Mircea Cărtărescu

ARTICOLO n. 81 / 2024

DENTRO LO STESSO SOGNO

Un dialogo a cura di Salvatore Toscano

Pubblichiamo un estratto dal volume Dentro lo stesso sogno. Conversazioni (a cura di Salvatore Toscano, Wojtek, 2024) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Salvatore Toscano: Sapreste individuare il momento esatto in cui avete pensato che sareste diventati scrittori? Quando avete capito che nel vostro destino c’era la letteratura? 

Mircea Cărtărescu: Non ho mai avuto un momento del genere, non ho voluto diventare uno scrittore e persino oggi la parola scrittore mi provoca un particolare disagio. La scrittura non è il mio mestiere. Non è nemmeno la mia arte, attiene piuttosto a una sorta di istinto, come quello della sopravvivenza o della riproduzione. Scrivo così come la chiocciola secerne il proprio guscio, o come l’occhio produce lacrime. Mi sento fatto per questo e mi sento inesistente al di fuori di questa attività che devo svolgere, proprio come devo respirare, poiché altrimenti non potrei vivere. Ho scritto versi e prosa attorno ai quindici anni, ma solo dai venti ho scritto in maniera intensa, sistematica, nel campo di forze di una vera ispirazione. Nemmeno allora ho mai pensato di pubblicare. Sognavo, in realtà, di restare un autore puro, che scrive solo per se stesso, poiché persino la semplice pubblicazione di un testo mi sembrava un compromesso. Leggevo poesie e racconti in cenacoli studenteschi, e quei testi sono stati notati da critici letterari e da editori di quel tempo, così ho debuttato con la poesia a ventiquattro anni. Da allora ho tratto dalla mia attività di scrittura, che è in realtà un continuum, una trentina di volumi, ma ancora oggi non mi sento né uno scrittore, né un poeta, né un critico, bensì semplicemente un uomo che scrive, e che continuerebbe a farlo anche se nessuno sapesse più leggere. E persino se restassi solo nell’intero universo. La scrittura non è per me una forma d’arte, ma piuttosto il senso stesso della mia vita. Non scrivo per raccontare agli altri storie, ma per potermi rifugiare nella mia stessa narrazione, come la chiocciola nel suo guscio. 

Antonio Moresco: Una volta sbloccato, dai quindici ai diciannove anni ho letto molto e ho anche scritto molto, tutte cose che ho poi distrutto a vent’anni: poesie, diari, romanzi, racconti, testi teatrali… Intanto però continuava la mia difficoltà ad apprendere ogni altra cosa che non fosse la lingua italiana, gli scrittori e i poeti, e a scuola venivo ripetutamente bocciato e umiliato, i miei compagni andavano avanti e io restavo indietro, eterno ripetente. Però almeno avevo trovato un filo nella mia vita, dei fratelli e delle sorelle, delle persone che ardevano e la cui luce arrivava fino a me attraverso lo spazio e il tempo. Poi mi sono gettato in altre imprese e follie e, per dieci anni, non ho più letto e scritto niente, ho tradito e rinnegato quella parte di me, che mi sembrava una debolezza da cui dovevo separarmi. Ho vissuto randagio in diverse città d’Italia e sono sprofondato nella vita senza cinture di sicurezza, sono andato allo sbaraglio, ho conosciuto persone e mondi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Sulla mia carta di identità c’era scritto: operaio. Ero l’ultimo della fila in mezzo agli ultimi della fila e tale pensavo che sarei rimasto per sempre. Ho lavorato nelle fabbriche, nelle discariche, in officine sottoterra, ho fatto il bracciante, il facchino, sono stato processato più volte e incarcerato. Mi ero abbandonato a illusioni secolari e poi avevo sperimentato quella che il mio amato Leopardi chiama “la strage delle illusioni”. A trent’anni, ritornato a Milano in condizioni fisiche e psichiche difficili, in un monolocale di periferia vicino a un imbocco autostradale, di notte, chiuso nel gabinetto per non svegliare mia moglie e mia figlia che stavano dormendo nell’unica stanza, seduto sulla tazza del water con il quaderno sulle ginocchia, sono nato veramente e finalmente come scrittore e ho cominciato a scrivere ciò che avrebbe visto la luce soltanto quindici anni dopo. Da quel momento la letteratura (chiamiamola così, anche se è una parola insiemistica che non vuole dire niente e che non mi piace) è stata per me l’unica strada nel buio, che non mi potevo permettere di tradire e rinnegare una seconda volta nella mia vita. Perciò sono d’accordo con quello che dice Mircea. Neanch’io mi sento uno scrittore, mi sento qualcosa d’altro che non saprei definire, qualcosa di più e di meno di uno scrittore. Io sono uno con le spalle al muro, per me scrivere, inventare, prefigurare era e continua a essere una questione di vita e di morte, non una professione, un mestiere, una carriera.

