Montag

ARTICOLO n. 87 / 2024

MARVIN: UNA COLLETTIVITÀ IBRIDA

conversazione collettiva

MONTAG: La nostra domanda di rito è sempre questa: vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? Per introdurla vogliamo partire da alcune vostre dichiarazioni. Dal vostro sito: «Crediamo nella creazione di un ambiente collettivo come valore aggiunto all’atto di scrivere». E poi, dall’ultima call, quella in cui avete lanciato l’idea di una residenza per redigere l’ottavo numero della rivista: «Questo esperimento è uno sviluppo ulteriore della nostra originaria idea di rivista come spazio per esplorare la collettività». A queste citazioni vogliamo aggiungerne un’altra, che è un po’ il vostro motto, e vorremmo chiedervi se è in contrasto con le altre o se invece ne è la chiave di lettura: «Siamo una redazione occasionale».

MARVIN (Martina): Non ci definiamo propriamente un collettivo, anche perché siamo nati come rivista e la struttura della redazione descrive abbastanza bene quello che cerchiamo di fare. Ciò che stiamo proponendo negli ultimi anni è piuttosto creare uno spazio in cui dare origine a delle collettività, da una parte promuovendole, avallandole, dall’altra dando spazio a quelle che noi chiamiamo “redazioni occasionali”, ovvero quei momenti in cui, durante la composizione della rivista, selezioniamo autori e autrici e creiamo un gruppo di lavoro, un collettivo.

MARVIN (Beatrice): L’approccio al concetto di collettività si può pensare un po’ come un caleidoscopio, in cui i frammenti di volta in volta si riuniscono in figure e simmetrie per poi scomporsi e crearne di nuove. Non è qualcosa di fisso, ma è molto più fluido. L’idea è di creare di volta in volta dei gruppi di lavoro che partano dai testi, li elaborino, li discutano in un editing reciproco e dinamico, generando così uno scambio e infine approdando a un risultato che è una rivista completamente diversa, o comunque nuova, rispetto a quella che era all’origine della call. E quindi: creare sempre significati nuovi con persone che di volta in volta si incontrano, per poi separarsi, ma senza perdersi, attivando un circuito di interazioni che restano costanti nel tempo. Sta succedendo con molti degli autori con cui abbiamo lavorato.

MARVIN (Flavio): È vero, quasi tutte le persone che sono entrate nell’orbita di Marvin ci sono rimaste, in un modo o nell’altro. Ci sentiamo di aver creato qualcosa di buono quando vediamo che queste connessioni acquistano senso (che potrebbe anche voler dire semplicemente che la gente sta bene per una sera). E in più c’è il discorso sulla scrittura, che di norma è un’attività solitaria, ma che può anche essere altro, una comunità. Si recupera l’idea della scrittura come trasmissione di contenuti, di conoscenze, uno scambio di opinioni.

MONTAG: In effetti questo vostro modo di intendere la collettività ibrida anche i ruoli, perché scrittori e scrittrici diventano editor per racconti altrui e voi stessi cambiate posizione, tra redazione della rivista, autori, editor.

MARVIN (Martina): Un elemento obbligatorio per partecipare alla rivista è accettare implicitamente, mandando i racconti, che se verrai selezionato o selezionata, non sarai soltanto autore, ma anche redattore. È un elemento che noi inizialmente abbiamo inserito perché ci divertiva l’idea che ognuno avesse entrambi i ruoli.

Dopo poco ci siamo resi conto che gli autori apprezzano moltissimo il fatto di essere messi sullo stesso piano. Comunque, avere il proprio racconto letto da altre persone non è facilissimo. Nell’editoria tradizionale o anche nelle riviste ci sono degli editor fissi, e l’editor è la persona che si incarica di scegliere il racconto e lavorarci su. Noi, invece, volevamo scombinare la gerarchia per creare un momento in cui fosse possibile anche abbassare le difese.

MARVIN (Flavio): In ogni edizione ci troviamo in un posto diverso di questo triangolo che avete disegnato. A seconda di come va capiamo quanto dobbiamo o vogliamo intervenire, quanto sia necessario che facciamo qualcosa. Naturalmente dipende anche dall’alchimia che si crea tra autori e autrici. Il nostro supporto c’è sempre, però alcune volte è maggiore, alcune volte minore, a seconda dei casi.

MARVIN (Beatrice): Penso all’occasione che ha fatto conoscere Marvin e Montag, quando ci siamo trovati a pubblicare un racconto nello stesso numero. Ecco, quello per me è l’esempio perfetto: mi trovavo a cavallo tra tutti questi ruoli e mi è servito moltissimo per crescere sul fronte della scrittura, perché mi trovavo in una posizione inedita e allo stesso tempo paritaria. Ricevi un consiglio da una persona che, esattamente come te, sta cercando di sviluppare la propria voce, lo stile, e si sta esercitando a comprendere le dinamiche di una storia. Poi subentrano una serie di scambi con persone con cui continui a sentirti, di cui poi segui la crescita, le pubblicazioni, insomma il percorso. Si creano dei legami perché la posizione in cui ti trovi è quella di una persona che si sta aprendo, il momento di condivisione di una storia scritta da te è un momento in cui ti senti profondamente esposta, ed è proprio da questa consapevolezza che deriva la cura che avrai per gli altri: l’approccio che adotterai potrà senz’altro essere critico, ma mai aggressivo o violento.

MARVIN (Flavio): Il fatto stesso di lavorare da editor sui testi degli altri ti aiuta a prendere coscienza anche del tuo modo di scrivere. Non solo per quanto riguarda quello specifico racconto, ma anche per ciò che scriverai dopo. Ti permette di sviluppare un approccio diverso, anche perché non è detto che chi scrive sia un editor – anzi, nella maggior parte dei casi non è così. Però acquisire delle conoscenze di editing è importante anche per capire cosa vuoi scrivere e, soprattutto, come vuoi scriverlo.

MONTAG: Ci piace questa visione della rivista che diventa quasi un sistema solare, attorno cui orbitano una serie di astri. Magari alcune sono meteore che passano e poi non si incontrano più. Però poi ci stanno anche dei pianeti che rimangono fissi attorno alla rivista. E proprio questa cosa dell’orbitare attorno, dello stare insieme, del fare sistema, del costruirsi insieme, la vorremmo utilizzare da ponte per poi arrivare a parlare di lavoro, che è una cosa bruttissima, però precedendolo con una cosa bella. Grazie a questo vostro modo di fare rivista fate anche amicizia. Questo su un livello di politica dell’agire collettivo è fondamentale come termine da inserire nel discorso letterario e creativo. In che maniera sentite che struttura la vostra visione della rivista nel futuro, nei vostri progetti, nelle cose che vorreste fare.

MARVIN (Martina): Noi ci consideriamo amici a prescindere dalla rivista e penso che probabilmente lo siamo diventati grazie a Marvin. Io, Flavio e Laura siamo stati i primi a iniziare questo progetto, eravamo persone con una certa affinità che però si conoscevano relativamente poco, quindi definirci amici era troppo, ma poi lo siamo diventati.

Poi è entrata Bea e noi avevamo già creato questo ambiente in cui la complicità, l’amicizia o in generale la fiducia nell’opinione dell’altro erano centrali. Ci sono opinioni diverse tra di noi, anche abbastanza polarizzate, ma il fatto che abbiamo totale fiducia gli uni negli altri e diamo estremo valore all’opinione altrui ci permette di far sì che questi conflitti siano in qualche maniera costruttivi, e ne usciamo tutti in un modo o nell’altro cresciuti. 

