammalata perché così è la vita. 

2. Quella sera il coyote aveva fame e io ero una ragazzina sola. 

3. Mi sono scopata la moglie del capo e lui aveva un amico che aveva bisogno di me proprio qui. 

Mi ripeto: mia sorella in Oklahoma non c’è mai stata, eppure la sento vicina adesso come l’ho sentita quella notte al ritiro. June, penso. Mia sorella June. 

«June», dico, piano, pronunciando il suo nome ad alta voce per la prima volta da quando è morta mentre fisso gli occhi gialli del coyote che si guarda intorno per cercarci. June. Mia sorella June. «June June June».

«Mm?», fa Eric. 

«Mia sorella», sussurro. «Si chiamava June».

Lui non ribatte. Mi mette il braccio intorno alle spalle. «Vuoi vederlo più da vicino?».

Forse Eric ha ragione e dovremmo avvicinarci. Lasciare che mi trovi, che mi veda con Eric, perché sappia che non sono più sola. Ma so anche che questo è solo un coyote alla ricerca di un richiamo che non verrà più.

«No», rispondo. «Non voglio spaventarlo».

Eric rimane zitto, e dopo un po’ il coyote sembra arrendersi. Trotterella verso il limite del bosco, oltre la radura, ma prima di scomparire del tutto si ferma e un ululato irrompe nel silenzio. Il cane delle canzoni compone un ultimo pezzo per salutarmi. 

La sera dopo aver visto i coyote metto insieme una playlist, la prima dopo post-sesso-col-proprietario-del-locale-dove-lavoro. Scelgo canzoni che ho sentito negli anni e che ogni volta passavo perché erano troppo luride di parole d’amore: Stuck on The Puzzle di Alex Turner, Tender dei Blur, On Melancholy Hill dei Gorillaz, e ovviamente una manciata di ballate smielate degli Arctic Monkeys. Ci ficco qualcosa dei The Kinks perché non voglio fare lo stereotipo della millennial indie rock, e perché a tutti piacciono i loro pezzi assolati da ballare senza pensare ad altro che a quanto profumi la pelle della persona di cui siamo innamorati.  

            Scelgo una ballatona romantica di Noel Gallagher con gli High-flying Birds, poi qualche pezzo più sexy dei Queens of the Stone Age, Mini Mansions, The Kills, e tutte queste canzoni mi fanno pensare che la prossima volta in cui vedo Eric lo voglio finalmente spogliare. 

            Lo so che è il mio capo. Lo so che non dovrei, che l’ultima volta sono finita nei guai. Questa, però, magari non è stata una coincidenza. Forse con Eric andrà meglio, e la mia playlist non sarà un modo per scavare alla ricerca di una me stessa nascosta, ma un modo per condividere tutta quella robaccia nascosta con qualcuno. 

Mentre seleziono le canzoni, il cielo dalla finestra del mio appartamento si tinge di un tenue colore viola; le nuvole si abbassano e si avvolgono intorno agli edifici di mattoncini rossi come sciarpe. Mi alzo per farmi un caffè, fumo una sigaretta alla finestra e guardo fuori, dove ’aria sembra quasi addensarsi. Quando il cielo ti sembra verde, mi ha detto Eric, confermando quello che mi ha raccontato la barista del The Rattery durante la mia prima sera in Oklahoma, vuol dire che c’è un tornado in arrivo. 

In America c’è qualcosa di pericoloso: le pistole appese alle cinture, i coyote nel buio, il cielo che si fa verde e la pressione dell’aria che cambia. Ma per ora l’alba è ancora viola, e non ho più voglia di avere paura.

 Continuo ad aggiungere canzoni alla nuova playlist finché non è mattina, e quando ho le pupille secche e i muscoli del viso troppo stanchi per leggere il titolo di un’altra canzone, mi domando come chiamarla. Niente di complicato, niente di lungo per spiegare una situazione difficile. Scrivo: Eric. Non mi vergogno né provo a soffocare nulla, nasconderlo o fingere che queste canzoni non mi piacciano. Ci ficco Do You Realize?? dei Flaming Lips, e mi chiedo persino se metterci un pezzo dei Kings of Leon. Ma decido che sono andata abbastanza contro la mia natura mettendo insieme un’accozzaglia di canzoni d’amore.  

Quando finisco mi domando se mandarla a Eric, condividerla con lui da lontano perché così non devo vedere il suo viso sciogliersi in una reazione. Decido di aspettare, come con la notizia dei Kings of Leon; scegliere il momento giusto in cui sono sicura di non deludere né lui né me stessa. E non appena scattano le nove, chiamo il numero che mi ha dato Chandra. 

Squilla sette volte, e mi arrendo. Riprovo mezz’ora dopo e poi ancora e ancora, fino a mezzogiorno, quando risponde una voce roca con un accento alla Elvis. 

«Johnnie», dice, senza salutare. Chi cazzo è Johnnie? «Non accetto chiamate prima di mezzogiorno».