S.T. Nel linguaggio religioso si parla del problema della teodicea, cioè della presenza del male nel mondo: che rapporto c’è tra le vostre opere e il male? È ancora viva in voi l’illusione adolescenziale di poter salvare o redimere l’umanità attraverso l’arte? 

M.C. Non ho mai pensato di salvare l’umanità attraverso la mia scrittura, ma semplicemente di scrivere bene. Mi sembra che sia sufficiente. In questo modo salvo almeno me stesso. Per quanto riguarda la presenza del male nel mondo, essa è naturale. Il mondo è un’opera d’arte, come un romanzo. Non è possibile immaginare un romanzo esclusivamente con personaggi positivi. Sarebbe un idillio ridicolo e noioso. Gli esseri umani a tavola hanno bisogno di spezie, di pepe e di peperoncino, e nella vita hanno bisogno di lottare, di soffrire, di sperimentare vittorie e sconfitte, di confrontarsi con le proprie debolezze e i propri difetti, come pure con quelli altrui. Senza la presenza del male non avremmo la sensazione che la vita abbia un senso. Non abbiamo bisogno del paradiso, ma della vita in terra, con il nostro essere fatto di carne, ossa e intelletto. Il male è lì per combatterlo con tutte le nostre forze, per mostrare in tal modo che siamo esseri umani. Salvo che non lo sconfiggeremo mai definitivamente, poiché è radicato profondamente in noi. Non credo che la bellezza salverà il mondo, credo però che il vero, il bene e il bello debbano risplendere da qualunque nostro scritto, per dargli senso e finalità. Tutto ciò che è fatto con amore è sacro, per questo ogni libro dovrebbe avere la drammaticità umana dei Vangeli. Per coloro che scrivono letteratura, ciò significa scrivere bene, senza compromessi, senza pensare “ai frutti delle azioni”, come è detto nella Bhagavadgītā: fama, danaro, premi, recensioni entusiastiche e altri riconoscimenti illusori. Ribaltando la frase di Wittgenstein, “Tutto ciò che può essere detto, può essere detto in modo oscuro, complicato, simbolico, profetico. Su ciò che può essere detto con chiarezza, occorre tacere”. Potrebbe essere questo il motto degli autori che io prediligo.

A.M. C’è, a mio parere, una doppia tentazione per lo scrittore, un doppio piano inclinato e un doppio vicolo cieco: o di usare la letteratura come una cattedra moralistica diventando l’edificante cantore del bene, o di usarla come una cattedra immoralistica diventando l’altrettanto edificante cantore del male. Lo scrittore deve guardare in faccia la Medusa senza farsi pietrificare dal suo sguardo. Ma se uno scrittore non ha il coraggio di andare vicino al male, che scrittore è? Io credo di andarci vicino, certe volte anche molto o troppo vicino, perché il male di cui è pervaso il mondo deve essere fronteggiato, come hanno sempre fatto – ciascuno a suo modo – gli scrittori e i poeti che amo: Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift, Kleist, Leopardi, Dickinson, Balzac, Dickens, Melville, Dostoevskij, Kafka… Se io mi illudo di poter salvare e redimere l’umanità attraverso l’arte? No, però continuo lo stesso a non darmi per vinto, a sognare, a fantasticare, a delirare, a combattere, anche se non ho speranza.