MARVIN (Beatrice): Parliamo di qualcosa che non ha uno scopo di lucro, non ci porta guadagni che non servano ad alimentare in modo circolare il progetto, qualcosa in cui però investiamo volentieri le nostre energie. Ma non siamo masochisti, sappiamo di farlo perché ci piace riunirci, stare insieme, ci diverte quello che andiamo a creare e questa è la base. L’amicizia. Perché la cosa fondamentale comunque è trovarsi bene con le persone e stare bene nel fare certe cose. Questo determina anche le evoluzioni che la rivista ha subìto. All’inizio si trattava solo di pubblicare racconti, ma c’è stato un periodo in cui è stata anche un blog culturale che in seguito abbiamo messo da parte. Semplicemente ci muoviamo in base a ciò che ci accende e ci appassiona. Quando qualcosa smette di essere stimolante la rivista cambia pelle. Marvin sarà adesso anche un’associazione, e creerà momenti di aggregazione, come letture collettive al parco, presentazioni, partecipazioni ai festival: alla base c’è sempre il fatto che per noi è entusiasmante stare insieme, anche con le persone che hanno orbitato attorno a noi e che continueranno a farlo.

MARVIN (Flavio): Abbiamo delle sensibilità diverse rispetto ai racconti, è vero: c’è chi è più attento allo stile, chi alla costruzione del racconto, chi ai personaggi, e questo ci permette di essere completi, insieme. Sul discorso dell’amicizia, va detto che ci sono stati momenti di stanchezza della rivista, in cui ci siamo domandati: se Marvin cambiasse forma o addirittura chiudesse noi resteremmo comunque amici? La risposta è stata sempre sì.

MARVIN (Martina): Sarebbe bruttissimo altrimenti, orribile, orribile. Ai miei compleanni ci sarebbero pochissime persone.

MONTAG: Ve l’abbiamo chiesto proprio perché anche noi è su questo principio che abbiamo creato il collettivo e abbiamo parlato molto di quale spazio ci sia per questo tema nel mondo letterario, editoriale, nelle riviste, nelle agenzie.

MARVIN (Martina): Come dicevamo, Marvin ti mette spesso in una condizione di esposizione personale molto profonda, quindi forse è anche naturale che i rapporti non riescano a rimanere superficiali. Questo discorso vale anche, e forse in maniera particolare, nel caso della residenza che abbiamo tenuto per l’ultimo numero che verrà pubblicato a settembre. Ovviamente non so se gli autori siano diventati amici fra loro, però sono abbastanza sicura che un legame si sia creato. 

MONTAG: Oltrepassiamo il ponte dell’amicizia e parliamo invece di lavoro. Come si pone Marvin rispetto al contesto delle riviste italiano in questo momento e cosa può dare al mondo editoriale? Sia nel micro, per esempio nel fare alleanza, conoscere altre persone che fanno riviste, nell’ambiente romano o in generale in quello italiano, ma anche nel macro, per esempio rispetto a contesti e realtà molto più grandi della vostra. Insomma, come vedete il mondo delle riviste oggi?

MARVIN (Flavio): Rispetto alla scena romana delle riviste, che è quella che viviamo di più, percepiamo una fase di disillusione. Quel movimento che si era creato qualche anno fa si è un po’ disgregato per una serie di motivi e perché comunque le riviste, nel momento in cui non mutano forma, chiudono. A complicare la situazione c’è un ambiente editoriale che, quando vuole, sa essere un posto molto cinico, in cui snobbare libri e scrittura fa più fico che parlarne, una tendenza che non crea l’ambiente giusto per la nascita di nuove idee. Direi quindi che Marvin è stato, prima di tutto, un modo sano di vivere l’editoria e in secondo luogo, naturalmente, un mezzo per conoscerla meglio. Con il tempo abbiamo capito anche quale fosse il nostro posto all’interno di questo mondo, realizzando per esempio che l’essenza di Marvin erano i racconti.

MARVIN (Martina): Penso che Marvin segua traiettorie diverse rispetto a quelle di riviste dalle spalle più grandi. Oltre ad avere un sistema di supporto economico imparagonabile al nostro, abbiamo altri obiettivi e rispondiamo ad altre necessità, che non sono obbligatoriamente in contrasto ma solo diverse. Quando abbiamo deciso di abbandonare il blog culturale perché non ci divertiva più e ci siamo concentrati sulla realizzazione di una residenza, su cui fantasticavamo già dal 2020, ci siamo in qualche modo riappropriati di un percorso. Siamo nati in un periodo di fervore meraviglioso: nel pieno della pandemia tutto quello che era online aveva un vigore molto diverso. E appena usciti dalla pandemia, c’è stato il momento in cui tutti volevano stare insieme. Noi abbiamo vissuto quella wave, ce la siamo presa tutta. Adesso ci rendiamo conto che quel tipo di entusiasmo sta svanendo, come è fisiologico per questo tipo di realtà.

MONTAG: Infatti il discorso è proprio ragionare su quale rapporto può esserci in un sistema dove sembra ci siano solo gli estremi, o la piccola realtà o la grandissima realtà con fondi importanti alle spalle.

MARVIN (Martina): Penso che a volte anelare a diventare la grande realtà sia anche uno dei motivi per cui certi spazi chiudono, perché non si riesce a essere né carne né pesce. Credo che noi lo abbiamo evitato nel momento in cui ci siamo guardati in faccia e ci siamo chiesti: ma quello che stiamo facendo ci sta piacendo davvero? O lo stiamo facendo perché vogliamo diventare qualcos’altro?

MARVIN (Flavio): Aggiungo un punto: le riviste indipendenti hanno una libertà che altre realtà più grandi non si possono permettere di avere, nella selezione dei contenuti e soprattutto nei racconti. Il fatto che noi possiamo pubblicare qualsiasi autore o autrice, basta che ci piaccia, è una forma di indipendenza molto grossa che non vogliamo perdere. Diventando più grandi si entra inevitabilmente all’interno di altre dinamiche.

MONTAG: Tutti quanti avete menzionato varie volte la scelta di aver abbandonato la parte del blog. Vorremmo chiedervi come si vive all’interno di una rivista l’idea di cambiare o anche rinunciare a una strada. Per esempio, Marvin nasce dall’idea di scrivere racconti a partire da tre elementi diversi per ciascun numero e quell’idea è rimasta fino a oggi.

MARVIN (Martina): È una domanda che ci poniamo spesso, perché l’espediente dei tre elementi (un personaggio, un luogo, una frase) è uno stimolo ma anche un limite. E la risposta che ci siamo dati è che crediamo veramente che questi limiti possano essere utili dal punto di vista creativo, un confine dentro il quale giocare. Ed è bello rendersi conto che all’interno del numero, tra i vari racconti, c’è una coerenza.

MARVIN (Beatrice): La chiave delle metamorfosi di Marvin dipende proprio dal “finché ci diverte va bene”. Finché questa cosa continua a farci dire ok, ci piace farlo, ok, così funziona, noi proseguiamo. Ma diamo molto ascolto anche ai feedback, proprio per la questione della collettività, del fatto che ci teniamo a creare una comunità reale, e, se ci rendiamo conto che questa scelta inizia a perdere di efficacia, allora possiamo ripensarci. L’unica cosa irrinunciabile è questa: lo scambio costante di persone intorno all’atto dello scrivere. La questione dei tre elementi (finora) ha sempre funzionato, sia sul fronte della creatività sia nel favorire una coerenza maggiore (all’interno del numero e della redazione), perché ciascuno si confronta sul modo in cui ha scelto di usare la parola: ci sono nomi che a volte vengono interpretati come verbi (penso al personaggio “modella” del numero in cui eravamo insieme, qualcuno l’ha usato come professione, qualcuno come azione), luoghi che diventano totalmente metaforici e così via. E la cosa più interessante è scoprire quali meccanismi sono scattati nella testa degli altri, i modi diversi in cui gli elementi sono risuonati e si sono combinati in ciascuno.