«Uh. Okay, grazie per aver risposto alla mia chiamata», esito. 

«Kate?», chiede. Mi domando se sia ancora ubriaco dalla sera prima. «Sei a Londra?».

«Mm. No. Mi chiamo April, sono la nuova manager creativa del The Rattery».

«Okay», dice senza entusiasmo. «Il locale country a Bricktown?».

«Sì. Be’, stiamo… ci stiamo rinnovando. Vogliamo tornare con la grinta rock ‘n’ roll dei primi anni duemila. Abbiamo avuto gli Strokes, gli Eagles of Death Metal, e —».

«Tu non hai avuto proprio nessuno», mi interrompe. «Tyler è a Londra a fare i cazzi suoi. Come minimo sei una barista che ha messo incinta e poi ti ha spedita in Oklahoma per farti stare zitta. Quando suonavano quei gruppi probabilmente eri appena nata. Te lo ricordi l’undici settembre? No, aspetta, rispondo io. No».

Rimango interdetta. Nessuno mi ha mai parlato così a lavoro. «D’accordo», rispondo, cercando di non gridargli di andare a morire ammazzato. So benissimo come gestire i palloni gonfiati. «Le voci più giovani sono quelle di cui posti come il The Rattery hanno bisogno».

Lui rimane in silenzio per un attimo. Poi schiarisco la voce e penso di dargli la botta finale. “Comunque, Chandra mi ha dato il suo numero».

«Chandra?», ripete. 

«Sì», rispondo. «Dello strip club sulla statale di Oklahoma City».

Lui si mette a ridere. «Sì. Ho presente». Poi tira un lungo sospiro. «Vuoi i Kings of Leon, no?».

«Sì, grazie».

«Chandra. Buona quella», dice. «Apprezzo il tentativo. Sul serio. Sembri una che ci tiene. Quanti anni hai, April?».

«Quasi trenta», rispondo. 

 «April di trent’anni. Appena arrivata in Oklahoma?».

«Sì».

«E sei la nuova manager del The Rattery, inglese, vuoi riportare il locale alla gloria rock ‘n’ roll di un tempo e ti sei messa d’accordo con Chandra. Torna tutto?».

«Sì».

Fa un altro sospiro. «Okay».

«Okay, nel senso che mi fa sapere…?».

«No. Okay. Ti mando i Kings of Leon. Due. Nathan e Matthew. Te li mando giù a visitare la nonna in Oklahoma o roba del genere, e vi fanno un concerto acustico segreto per l’apertura. Cosa ne pensi?». 

            Sto per farmela addosso. Mi alzo. «Sta scherzando». Voglio finire la conversazione più in fretta possibile per precipitarmi da Eric ora. Dirgli tutto e saltargli al collo e mettere su la mia playlist e finalmente spogliarlo. 

La telefonata si chiude, Johnnie mi manderà la quota per email, eccetera eccetera. 

Ci siamo, penso. Stasera mi presento al locale con la mia playlist tutta per Eric e gli racconto di Johnnie. Volo nella doccia dove rimuovere ogni pelo in eccesso e strofinare la pelle fino a sentirmi nuova e viva e finalmente pronta. 

Quando Alex mi vede entrare ha metà stuzzicadenti in bocca e mi saluta con un cenno della mano. I ragazzini sono già in pista, tutti in fila a fare il loro stupido ballo su una canzone country uguale a tutte le altre. Fanno rimbalzare i talloni delle scarpe da ginnastica contro il legno della pista, battono le mani in aria e sorridono. E per quanto stucchevole sia lo spettacolo, per una volta non ho nulla da dire. 

La barista con il rossetto color fragola mi sorride mentre mi avvicino al bancone. 

«Il solito?», chiede, allungando la mano verso una lattina di Bud Light.  

«No», rispondo. «Provo volentieri la F5 di qui mi parlavi».

Lei mi sorride e ne apre una. «Sei ufficialmente una vera dura da queste parti», e sorrido

anch’io. 

            Prendo il primo sorso mentre supero il juke box, dove sono raccolti il tipino tenero che suona nei The Chakras con gli altri amici (amanti?) di Chandra. Lei non c’è, ma immagino che non sia lontana. 

Il tipino tenero mi saluta con un sorriso. «Ehi», mi dice, e mi lancia un’occhiata che ho già visto molte volte: in un solo movimento degli occhi mi prende tutta, la minigonna di latex, le calze a rete, gli stivaletti a punta e il top nero con la catena al collo. Semplice ma sexy ma chic. Eric non mi ha mai vista così. 

«Grazie per averci presi», mi grida dietro.  