ARTICOLO n. 24 / 2021

Solenoide

CAPITOLO UNO

Ho preso di nuovo i pidocchi, la cosa nemmeno mi sorprende più, non mi spaventa più, non mi provoca più disgusto. Mi prude soltanto. Lendini ne ho in continuazione, li faccio cadere sempre quando mi pettino in bagno: piccole uova di color avorio, che luccicano nerastre sulla ceramica del lavandino. Ne restano parecchi anche tra i denti del pettine, che poi pulisco con un vecchio spazzolino da denti, quello con l’impugnatura ammuffita. È impossibile non prendere i pidocchi: insegno in una scuola di periferia. Metà dei ragazzi hanno pidocchi, glieli trovano alla visita medica, a inizio scuola, quando l’infermiera separa i capelli con i gesti esperti degli scimpanzé, salvo che non schiaccia sotto i denti le croste chitinose degli insetti catturati. Raccomanda invece ai genitori una soluzione biancastra, simile a liscivia, dall’odore chimico, la stessa che usano alla fine anche i professori. In pochi giorni tutta la scuola arriva a odorare di soluzione contro i pidocchi.

In fondo non è così male, almeno non abbiamo cimici, è da tanto che non si sono più viste. Mi ricordo pure di queste, le ho viste con i miei occhi quando avevo tre anni, nella villetta di Floreasca dove abbiamo abitato verso il ’59-’60. Il babbo me le mostrava quando spostava bruscamente il materasso del letto. Erano come dei granellini rosso scuro, duri e lucenti come i frutti di bosco o come le bacche nere di edera, che sapevo di non dovere ingoiare. Solo che i granellini tra il materasso e il telaio del letto scappavano via verso gli angoli bui, così agitati che scoppiavo a ridere. Non aspettavo altro che papà sollevasse l’angolo pesante del materasso (quando si cambiavano le lenzuola) per vedere ancora gli animaletti grassottelli. Ridevo allora con tale gusto che la mamma, che mi voleva con i capelli lunghi e tutti riccioletti, mi prendeva sempre tra le braccia e fingeva scaramanticamente di sputacchiarmi addosso. Poi il babbo portava la pompa con l’insetticida e faceva una bella doccia puzzolente alle cimici annidate nelle giunture del legno. Mi piaceva l’odore del legno del letto, l’abete che sapeva ancora di resina, mi piaceva persino l’odore dell’insetticida. Poi il babbo sistemava il materasso e veniva la mamma con le lenzuola. Quando ne stendeva uno sul letto, si gonfiava come un grosso bombolone in cui mi piaceva tantissimo infilarmi. Aspettavo quindi che il lenzuolo si stendesse lentamente su di me, che prendesse la forma del mio corpicino, ma non di ogni sua parte, bensì che disegnasse complicate pieghe piccole e grandi. A quel tempo le stanze erano grandi come capannoni, e vi si affaccendavano quei due giganti che, non si sa perché, si prendevano cura di me: la mamma e il babbo.

Non mi ricordo però delle punture delle cimici. La mamma mi diceva che erano come dei circoletti rossi sulla pelle, con un puntino bianco al centro. E che piuttosto bruciavano anziché prudere. Non so, fatto sta che continuo a prendere pidocchi dagli scolari quando mi chino sopra i loro quaderni, è come una malattia professionale. Porto i capelli lunghi sin dai tempi in cui sarei potuto diventare scrittore. È tutto ciò che mi è rimasto di questa carriera, i capelli lunghi, la zazzera. E i maglioni dolcevita di filanca, come li portava il primo scrittore che ho visto in vita mia e che mi è rimasto nella mente come un’immagine, gloriosa e intoccabile, dell’autore: quello di Colazione da Tiffany. I miei capelli sfiorano sempre quelli arruffati e pieni di nastrini delle bambine. Su queste funi cornee, semitrasparenti, salgono gli insetti. I loro uncini seguono la curvatura del capello, che afferrano a meraviglia. Passeggiano poi sul cuoio capelluto, e vi lasciano gli escrementi e le uova. Pungono la pelle, mai toccata dal sole, di un bianco immacolato, come fosse pergamena, e questo è il loro cibo. Quando i pruriti diventano insopportabili, riempio la vasca di acqua bollente e mi accingo a sterminarli.