MONTAG: Invece, qual è il vostro rapporto con gli altri media? A parte il fatto che siete nati online e che siete attivi sui social, avete creato rubriche come “Marvin guarda” sui film, ma soprattutto a ogni numero associate una playlist e ogni racconto all’interno del numero fa da spunto per delle illustrazioni di artisti visivi.

MARVIN (Martina): Quello che vorremmo fare in futuro è spostarci sempre più dall’online e dai social per incontrarci di persona. Sappiamo che è un obiettivo molto ambizioso e non vogliamo neanche risultare escludenti, perché noi viviamo a Roma, quindi in un grande centro pieno di risorse. Ma sappiamo benissimo cosa significa vivere in centri minori dove l’offerta culturale è meno variegata. Quindi ovviamente non abbandoneremo gli incontri online, ma se potessimo offrire a tutti un biglietto per conoscerci dal vivo lo faremmo.

MARVIN (Beatrice): Per quanto riguarda gli altri media, penso che li abbiamo incontrati in maniera tangente, all’epoca del blog, trattavamo in maniera più estesa anche il cinema o organizzavamo cineforum e dibattiti. La parte musicale è invece stabile, perché la playlist (di Johannesburg) è sempre presente nella rivista, anche in quella cartacea. Marvin è un prodotto che vuole essere ibrido, ibrido anche nel prendere persone diverse e metterle in contatto. E queste persone spesso provengono da media diversi: nel prossimo numero uno degli autori è in primo luogo sceneggiatore. Questa è una cosa bellissima. In questo modo possiamo intercettare sia chi ha pubblicato con moltissime riviste, e che quindi è parte integrante della bolla, sia chi ha pubblicato un racconto per la prima volta. Per questo motivo, nell’ultima call, abbiamo voluto tutti i racconti in anonimo, proprio perché non volevamo farci influenzare dal nome. Inoltre Marvin è una rivista illustrata: dalla copertina ai singoli racconti, ogni parte è corredata da immagini che sono frutto dell’ingegno di illustratrici e illustratori selezionati e invitati a collaborare per potenziale affinità con la storia.

MARVIN (Flavio): Potremmo metterla così: la nostra visione dei media è orizzontale e non gerarchica, nel senso che abbiamo sempre messo letteratura, cinema, musica sullo stesso piano.

MONTAG: In chiusura, cosa bolle in pentola? Cosa c’è all’orizzonte per Marvin?

MARVIN (Beatrice): Innanzitutto il nuovo numero, sempre frutto della collaborazione con Bahut, lo studio grafico che ci segue da già due edizioni e che ha dato a Marvin la forma che vedete oggi. E in generale, partecipazioni a eventi dove sentiamo che la sensibilità è simile alla nostra.

MARVIN (Martina): In qualche modo, portare le “redazioni occasionali” all’interno di nuovi ambienti accoglienti. Aggiungerei che siamo diventati un’associazione, che ci siamo resi conto essere la forma che definisce meglio il percorso di cui parlavamo. E sicuramente replicare la residenza di scrittura, che abbiamo inaugurato quest’anno e ci ha dato nuova linfa vitale.   

MONTAG: In realtà vogliamo farvi un’ultimissima domanda: ci suggerite tre o quattro libri che ci vorreste consigliare in quanto Marvin?

MARVIN (redazione): Be’, potremmo dirvi Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, perché la nostra rivista prende il nome proprio da lì, dal robot depresso Marvin. Poi Gli interessi in comune di Vanni Santoni, perché racconta di gruppi di persone che condividono delle passioni, e perché è uno dei primi libri che abbiamo portato al nostro club di lettura. Ma anche Il cornetto acustico di Leonora Carrington; c’è forse bisogno di spiegare il perché? E infine, naturalmente, il romanzo d’esordio dei Montag.

ARTICOLO n. 25 / 2024

ALMARE: INDIVIDUALITÀ E PROGETTUALITÀ CONDIVISA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, stiamo curando Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo secondo appuntamento abbiamo intervistato ALMARE, un collettivo artistico-curatoriale fondato a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabbi Cattani. ALMARE indaga le pratiche artistiche incentrate sull’uso del suono come mezzo espressivo, ma in molti dei loro progetti si riconoscono più anime, vedendo come la scrittura narrativa o l’audiovisivo, per esempio, possono convivere nello stesso spazio performativo, espositivo o testuale con la dimensione sonora.

MONTAG: Sul vostro sito vi descrivete come “collettivo artistico-curatoriale”, ma che cosa significa per voi essere un collettivo? Cosa vuol dire collaborare, lavorare insieme? E un’altra curiosità: che significa per voi essere un collettivo che collabora con altri collettivi? Come fate rete? Pensiamo soprattutto alla recente collaborazione The listeners.

ALMARE (Amos): Vorremmo prima fare una premessa: siamo in un periodo complesso e articolato per il collettivo stesso, motivo per il quale abbiamo deciso di fare questo incontro. Ci piaceva l’idea di dare delle risposte in un momento difficile in cui stiamo passando una crisi – ma sì, chiamiamola crisi. Per quanto mi riguarda, il nostro collettivo sta proprio in quell’equilibrio tra individualità e progettualità condivisa.

Noi siamo quattro persone che dal punto di vista delle attitudini e delle esperienze hanno un filo conduttore, che è il percorso artistico. Non necessariamente nel fare arte in quanto artisti, ma come percorso di studio, di interessi; un percorso di vita, in cui la musica, l’arte in generale, il mondo della cultura sono centrali. Detto questo, abbiamo provenienze diverse anche da un punto di vista di classe, percorsi di vita che hanno direzioni e necessità diverse. E abbiamo sempre cercato, nella nostra impostazione, di far sì che ognuno di noi potesse essere rispettato nella sua individualità e nella sua necessità di portare avanti un percorso personale. Proprio perché ci siamo uniti in una fase che era di “fine scuola” – almeno io, Gabriele, Luca – e, come tante altre relazioni che nascono in periodi di transizione, poi si deve crescere insieme. C’è quasi un movimento ondulatorio, in cui ci si adatta alle necessità degli altri, ci si fa anche trascinare dagli altri, in modo positivo. Poi per ognuno diventa più chiaro in che cosa si sente a proprio agio e che cosa vuole fare. Per noi questo è il momento: abbiamo iniziato a capire tutti più chiaramente che cosa vogliamo, in cosa vogliamo andare avanti nelle nostre vite. E bisogna riuscire a capire quanto questa cosa si può fare insieme e secondo quali modalità.

Questa credo sia l’introduzione, ma forse anche già una parte del discorso. Poi nella pratica facciamo cose diverse. Gabriele, per esempio, ha un percorso più da artista e teorico. Giulia un percorso più curatoriale, anche lei teorico, però con un’attitudine diversa alla scrittura. Io un percorso da musicista e sound designer, come Luca, che è anche informatico. Questo ha fatto sì che le cose si unissero molto bene, ognuno ha potuto portare la sua specificità. Forse il film a cui stiamo lavorando ne è l’esempio maggiore. Detto questo, ci sono altri aspetti, che sono appunto le necessità della vita, del dove si vuole vivere, se nella stessa città o in città diverse, come organizzarsi il tempo, come comunicare. 