            Rispondo con un sorriso, ma sono troppo eccitata per fermarmi, così corro in ufficio, certo che corro, perché non dovrei? Perché dovrei ricordarmi proprio adesso 

  1. Della playlist post-sesso-con-il-proprietario-del-locale-dove-lavoro, 
  2. Del modo in cui mi sentivo in chiusura, quando uscivo da sola e camminavo lentamente verso la fermata del bus per andare a dormire nel mio letto singolo, nel mio appartamento con un limone rinsecchito e un pacco di pancake surgelati in frigo, chiusa nelle mie canzoni tristi, How to Disappear Completely dei Radiohead, la prima della playlist
  3. Di quando ero ai margini anche delle uniche relazioni che avevo, col capo e coi miei, 

mentre ora quando entro al The Rattery mi vedono e sorridono e ringraziano e mi passano birre e mi fanno cenni di saluto, ed è a questo che penso mentre sto per aprire la porta dell’ufficio, quella lastra di compensato che separa la me di Nottingham dalla me nuova, la me che continua a sprofondare da quella che sembra provare per una volta una spolverata di felicità.

            Quando apro la porta e lo spettacolo più banale mi si para davanti — Chandra seduta sulla scrivania di Eric a gambe larghe, lui in piedi, le caviglie di lei incrociate intorno alla schiena di lui — non è a questo che penso, al fatto che in questo ufficio ci dovrò lavorare, che non posso scappare di nuovo, che Chandra è di casa più di me; non penso al fatto che Eric mi ha donato una briciola di felicità e poi se l’è ripresa strappandomela dalle mani. 

Penso alla moglie del capo che entra al Cold Blood e mi afferra la bocca e con voce cantilenante mi chiama troia. Penso che non riuscirei neanche se volessi.

Chandra mi vede, sorride. «Oh, baby», fa. «Unisciti. In un mondo ideale ci amiamo tutti». 

E so che una persona normale dovrebbe scappare via sbattendo la porta, invece rimango lì in piedi, coi piedi incollati al pavimento, in attesa forse di una spiegazione che non ho mai ricevuto e non riceverò neanche stavolta; Eric si volta verso di me e quando vedo quello che ha negli occhi — lo stesso senso di colpa, la stessa tristezza, la stessa bocca all’ingiù che aveva il capo dopo i nostri incontri — mi sento come la bambina di dodici anni confusa di fronte al coyote: sono sul ciglio del burrone. 

«April», dice Eric, che tutt’a un tratto è solo un biondo qualunque, biondo come il mio capo, e magro e bello e prevedibile come un membro a caso di quei gruppi indie che ho seguito e ascoltato fino allo sfinimento, dai saccenti egomaniaci come Jacob Reaver detto River dei River Banks a ogni singolo stronzo dei Franz Ferdinand Kasabian Cage the Elephant Arctic Monkeys The Strokes Glass Animals, uno dopo l’altro, fino a quello schifo dei Kings of Leon. 

«Ascolta», prova a dire come per convincermi che non c’è niente di sbagliato in ciò che ho davanti, che semmai sono io a essere rimasta indietro, a non aver capito, a non far parte di questo mondo di metanfetamine, sigarette elettroniche, e relazioni aperte. «Chandra è poliamorosa», mi spiega. «Quello che provo per te non —».

«Io no», lo interrompo, e finalmente trovo il coraggio di voltarmi per andarmene senza aver ricevuto una spiegazione. 

Mi abbandono sul marciapiede fuori dal The Rattery. L’aria è densa, umida, la playlist per Eric ancora aperta sul mio telefono bagnato di sudore. 

            La porta dietro di me cigola e Alex Turner, non Trebek, si siede accanto a me per offrirmi una sigaretta. Non mi dice «te l’avevo detto», e probabilmente non sa neanche quello che è successo, anche se il suo silenzio mi dice che forse lo sa. 

            Sento il fumo di tabacco ruvido scendermi in gola e nei polmoni, e brucia al punto da farmi venire le lacrime agli occhi. 

            «Scusa», gli dico, quando finalmente mi metto a piangere. «Scusa», ripeto, e lo dico altre due, tre volte mentre lui mi ripete che non importa, che non c’è niente di cui scusarsi. 

Ma non è Alex Turner, non Trebek con cui mi sto scusando, e forse nemmeno con me stessa per essermi data finalmente la straziante e miracolosa opportunità di trovarmi qui a piangere sdraiata sul marciapiede, con una playlist di canzoni d’amore e un contratto con la band che odio di più al mondo, così lontana dai miei genitori serrati nel loro dolore e dalla moglie del capo che probabilmente sta facendo esattamente quello che sto facendo io nel chiarore dell’alba di Nottingham invece della sera di Oklahoma City. 

E anche se ora sono qui a piangere come una bambina invece che una trentenne, so che a un certo punto mi alzerò e tornerò a selezionare gruppi, chiamare agenti scontrosi che si chiamano Johnnie, scegliere canzoni e mettere insieme nuove playlist, spostarmi da sola da un paese all’altro e ricordarmi di June, mentre i gruppi continuano a suonare nei locali, i coyote a ululare nei campi, e il vento a soffiare incessante in un cielo nero che comincia ormai a farsi verde finché domani non lo sarà più.