Mi piace lo scroscio dell’acqua nella vasca, quell’impetuoso vortice prorompente di miliardi di gocce e rivoli a spirale, la risonanza del getto verticale nella gelatina verdognola dell’acqua che cresce poco a poco, conquistando le pareti della vasca fra rigonfiature ostacolanti e scorrerie repentine, simili a innumerevoli formiche trasparenti che brulicano nella giungla amazzonica. Chiudo il rubinetto e si fa silenzio, le formiche si dissolvono e lo zaffiro molle come gelée si acquieta, mi guarda come un occhio sereno e mi aspetta. Nudo, entro nell’acqua voluttuosamente. Immergo subito la testa, sento come le pareti dell’acqua salgono simmetricamente lungo le mie guance e la mia fronte. L’acqua mi stringe, la sento pesante intorno a me, mi fa levitare in mezzo a essa. Sono il nocciolo di un frutto dalla polpa azzurro-verde. I capelli mi si stendono fin sul bordo della vasca, come un uccello nero dispiegherebbe le sue ali. I capelli tra di loro si respingono, ciascuno è indipendente, ciascuno galleggia, improvvisamente bagnato, fra gli altri, senza sfiorarli, simili ai tentacoli dei gigli di mare. Muovo la testa bruscamente a destra e a sinistra per sentire come i capelli diventano tesi, si stendono nell’acqua densa, acquistano peso, un peso inaspettato. È difficile strapparli dai loro alveoli stando in acqua. I pidocchi si appigliano ben bene ai tronconi spessi, diventano un tutt’uno. Le loro espressioni inumane mostra- no una sorta di perplessità. Le loro carcasse sono della stessa sostanza dei capelli. Si ammorbidiscono anch’esse nell’acqua bollente, ma non si dissolvono. I tubicini respiratori disposti simmetricamente intorno all’addome goffrato sono ben serrati, come le narici socchiuse delle foche. Galleggio nella vasca passivamente, rilassato come un prodotto anatomico, la pelle delle dita mi si gonfia e s’increspa. Sono anch’io molle, come se fossi ricoperto di chitina diafana. Le braccia, lasciate libere, galleggiano in superficie. Il sesso tende pure lui a sollevarsi, come un tappo di sughero. È così strano avere un corpo, essere dentro un corpo.

Mi metto seduto nella vasca e comincio a insaponarmi i capelli e il corpo. Per tutto il tempo che ero stato con le orecchie sottacqua avevo sentito distintamente discussioni e rumori dagli appartamenti vicini, ma come in sogno. Ora avevo tappi di gelatina nelle orecchie. Passo i palmi delle mani pieni di sapone sul corpo. Il mio corpo non è per me erotico. È come se passassi le dita non sul mio corpo, ma sulla mia mente. La mia mente vestita di carne, la mia carne vestita di cosmo.

Come nel caso dei pidocchi, non sono granché sorpreso quando arrivo con le dita piene di sapone all’ombelico. È da un bel po’ di anni che mi capita. All’inizio mi sono spaventato, ovviamente, perché avevo sentito che può capitare che l’ombelico ti scoppi. Non mi ero però fatto mai problemi col mio, visto che il mio ombelico non era altro che un incavo sul mio addome «appiccicato alla colonna vertebrale», come diceva la mamma. In fondo a questo incavo c’era qualcosa di spiacevole al tatto, che non mi aveva mai più di tanto preoccupato. L’ombelico non era altro che la parte incavata della mela, da dove spunta il pippolo. Siamo cresciuti pure noi come dei frutti su un picciolo percorso da venuzze e arterie. Ma un po’ di mesi fa, mentre passavo le dita frettolose sopra questo accidente del mio corpo, soltanto perché non restasse mal lavato, ho sentito qualcosa d’insolito, qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì: una specie di piccola sporgenza che mi ha graffiato la punta del dito, qualcosa d’inorganico, che non faceva parte del mio corpo. Era incastonata nel groppo di carne smorta che stava sbarrata lì, come un occhio tra due palpebre.