MONTAG: Vi siete conosciute a Torino. Si pone la questione della topografia del collettivo. Vi capiamo, lo stiamo vivendo un po’ anche noi.

ALMARE (Giulia): La nostra idea di collettivo si sta schiantando contro la vita reale, quando si incrociano delle necessità che impongono di rispettare l’individualità, comunque rimanendo nella volontà di lavorare insieme. Non so poi fino a che punto si possa dare una definizione univoca di collettivo. Nel caso di ALMARE l’idea di partenza era: che cosa vogliamo fare? A quali mancanze vogliamo provare a rispondere? A quali frustrazioni? Insomma, ci siamo chieste come costruire uno spazio di azione che da sole forse non avremmo saputo creare.

Un’azione trasformativa del proprio contesto, anche mediante iniziative che possono prendere varie forme, da un film che diviene audio-racconto all’organizzazione di concerti, alla scrittura, oppure, non so, passare la notte a parlare di cose. Eravamo quattro amici al bar, scusate la banalità, ma vi vedo sorridere, quindi magari sono esperienze comuni. L’essere collettivo ha a che fare con una agency condivisa. I collettivi, sia artistici che politici, alla fine sono persone che si uniscono per fare qualcosa. Se non c’è questa spinta bastano, credo, altri tipi di relazioni, amicali, ma se c’è un intento di unirsi in un organismo che supera le individualità forse è perché si sente la volontà di essere più efficaci nell’operare nel proprio contesto. Spero non sia troppo astratto come ragionamento.

MONTAG: Non sembra per niente astratto, anzi: l’agency condivisa, creare uno spazio d’azione comune, è un fare molto politico, ed effettivamente, addentrandosi nei vostri lavori, si legge di guerriglia sonora o di arma sonora. Come vi ponete rispetto a questo discorso, a questa vocazione politica, a questa voglia di cambiare le cose, sia in riferimento al vostro ultimo lavoro, Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U., sia rispetto ad altri lavori passati nei quali vi siete interfacciati con figure politiche, di lotta, come Porpora Marcasciano? 

ALMARE (Gabriele): Non so se esista un politico fuori da una visione, che poi è anche ideologica. E non c’è bisogno di aver paura di questo. Noi siamo quattro, e in questo corpo tetracefalo abbiamo visioni che guardano in una stessa direzione, forse politica, ma che si sono espresse anche in modi diversi e in attività diverse. Penso che Giulia e Amos abbiano una pratica più spiccata di attivismo, o di studio relativo a certe tematiche. Poi, una parte di questo studio e di questa pratica è entrata all’interno del collettivo, così come in Dorothea, ma come dicevate anche il nostro incontro con Porpora ha contato. In quel caso eravamo state invitate per lavorare su come il suono, e specialmente il suono registrato, occupa uno spazio, in senso molto pratico, architettonico. E dunque qual è la differenza tra uno spazio privato e uno spazio pubblico, che è anche performativo? E come scelgo di diffondere un suono che altrimenti rimarrebbe inciso? Quando abbiamo cominciato a organizzare delle sessioni d’ascolto o a ragionare su certe tematiche, è allora che queste sono emerse come urgenti: oggi il suono è rientrato nel dibattito sulla politicizzazione della memoria e su come conserviamo certi suoni, come vi abbiamo accesso. Penso che queste tematiche, poi, ci abbiano spinto a occupare in modo più trasversale diverse posture, con la volontà di porsi domande su questioni difficilmente riassumibili, che necessariamente aprono a una sorta di mimesi che spinge a chiedersi: “E io come lo farei? Come reagirei a questo stimolo?”

ALMARE (Giulia): Da questo punto di vista faccio una precisazione: fatico a arrogarmi il diritto di definirmi attivista perché per esserlo ci vuole una costanza, una coerenza e una capacità di impegnarsi rispetto ad alcune questioni che purtroppo, forse per uno spirito di autoconservazione o mantenimento di privilegi, sento di non avere appieno. Però è indubbio che c’è una sensibilità che va in quella direzione, un approccio politico. ALMARE ha sempre cercato con le proprie pratiche di creare operazioni culturali che potessero funzionare come piattaforma di supporto e diffusione di contenuti politici, che poi abbiamo condiviso con persone che invece possono a buon diritto dirsi attiviste. Penso a Justin Randolph Thompson, che abbiamo portato in una performance al compianto Macao e al festival Saturnalia nel 2018, poi sicuramente a Porpora Marcasciano, chi più di lei? Insomma, non voglio dire che un approccio politico sia il motore primigenio delle nostre collaborazioni, però c’è un’attenzione verso questo aspetto. Penso che chi fa attivismo abbia bisogno di piattaforme, di risorse. E nel suo piccolo ALMARE prova a contribuire. Questa è un’intenzionalità politica che ha un piccolo effetto sul piano del reale.

Poi c’è un lavoro di analisi e diffusione di contenuti che non è mai didascalico, perché non lo è il nostro linguaggio, che a tratti è anche abbastanza complesso e lì cerchiamo di fare il nostro per diffondere contenuti che sono esplicitamente politici. Si faceva riferimento ad esempio alla questione delle armi sonore, che è da intendersi come l’ha intesa Steve Goodman in Sonic Warfare. Nel contesto dell’audio-racconto l’abbiamo veicolata attraverso una storia fantascientifica che fa esplodere in maniera fantasiosa l’argomento, però per noi sono tutti strumenti di riflessione sulla realtà che viviamo tutti i giorni, e speriamo anche che lo siano per chi si imbatte nel nostro lavoro. Mettiamola così.

MONTAG: Partendo da Cronache di vita di Dorothea, volevamo farvi una domanda sul fronte artistico. Ci ha interessato molto come progetto perché è una creatura ibrida sotto moltissimi punti di vista: unisce sonoro, testuale, narrativo. Ma è anche ibrida dal punto di vista del genere narrativo, perché c’è da un lato il framework fantascientifico, ma dall’altro c’è anche quell’effetto quasi horror generato dal sentire la voce, il suono perduto di qualcosa quasi inarrivabile. Ne avete parlato anche in un post su Instagram, della possibilità di recuperare la voce di Gesù, che però chiaramente avrebbe un effetto orrorifico, perché parlerebbe in una lingua che a noi è completamente aliena, con inflessioni a noi sconosciute. Ci interessa questo vostro lavorare in maniera ibrida sia sul piano dei media che su quello dei generi. Per voi è una cosa naturale, lo decidete insieme…?

ALMARE (Giulia): Terrificante, ma anche comico. Sempre a cavallo.

ALMARE (Amos): I formati ibridi credo siano una delle scelte che più ci caratterizzano e interessano fin dall’inizio. Ci abbiamo sempre fatto attenzione, perché non volevamo bloccarci all’interno di una modalità di fare, di un formato o di un linguaggio. Di per sé questo audio-racconto si forma pian piano da un punto di vista formale, ma nasce prima di tutto come un racconto inteso proprio come una fiaba letta ad alta voce. Lo volevamo fare con uno stile che fosse vicino alla fantascienza dal punto di vista della scrittura, perché lì ci portava il tema dell’archeoacustica, che di per sé è fantascienza, ma nel senso che è una scienza che ancora non ha trovato delle risposte ai propri esperimenti, quindi è fantastica ed è qualcosa che ti devi per forza immaginare. Poi da un punto di vista formale, invece, all’inizio era semplicemente un audio-racconto senza sottotitoli. I sottotitoli sono nati come elemento funzionale e poi sono diventati centrali e necessari per portare fuori la voce e dargli una forma attraverso le lettere e le parole. Da lì ci sono voluti anni prima di arrivare a pensare che potesse essere considerato un film. Abbiamo avuto la fortuna che ci invitassero a fare la presentazione e ci dicessero “guardate abbiamo un cinema, vi va di farlo in un cinema?” E noi, “Ok, proviamoci”. Quell’esperienza lì, al cinema, è stata illuminante, perché abbiamo capito che effettivamente era un film. Lì prendeva forma nella postura che richiede il cinema, nello stare seduti, nell’ascoltare dall’inizio alla fine, nell’avere un grande schermo che ti attrae gli occhi e allo stesso tempo non c’è quasi nulla da vedere. Dall’altra hai anche la possibilità di avere un impianto audio che ti concede di spaziare, di lavorare sulla dimensione drammaturgica del suono. 

ALMARE (Giulia): Era il cinema Eliseo di Cesena, nel contesto della programmazione curata da MU, un’organizzazione composta da Enrico Malatesta, Glauco Salvo, Giovanni Lami. Tutte quelle ricerche che avevamo svolto in altri progetti, sia curatoriali che organizzativi, ci avevano portato a indagare certe tematiche che sono intrinsecamente legate agli albori di una tecnologia, di un modo di intendere la tecnologia, e che ci riguardano perché siamo ancora all’interno della modernità per quanto uno si sforzi a dirsi postumano. Nello specifico, Cronache di vita di Dorotea nasce da una ricerca legata alla registrazione, con la quale eravamo ossessionate nel 2019, e su cosa significa ascoltare e riascoltare, e se è possibile davvero ascoltare suoni registrati da noi stessi senza calcolare un interlocutore diretto: un’impressione sonora che non è finalizzata a una comunicazione intenzionale. Ci siamo accorte che le questioni che stavamo studiando andavano a smuovere tutta una serie di ambiti di cui noi non potevamo assolutamente occuparci. Allora abbiamo deciso di invitare autori, autrici, artiste, ricercatori, ricercatrici, che pensavamo potessero avere qualcosa da dire rispetto a questa domanda: che cosa significa autoregistrarsi? Il risultato è stata un’installazione sonora che abbiamo chiamato “Miscellanea” in riferimento a un format seicentesco, barocco, perché chiamarla archivio, database, non era abbastanza. La traccia dura 17 ore e raccoglie una serie di spunti sull’archeoacustica, una disciplina che indaga le proprietà acustiche dei siti archeologici per capire come sentiva la gente all’epoca dentro quei luoghi, come voleva far riverberare la voce.

Si tratta anche di un fantasioso sottobosco di teorie cospirazioniste e leggende metropolitane, legate a un’idea nata tra fine Ottocento e inizio Novecento: le persone attraverso queste tecnologie scoprivano che le onde sonore si imprimono nella materia e che poi, con degli strumenti appositi, è possibile riprodurre l’incisione discografica. Qualcuno si chiese: sarà successa la stessa cosa in tempi antichi? La voce di Aristotele sarà rimasta incisa su un vaso che qualcuno stava modellando in quel momento? Un’idea molto stimolante dalla quale è nato il what if del nostro racconto fantascientifico. Immaginate cosa succederebbe se questa ipotesi diventasse praticabile.

Qui la fiction arriva un po’ come reazione ai limiti della ricerca speculativa. Anche questo nasce da un’esperienza di ricerca condivisa e forse non ci saremmo mai arrivate se non avessimo fatto ricorso a ispirazioni portate dal coinvolgimento di altre persone. Abbiamo avuto la fortuna di poter approfittare in maniera quasi parassitaria di soluzioni che vengono dall’incontro con un’etichetta internazionale con cui abbiamo organizzato alcuni concerti a Torino. L’etichetta aveva poi coinvolto un’associazione torinese, Archivio Tipografico, che si occupa della conservazione della nobile arte della stampa a caratteri mobili. Il fatto che loro lavorassero alla riemersione di strumenti per la stampa risuonava con quella del suono, inciso e scavato come caratteri mobili, di cui parla il racconto. Il lavoro è, alla fine, un film, un piano sequenza che però è anche un’operazione di graphic design, ottenuta tramite processi analogici. L’effetto finale è quello di immagini che sembrano uscire dallo schermo, senza una funzionalità in sé, ma rinforzando ciò su cui volevamo lavorare, questa idea dello scavo archeologico, dell’emersione di strati diversi che poi si sintetizzano. L’interfaccia visiva ha assunto quasi magicamente un ruolo sintetico, una ragione quasi autonoma. E, anche qui, non avremmo potuto farlo senza entrare in relazione osmotica con il lavoro di altri collettivi.

MONTAG: Volevamo proprio andare a scavare su quanto fosse importante per voi il rapporto tra sonoro e visivo. Poi con il discorso sul collaborare e intrecciarsi con altre realtà ci avete fatto pensare a Kathy Acker, che seguiva un’etica molto punk, appropriazionista, e le sue opere cercavano di mostrare come tutto viva di una intertestualità e sia, in fondo, una sintesi di appropriazioni. Ci sembra che anche il modo in cui decidete di lavorare mostri il bello di una sintesi simile, fatta di tutti gli scambi e le collaborazioni che avete attraversato, sia tra di voi che con altre realtà. Tutto ciò, in un certo senso, rimane. Ecco, lo sottolineiamo perché sulle cose di cui abbiamo parlato aleggia una certa ossessione per l’inciso, la memorizzazione, qualcosa che viene salvato. Noi, nella nostra esperienza con la scrittura performativa, ci siamo confrontati con il dilemma inverso: situazioni di creazione collettiva in cui, alla fine, se l’opera finale scompare, che problema c’è? Cosa cambia, insomma, se dell’esperienza sonora o narrativa non resta assolutamente niente, se viene vissuta interamente sul momento. Finora abbiamo parlato di memoria sonora ma, al contrario, come vi ponete rispetto alla scomparsa sonora? Nella vostra estetica o etica si è mai posta una questione simile?

ALMARE (Gabriele): L’audio-racconto traccia esattamente questa traiettoria di cui parlate. Da una parte, l’ossessione di salvaguardare, o forse una pretesa di salvaguardare, tutto, di un’archiviazione quasi totale. Proprio l’altro giorno mi trovavo a discutere del rapporto con la tradizione e del fatto che la tradizione sia sempre, in fondo, una reazione emotiva alla perdita. E non esiste tradizione senza perdita. Sono la stessa cosa: ogni volta che ci interfacciamo con una ricorrenza, ci interfacciamo con una perdita. D’altro canto, e questa è la fine del racconto, le cose devono essere lasciate andare, in modo che possano essere vissute e basta. La memoria non è archivio. Bisogna fare i conti con l’ineluttabile e anche, direi, con una certa gioia nell’accettare che le cose prendano la loro naturale vita e che, quindi, si perdano. Forse potremmo definire la tecnologia nei termini di una hauntologia, una creazione di fantasmi: se si vuole tenere tutto, si vivrà in un mondo di fantasmi. E questo per noi era un punto centrale verso il quale volevamo andare con il racconto.