Per la prima volta ho guardato più attentamente, sotto l’acqua, e ho dischiuso con le dita i bordi del crepaccio. Poiché non vedevo bene, mi sono alzato dalla vasca, e la lente d’acqua dell’ombelico è gocciata lentamente via. Oddio, mi dicevo sorridendo, sono arrivato a contemplare il mio stesso ombelico… Sì, era una specie di nodo pallido, che ultimamente era diventato più sporgente del solito, perché a quasi trent’anni i muscoli dell’addome si erano rilassati un po’. Un’incrostazione grande come un’unghia di bambino, in una delle volute del nodo, si rivelò essere semplice sporcizia. Dall’altra parte, però, rigido e dolente, sporgeva il piccolo moncone nero-verdastro che avevo sentito con la punta del dito. Non mi rendevo conto di cosa potesse essere. Ho cercato di afferrarlo con le unghie, ma ho sentito, tirando, una piccola dolenzia che mi ha spaventato: poteva essere una specie di neo che non era saggio stuzzicare. Ho cercato di non badarci più e di lasciarlo stare, lì dov’era comparso. Nel corso della vita spuntano tante macchie cutanee, nei, ossa necrotizzate e altre porcherie che ci portiamo dietro pazientemente, per non dire di unghie, capelli, e di denti che ci cadono: parti di noi che non ci appartengono più e che acquistano una vita tutta loro. Grazie alla mamma, conservo tuttora, in una scatolina di tic tac, tutti i miei dentini da latte e sempre grazie a lei le mie treccine di quando avevo tre anni. Le nostre foto con la lacca screpolata e la dentellatura sui bordi, simile a quella dei francobolli, lo testimoniano: il nostro corpo si è realmente interposto un tempo tra il sole e la lente della macchina fotografica, lasciando la propria ombra impressa sulla pellicola, non diversamente da come la luna, durante l’eclisse, depone la sua ombra sul disco solare.

Dopo una settimana, però, sempre nella vasca, ho sentito di nuovo il mio ombelico insolitamente irritato: il pezzetto non identificato si era allungato un po’ e si avvertiva in maniera diversa, una sensazione inquietante più che dolorosa. Quando ci fa male un molare lo stuzzichiamo con la lingua pur rischiando di provocare alla fine un dolore acuto. Qualsiasi cosa insolita appaia sulla mappa sensibile del nostro corpo ci esaspera e c’inquieta: dobbiamo a ogni costo liberarci della spiacevole sensazione che non ci dà pace.

A volte, la sera, quando vado a letto, mi tolgo i calzini e sento che la pelle carnosa, giallo-traslucida della parte laterale dell’alluce si è ispessita a dismisura. Afferro con le dita il rigonfiamento compatto, lo tiro anche per mezz’ora finché riesco a romperne un pezzetto, e continuo a tirare con i polpastrelli delle dita dolenti, sempre più irritato e più preoccupato, finché stacco una crosta spessa, vetrosa, come rigata da papille digitali, un intero centimetro di pelle morta, che pende ora sconciamente dal dito. Non posso tirare oltre, poiché arrivo già alla membrana innervata che c’è sotto, a quel me che percepisce il dolore, devo tuttavia liberarmi dal prurito, da quella inquietudine. Prendo le forbici e la taglio, poi la contemplo per un po’: una crosta bianca che ho prodotto io, senza sapere come, così come non mi ricordo come ho prodotto le mie ossa. La piego tra le dita, la odoro, sa vagamente di ammoniaca: il pezzetto organico, eppure morto, morto già da quando faceva parte di me e aggiungeva qualche grammo al mio peso, continua a esasperarmi. Non me la sento di buttarlo via, spengo la luce e mi corico, tenendolo sempre tra le dita, per dimenticarmene completamente l’indomani. Tuttavia per un po’ zoppico leggermente: mi fa male il punto da dove l’ho strappato.

Così mi sono messo a tirare leggermente il moncone rigido che spuntava dal mio ombelico finché, inaspettatamente, mi è rimasto in mano. Era un cilindretto lungo mezzo centimetro e grosso come uno zolfanello. Sembrava annerito precocemente, muffito e sporco e scurito dal trascorrere del tempo. Era qualcosa di antico, mummificato, saponificato, il demonio soltanto lo sa. L’ho messo sotto il getto d’acqua del lavandino e lo strato di sporcizia se n’è andato via, lasciando vedere che una volta quella cosina era stata, forse, giallo-verdognola. L’ho messo in una scatolina vuota di fiammiferi. Sembrava la capocchia bruciata di uno zolfanello.