ALMARE (Amos): Aggiungo una cosa, un po’ per chiudere il cerchio rispetto all’introduzione. Per far sì che i nostri personaggi lasciassero andare, in un certo modo, abbiamo dovuto lasciare andare noi prima di tutto. Per questo parlavamo di un’esperienza “sofferta”, nel senso che la cosa andava a toccare un elemento intimo, anche rispetto a un momento in cui il nostro collettivo ha incontrato quel sottile confine tra le necessità comuni e le necessità di ciascuno. L’individuo, nel senso positivo del termine, non è l’individuo che rifiuta gli altri o rifiuta di mettersi in discussione, ma è l’individuo che riconosce il suo percorso e impara anche a mettersi da parte. Solo così aiuta la collettività, nel momento in cui è in grado di lasciare andare. E questo è un percorso che si fa da soli e insieme allo stesso tempo.

ALMARE (Giulia): Dico un’ultima cosa che però mi sembra significativa rispetto anche alla scrittura collettiva. Mi pare di capire che anche voi vi scontriate con il lasciare andare, il domandarsi fino a dove accumulare e poi fino a che punto sintetizzare o rielaborare tutto. Prendiamo lo script del nostro film. Molto materiale che usiamo sono parole scritte da altri, come Goodman, Burroughs, Morselli. Credo che finora solo per caso non ci sia finita Acker stessa. Poi c’è stata una prima fase del lavoro che è stata una registrazione delle nostre conversazioni, oppure salvataggi più o meno autorizzati di mail, chat, e così via. Tutto quel materiale è finito in un modo o nell’altro all’interno del lavoro finale: là dentro ci sono le parole di tutti, il nostro cumulo. Qui poi potremmo aprire tutta una digressione sull’accumulo come ossessione e sulla sua matrice politica, ma forse non abbiamo tempo.

MONTAG: Forse no, ma grazie mille per tutto quello che avete detto. Una cosa finale?

ALMARE (Amos): Nessuno ha ancora detto la parola capitalismo.

ARTICOLO n. 5 / 2024

MEDUSA: UNA BAND DI BASSO E BATTERIA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, diamo il via alle Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo primo appuntamento abbiamo intervistato MEDUSA, un collettivo composto da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che dal 2017 pubblica una newsletter omonima per raccontare e divulgare la crisi climatica. Il loro libro, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) è stato pubblicato da NERO nel 2021. 

MONTAG: Volevamo partire da una domanda che faremo a tutti quanti i collettivi con cui converseremo. Vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? E, se sì, cosa significa per voi?

MEDUSA: Se un collettivo è uno spazio in cui bisogna negoziare le scelte, le decisioni, i rapporti che si creano, il linguaggio che si adopera per interfacciarsi col mondo, se questa negoziazione è alla base del progetto, allora siamo un collettivo. Da altri punti di vista sappiamo che i collettivi sono organismi più complessi del nostro. Noi siamo più che altro un duo, una band di basso e batteria, che ha anche i propri progetti solisti. Ma quando ci mettiamo insieme uniamo, integriamo e completiamo qualcosa dell’altro. Il progetto comune è diverso dalle cose che facciamo ognuno per conto suo. Sappiamo che certe cose possiamo e vogliamo scriverle solo sotto lo sguardo di MEDUSA. Stiamo lavorando e abbiamo lavorato a pezzi, racconti e idee di romanzo per MEDUSA. Quando siamo in due cambia il modo in cui pensiamo alla scrittura, perché sappiamo di essere su un terreno comune, che abbiamo costruito insieme e che conosciamo ormai molto bene. Il progetto è nato sette anni fa: ormai sappiamo come muoverci, come editare l’altro, cosa voler tradire e cosa voler rispettare: ogni volta sappiamo dove stiamo camminando. E quindi sì, siamo più un duo che sa quale album viene prima e, se si mette a pensare un nuovo album, sa che può spostare l’asticella o il ritmo o la sperimentazione artistica da una parte o dall’altra.

MONTAG: Torna l’immagine musicale dei Wu Ming. Anche loro si definiscono spesso come una band.

MEDUSA: Sì, alla fine è così. È una cosa un po’ inspiegabile, alchemica, oscura. Quando si mettono insieme più teste si crea un’intelligenza collettiva, da alveare. E finché funziona, è bellissimo. Ci si capisce al volo. Noi a volte, in maniera preoccupante, pensiamo le stesse cose a distanza. Non solo quando scriviamo. Ci è capitato di aprire Telegram e mandarci lo stesso link, articolo o video, nello stesso momento. A livello di scrittura, poi, succede si sviluppi una postura quasi mimetica: abbiamo assorbito alcune qualità, alcune caratteristiche dello stile dell’altro, e quando scriviamo su MEDUSA ne facciamo uso senza problemi. Anche per questo, nel libro, abbiamo deciso di usare la prima persona singolare: solamente nell’introduzione dichiariamo di essere in due, siamo un noi, ma da lì in poi spariamo in un io, un autore singolo, e usiamo la prima persona singolare. A volte ci capita di riaprirlo, leggere un paragrafo e non sapere chi l’abbia scritto.

MONTAG: Ragionando sul rapporto tra negoziabilità e complessità nelle diverse forme di collettivo, questa è una cosa che abbiamo ritrovato molto nella relazione tra la forma che adottate per lavorare e creare insieme e le tematiche che affrontate, soprattutto nei termini di una tensione tra l’unità e le sue parti. Ci è piaciuto l’esempio che avete fatto in Storie dalla fine del mondo sulla “unica grande nota” di Zappa: tutto quanto è un’unica nota dal cui interno nascono le varietà, non esistono solisti, ma tutto si tiene in una grande armonia. È un po’ la stessa cosa che si viene a formare nel momento in cui entrambi vi mandate la stessa cosa su Telegram, quando avviene quella consonanza. Vi riconoscete in questa descrizione?

MEDUSA: Diciamo che non riusciamo a immaginarci un collettivo che nasce da persone che non vanno d’accordo, che non hanno una relazione sana e un’amicizia. Se le idee sono degli accordi, ci sono anche degli armonici, ci sono delle ottave, ci sono sempre delle differenze di interpretazione, che possono essere minime e cambiare nel tempo. A volte la sensazione è che abbiamo capito il nostro punto di vista leggendoci, piuttosto che parlando, perché ci sono operazioni e ragionamenti complessi da mettere su carta e di cui nella vita di tutti i giorni non si riesce a parlare, per esempio cosa si pensa della decarbonizzazione, o dell’ironia degli scrittori postmoderni.

Questa unione impossibile tra l’unità e la collettività è una delle cose che ci interessano, che nutrono il nostro sguardo e ciò che abbiamo scritto. In un certo senso è uno scontro tra la vita quotidiana, quindi l’unità, e la vita collettiva, quindi la vita della società. È uno sfogo cui abbiamo dato la forma di saggio narrativo o di racconto. Qualche settimana fa, intervistando Orhan Pamuk, Matteo ha citato Tolstoj, che dopo 700 pagine di Guerra e pace se ne prende qualche decina per raccontare la sua filosofia della storia. Sono pagine teoriche in cui dice che gli esseri umani hanno due vite: una vita individuale che segue dinamiche prevedibili, meccaniche che dipendono dai suoi umori, dalle emozioni, dai bisogni; e poi c’è la “vita-sciame”, la vita delle società, che segue invece relazioni talmente complesse che al singolo risultano impenetrabili, quasi divine. Senza poterla formulare con lo stesso acume di Tolstoj, è però una cosa a cui in effetti pensiamo spesso: il ruolo dell’individuo nella collettività, ma anche il senso di impotenza dell’individuo rispetto a essa, davanti a questioni enormi e incontrollabili, davanti a oggetti come le crisi climatiche e le guerre. Questa è di sicuro una delle cose che ci ha spinto – che ci spinge – a scrivere. Storie dalla fine del mondo parte proprio da lì, da quell’unica grande nota incomprensibile che citava anche Zappa.