Qualche settimana dopo dall’ombelico ammollato dall’acqua bollente ho poi estratto un altro frammento, questa volta due volte più lungo, della stessa sostanza dura e allungata. Stavolta mi sono reso conto che si trattava dell’estremità flessibile di uno spago, ho potuto anche notare l’insieme delle fibre ritorte che lo componevano. Era uno spago, un semplice spago, da pacchi. Lo stesso con il quale, ventisette anni prima, avevano legato il mio ombelico nel misero reparto maternità dell’ospedale per povera gente dov’ero nato. Adesso il mio ombelico lo espelleva, come fosse un aborto, lentamente, un pezzetto ogni due settimane, un pezzetto al mese, poi un altro dopo altri tre mesi. Quello di oggi è il quinto e me lo tolgo con cura e voluttà. Lo raddrizzo, lo pulisco con l’unghia, lo lavo nell’acqua della vasca. È il pezzo più lungo fino a ora, e l’ultimo, spero. Lo dispongo nella scatolina da fiammiferi, accanto agli altri: se ne stanno tranquilli, mezzi curvi, di un giallo-verdognolo-nero, con le estremità leggermente sfilacciate. La canapa, la stessa canapa con cui si fanno le retine per le massaie, che gli tagliano le dita quando sono piene di patate, la stessa usata per legare i pacchi. A Ferragosto, per l’Assunzione, ricevevamo un pacco dai parenti di mio padre del Banato: dolci con semi di papavero e miele. Lo spago disfatto, verde-marrone, era la mia gioia: ci legavo le maniglie delle porte, perché la mamma non facesse un altro bambino. A ogni maniglia facevo decine, centinaia di nodi.

Allo spago dell’ombelico non ci penso più ed esco dalla vasca, con l’acqua che mi scivola addosso. Prendo la bottiglia con la soluzione contro i pidocchi che sta dietro il cesso e mi verso in testa un dito del suo contenuto puzzolente. Mi chiedo da quale classe li ho presi questa volta, come se contasse qualcosa. O forse conta, chissà. Forse in strade diverse del quartiere e in classi diverse della scuola i pidocchi sono di altre specie, di altre dimensioni.

Risciacquo più volte quella sostanza schifosa e poi comincio a pettinarmi sopra il lavandino con la porcellana splendente di pulizia. E a un tratto i parassiti cominciano a cadere, due, cinque, otto, quindici… Sono piccolissimi, ognuno contenuto nella sua goccia d’acqua. A fatica riesco a scorgere i loro corpi con l’addome dilatato e tre zampine, che ancora si muovono, su ogni lato. Il loro corpo e il mio, così come mi ritrovo, nudo e bagnato, chino sul lavandino, sono fatti degli stessi tessuti organici. Hanno organi e funzioni analoghi. Hanno occhi che vedono la stessa realtà, hanno piedi che li portano nello stesso mondo infinito e incomprensibile. Vogliono vivere, così come lo voglio anch’io. Li allontano dalle superfici del lavandino con un getto d’acqua. Scendono giù attraverso i tubi, arrivano nelle canalizzazioni sotterranee.

Vado a dormire con i capelli bagnati vicino ai miei miseri tesori: la scatolina di tic tac con i dentini da latte, le foto di quando ero piccolo e i miei genitori erano giovani, la scatola dei fiammiferi con lo spago tagliato dal mio ombelico, il mio diario. Rovescio, come faccio tante volte alla sera, i dentini nel palmo della mano: sassolini levigati, ancora bianchissimi, che una volta sono stati nella mia bocca, con cui un tempo ho mangiato, ho pronunciato parole e ho morso come un cagnolino. Tante volte mi sono chiesto come sarebbe avere da qualche parte un sacchetto di carta con le mie vertebre dell’età di due anni o con le falangi delle mie dita di quando ne avevo sette… Rimetto i denti a posto. Vorrei guardare anche qualche foto, ma non ce la faccio più. Apro il cassetto del comodino e metto tutto dentro, nella scatola di «pelle di serpente» ingiallita, che una volta conteneva un rasoio, un pennello e una confezione di lamette da barba Astor. Ora ci tengo i miei poveri tesori. Mi copro la testa con la trapunta e cerco di addormentarmi quanto più in fretta, se possibile definitivamente. Il cuoio capelluto non mi prude più. Inoltre, visto che è capitato di recente, mi auguro che non capiti anche stanotte.

— Traduzione di Bruno Mazzoni, dal 20 maggio in libreria.

© 2015, Mircea Cărtărescu/Paul Zsolnay Verlag Wien