MONTAG: Ancora sul tema del rapporto con la società: perché fare collettività oggi? Qual è la potenzialità del lavoro collettivo rispetto al lavoro individuale? Il funzionamento di tutta questa complessità si può cogliere meglio attraverso una dinamica collettiva?

MEDUSA: Vi diamo una risposta fenomenologica. C’è qualcosa nello spirito del tempo: il mondo è dominato da sistemi complessi come internet, e qualsiasi altro aspetto della nostra vita è imbrigliato in qualche rete grande o piccola. E la risposta è sempre più, anche negli artisti, di unione e di condivisione. Anche dal punto di vista politico, ci sembra che ci siano molti più gruppi che si stanno finalmente organizzando e hanno bisogno di mutuo appoggio e mutua assistenza per riuscire sia a decifrare il problema che a capire come superare le difficoltà. Pensiamo a Ultima Generazione o Extinction Rebellion, gruppi locali che sono arrivati a unirsi in reti internazionali (e viceversa). Ma questo discorso si può leggere anche nella musica: negli ultimi anni il rap, la trap sono dominati dal featuring, ormai moltissimi album sono praticamente playlist di duetti e collaborazioni. Non è più strano vedere un album con dodici nomi che poi va nella discografia di uno solo degli artisti. Non è mai stato così.

Poi, pensandoci meglio, è anche vero che molto sta in come i periodi storici si raccontano, nel modo in cui le società si autoanalizzano. Sicuramente c’è questa tensione, dei pattern comuni, oggi. Ma se si va a rivedere la storia del Novecento, i giovani hanno spesso formato dei collettivi di un qualche tipo. Le riviste sono il miglior esempio possibile. A inizio Novecento c’era Lucciola, che era una rivista femminista, l’abbiamo scoperta grazie al nostro amico Ivan Carozzi, una rivista incredibile, scritta per corrispondenza da sole donne, e poi pensiamo ai Vociani, o, passando all’arte, cosa sarebbe il surrealismo senza Zurigo e il Dada? E poi si arriva al Gruppo 63, alla politica degli anni ‘70. E anche gli ‘80: abbiamo avuto bisogno di raccontarli come individualisti solo perché andava “compensato” l’impegno politico degli anni ‘70, per riconoscerli nel contrasto ecco, ma gli anni ‘80 in realtà sono pieni di collettivi importantissimi che hanno inciso, per esempio, sulla storia della comunità LGBTQ+, o avventure culturali come la rivista Frigidaire. E ci sono anche molte realtà degli anni ‘90 che ignoravamo, e che abbiamo scoperto grazie a Grafton 9, progetto bolognese che si occupa di digitalizzare molte riviste del passato, soprattutto della scena sociale degli anni ‘90, ma non solo. Insomma, ovunque si guardi c’è sempre stato un bisogno di collettività, e anche oggi è giusto parlarne in questi termini.

Ma è vero che quell’impressione iniziale rimane: sembra che, persino nelle arti che sono sempre state rivolte all’espressione più individualista, ora ci sia più facilità e più volontà di renderle collettive. Si è sempre fatta, questa cosa di scrivere un libro in due, in tre, in quattro, ma oggi ci sembra una cosa ancora più naturale, non è più una bizzarria, non stupisce più.

MONTAG: Prima dicevate che nel vostro libro avete ricostituito un “Io collettivo”. Nel racconto del contesto storico e culturale in cui ci troviamo, quale è il posto dell’Io? Si può costruire un “Io antropocenico”?

MEDUSA: In realtà questa cosa dell’Io, della prima persona singolare con cui abbiamo scritto insieme il libro, è stata una sorpresa anche per noi, perché non l’avevamo preventivata. Abbiamo iniziato a scrivere il libro mettendo insieme cose che avevamo scritto singolarmente, poi continuando a scrivere cose nuove e completandolo, studiando le lacune e unendo i puntini. Arrivati a questo punto però ci siamo resi conto che andavano amalgamate le cose. E anche magari per pigrizia, all’inizio, se vuoi, abbiamo pensato a questa soluzione. Sarebbe stato più pesante e complesso specificare ogni volta, nel libro, chi parlava: “Io, Nicolò, giro per la Stazione Centrale deserta durante la pandemia” e poi “Io, Matteo, mi ricordo di quando a Venezia ho partecipato a un festival di cortometraggi”. Una volta che l’idea era sul tavolo, ci è sembrata la cosa più naturale e abbiamo immediatamente percepito la sua potenza. 

Da un lato ci ha liberato di alcuni tic che sono tipici del reportage narrativo: tutte queste varianti di new journalism ecco, fino a Carrère e i suoi emuli, presentano a volte quegli eccessi di Io, dove il giornalista-scrittore non si leva di mezzo mai, ti dice che cosa ha mangiato o come si è spostato, in macchina, in taxi, in treno. Tutti ganci narrativi che dovrebbero aiutare il lettore, portarlo a spasso per la storia, ma che spesso finiscono per essere pura maniera. E a maggior ragione, parlando di Antropocene, sarebbe stato strano: uno dei problemi di quest’epoca è proprio l’ego, l’egoismo, l’umanità nella sua forma autoriferita. Paradossalmente, invece, componendo un Io che erano due persone, non potevamo permetterci queste cose, cioè non ci potevamo permettere di essere completamente e fisicamente nel libro, non ci potevano essere le nostre vanitàe i nostri tic personali, perché dovevamo fare spazio all’Io-MEDUSA. E invece sono rimaste intatte le paure comuni, le ossessioni comuni, tutto ciò che ci ha spinto a scrivere il libro. 

Quindi abbiamo creato questa sorta di Io composito che, pur non essendo minimamente fisico, né egoista, né autoriferito, diventava più emotivo, analitico, preoccupato più per il mondo che per se stesso. Abbiamo cercato di sfruttare quell’Io come un’universalità, quella richiesta dall’emergenza climatica, dal problema dell’Antropocene.

MONTAG: Ci è venuta in mente un’analogia con una citazione di Kafka che avete inserito nel libro, quando appunta: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia, nel pomeriggio lezione di nuoto». Ci sono l’ordinario, il nuoto, e l’eccezionale, l’invasione, che si mischiano, e ci sembra che un po’ seguiate questa regola, una sorta di “rasoio di Kafka”, che stiate su questo crine in cui due mondi che costantemente portano l’uno a scomparire nell’altro. E ci sembra che un progetto come il vostro riesca in qualche modo a de-automatizzare questo binomio, anche grazie al vostro rendervi indistinguibili attraverso l’Io di cui parlate. In che maniera a partire da questo Io antropocentrico vi siete accorti che cambiava il vostro modo di scrivere?

MEDUSA: Sicuramente questo nuovo Io ci ha cambiato, è diventato una sorta di “super editing”, nel senso che, pur non facendo mai esperimenti come il vostro di scrittura simultanea o di condivisione totale, e pur avendo ancora bisogno del nostro foglio prima di darlo all’altro e farlo intervenire, è però qualcosa che a livello quasi subconscio interviene in anticipo, un editing prima ancora dell’editing. Per noi, quando uno scrive per MEDUSA, scrive in quanto MEDUSA. E ognuno di noi ha introiettato brandelli di stile o modi di scrivere dell’altro, è come una spinta mimetica che porta ognuno a scrivere precipitando e aspettandosi l’editing dell’altro, nella maniera più comunitaria e medusica possibile. A volte scrivendo si prende piena consapevolezza, come un flash, di avere non solo un lettore di riferimento ma anche un altro scrittore di riferimento. L’editing è la cosa più comunitaria che si possa fare nella scrittura, ed è la più delicata, bisogna trovare una persona di cui fidarsi, di cui accettare qualsiasi critica. Spesso l’editing può essere anche solo lessicale, un lavoro di piccole scelte, un po’ minimalista, però è quel minimalismo da producer che sistema le canzoni. Dall’altro lato spesso è massimalista, nel senso che a volte ci si sbrodola, si divaga, e quindi il confronto con l’altro aiuta a tagliare anche paragrafi interi.

Tornando all’Io, se c’è un messaggio, anche se non ci piace dire così, se c’è un fondo nel nostro libro, è il rifiuto del consumismo. Spesso, nel vecchio new journalism di cui parlavamo prima, e che ancora si propaga, raccontare l’Io significa raccontare i consumi. Ricorrere all’Io in questo contesto non è banale, perché l’autofiction si nutre di edonismo, egoismo, solipsismo, che sono tutte materie prime della letteratura, ma quando l’Io si intreccia con la divulgazione, quando si parla di che cosa è meglio per il pianeta, l’equilibrio diventa precario. È un lavoro che va fatto con attenzione.

MONTAG: Esatto, ci sembrava che andasse anche contro l’Io inteso come forma linguistica capitalista.

MEDUSA: Il tentativo di MEDUSA era ricostruire degli intrecci inspiegabili, invisibili, tra l’acciaio e le decisioni umane, le radiazioni e i traumi collettivi. Quindi visibile e invisibile. E l’unica voce che poteva raccontarlo era una specie di voce onnisciente che non è una divinità, ma una via di mezzo tra l’inconscio di un paese e l’aria che respira. Anche questo forse c’entra con la dissoluzione di un punto di vista soggettivo, che però ovviamente è un processo che si può fare in tutti i modi, con la prima, la seconda, la quarta persona!

MONTAG: Questo discorso che avete fatto ci interessa tantissimo. Anche a noi a volte succede di pensare la stessa cosa, persino di iniziare racconti con la stessa parola. Però a nuove forme mentali possono anche accompagnarsi nuovi generi, quindi: quali sono i generi di MEDUSA? Il vostro libro è un saggio narrativo, che già di per sé è un’espressione ibrida, si avvicina alla theory-fiction. Nella vostra newsletter è interessante vedere quanto spaziate a livello di genere, nella struttura, nella lunghezza e nel tipo di testi che ospitate: saggi, racconti, reportage, interviste. Che cosa vuol dire per voi sperimentare, da un lato scegliere di confrontarvi con così tanti generi, e dall’altro ibridarli? Confrontarvi con più generi vi è venuto naturale scrivendo insieme, oppure è una vostra caratteristica personale?

MEDUSA: Questa è una domanda per cui vi abbracceremmo! È una domanda che non ci hanno mai fatto, ci sembra, e che rispetta profondamente la nostra ricerca. Ci viene in mente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, dove narra la vita di una ragazza, di una donna, attraverso tanti racconti e ogni racconto esplora un genere. E questa è una cosa che ci piacerebbe fare. Perché non crediamo nella gerarchia tra generi, anche se spesso ci siamo trovati impastoiati, infangati nel discorso sulla fantascienza. Ma, andando avanti, abbiamo sempre più la sensazione che la fantascienza non sia più un genere, la fantascienza contemporanea è semplicemente diventata il modo per raccontare il presente, il futuro.

Tanto “genere” purtroppo resta iterazione, replica. Ma, allo stesso tempo, quella che dalla nostra società è considerata “letteratura alta” è diventata un polpettone replicato in mille sfumature di trauma. Per noi i generi diventano invece un modo per sperimentare, per allargare le nostre capacità. A un certo punto, quando eravamo nei vari lockdown della pandemia, quasi stava collassando anche il senso di alcuni testi. Mi viene in mente una cosa che avevamo scritto su un minatore australiano che vive sottoterra e scrive poesie. Quella cosa iniziava come un reportage, prendeva l’idea da un numero di Frigidaire che raccontava di Coober Pedy, un paese scavato nella terra, in Australia, dove fa troppo caldo e quindi si vive sottoterra. Raccontavamo delle cose a metà, un po’ strane, fantascientifiche, e qualcuno alla fine ci ha chiesto se la storia fosse vera e di chi fossero le poesie, dove potevano trovare altre poesie dei minatori. Ma le poesie erano nostre! Questo per dire cosa? Che ci piace esplorare tutte le forme. 

MONTAG: È vero che nella newsletter c’è sempre più materiale narrativo, soprattutto dopo l’uscita del libro. E quindi volevamo farvi questa domanda, puramente speculativa: un romanzo MEDUSA avrebbe senso per voi?

MEDUSA: Ci pensiamo dall’inizio. Abbiamo già in mente di lavorare a un romanzo (o dei racconti) MEDUSA, ma in realtà vorremmo prima o poi fare anche un altro libro, un altro saggio ibrido, quindi vediamo cosa succederà. Idealmente, se avessimo tutto il tempo del mondo, entrambi subito!

MONTAG: In esclusiva ai nostri microfoni! 

MEDUSA: Però l’esplorazione dei generi per noi è stata, da sempre, anche una conseguenza editoriale a cui ci siamo costretti. Forse MEDUSA è anche questo, all’inizio abbiamo pensato alla newsletter e parlavamo di cambiamenti climatici, crisi ambientale, di realtà, appunto, di rapporto tra uomo e natura, cosa che si è sempre fatta ma che ci sembrava, in un momento di crisi globale, non si facesse nella maniera in cui ci sarebbe piaciuto leggerla. Quindi c’erano numeri più divulgativi, poi numeri letterari, dove parlavamo di filosofi e libri sull’Antropocene, di quello che ci andava di raccontare o commentare. C’è da dire anche che alla fine le questioni più letterarie forse sono quelle meno lette, non solo su MEDUSA, in generale su internet: i racconti vanno sempre peggio dei pezzi. Mentre noi, controcorrente, dopo sette anni di newsletter siamo arrivati a un punto in cui ci fa molto più piacere scrivere racconti dentro MEDUSA. Però sappiamo che parte del nostro pubblico è affezionato anche ad altri tipi di riflessioni, ad altri tipi di “contenuti”.

Non diciamo che sia del tutto saltata la divisione fra contenuto, racconto, o content, fra le storie, i link, le curiosità, però siamo qualcosa che si avvicina a una fusione di tutto questo. Lo vediamo per esempio su Instagram: ovviamente lì un racconto è invendibile, però ci sono comunque storie brevi che possiamo raccontare e che entrano in un nostro ragionamento, magari bizzarre, strane, e che continuano a succedere davvero nel mondo.

Poi, rispetto a quando è iniziato, il dibattito sull’emergenza climatica si è molto aggiornato in Italia. Quindi sentiamo di avere meno urgenza divulgativa, perché certe cose ormai sono note. Stiamo ovviamente parlando della nicchia in cui ci muoviamo e pure questa non è una questione da poco. La domanda alla fine resta: che cosa possiamo dare al mondo che il mondo non ha? E quindi è su questo che stiamo lavorando, appunto perché dopo sette anni abbiamo allentato i legacci del “tema”. Non siamo mai stati ancillari, non è mai stato un modo di svilire la letteratura, o le nostre ambizioni letterarie “per parlare del Tema”. Piuttosto al contrario, partivamo da un problema usandolo come elemento di interesse, tentativo di comprensione e di esplorazione di un racconto. 

Ora sia un nuovo saggio che un romanzo MEDUSA riusciamo a vederlo bene.