ARTICOLO n. 31 / 2023
HO LETTO MOLTO, MOLTISSIMO
Intervista di Fabio Bozzato
Poeta, scrittore, traduttore, editore: Michael Krüger ha vissuto per tutta la vita di libri. Per quarantacinque anni è stato l’anima della Carl Hanser Verlag di Monaco, da editore, direttore letterario e amministratore. Alla guida della rivista Akzente ha pubblicato una quantità di autori italiani, primo fra tutti il suo amato Cesare Pavese. Quaranta volumi tra poesia, romanzi, saggi portano la sua firma. Nel 2013, per celebrare la sua lunga carriera è stato insignito del London Book Fair Lifetime Achievement Award. E a marzo di quest’anno, a Venezia, in occasione del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà, promosso dall’Università Ca’ Foscari, ha ricevuto il Premio Cesare De Michelis.
Fabio Bozzato: Partiamo da alcuni ricordi personali, se permette. Oggi siamo dentro un’atmosfera di guerra, come mai l’Europa ha conosciuto negli ultimi 80 anni. Lei ha passato l’infanzia in un paese devastato dalla guerra. Che ricordi ha? Sognava già da bambino di fare lo scrittore?
Michael Krüger: Sono nato durante la guerra, verso la fine del 1943, in un paesino a Sud di Lipsia. Peraltro, Lipsia era la città della Sassonia famosa per la sua fiera del libro e per le sue attività industriali già nel XIX e XVIII secolo. In quel paesino mio nonno aveva una grande fattoria, dove sono nato. Mia madre ha presto raggiunto mio padre a Berlino, dove lavorava all’ufficio postale e là hanno avuto altri tre figli. Io sono rimasto con i miei nonni perché mio padre era sicuro che Berlino prima o poi sarebbe stata bombardata. E così ha pensato che fosse meglio lasciarmi in campagna con i vecchi genitori. Nessuno di loro si immaginava in quel momento che ci sarebbero voluti sei anni per ritrovarci.
Al villaggio erano rimasti quasi tutti anziani, per lo più donne. Gli uomini erano al fronte. Finita la guerra è stata molto dura per i miei nonni. Hanno perso la fattoria, perché era considerata troppo grande per i nuovi funzionari russi, dicevano che le fattorie più grandi di una certa dimensione dovevano essere smantellate. I due vecchi si sono ritrovati praticamente senza soldi. È stato tutto confiscato. I nuovi arrivati trovavano un lavoro solo se iscritti al partito. Ma mio nonno era un contadino con le sue convinzioni e ogni tanto apriva la finestra e urlava. Noi lo riportavamo dentro, «Non farlo, non farlo», gli dicevamo; ma lui era arrabbiato, solo che così rischiava di essere picchiato o arrestato.
Non c’era molto da mangiare, ma trovavamo sempre qualcosa. Andavamo in giro e lui spesso incontrava qualche vecchio amico. E così a volte gli davano un uovo, o trovava quello di cui aveva bisogno, come una lama da rasoio. Non aveva soldi. Comunque, quando ho cominciato a camminare andavo sempre in mezzo alla campagna a passeggiare con lui. In primavera era bellissimo. E d’estate pure. Solo d’inverno era più dura, bisognava trovare abbastanza legna per riscaldare la casa.
F.B. E i libri? Che ricordi ha dei libri?
M.K. Libri non ce n’erano. Avevamo due libri. Una era la Bibbia, una bellissima edizione con le illustrazioni, e l’altra era un libro sulle piante, uno di quei libri che ti spiegano il nome, il tipo e il significato delle piante. Così, nelle passeggiate con il nonno, passavamo tutto il giorno nei campi a raccogliere frutta, semi, funghi. Cercavamo cibo e una volta tornati a casa spulciavamo il libro per sapere che tipo di piante avevamo trovato. Ho avuto un’infanzia tranquilla, sì. Poi, certo, non avevamo nessuna radio, né ovviamente c’era la televisione. L’unica cosa che potevo fare era imparare più o meno a memoria quei libri. La Bibbia in particolare, piena di storie fantastiche. E come si sa, è proprio dalla Bibbia che poi sarebbero usciti tutti i romanzi che conosciamo negli ultimi duemila anni. Ho l’impressione che più o meno tutti i romanzi siano contenuti dentro la Bibbia. La nonna mi leggeva ogni sera un capitolo. A volte era difficile comprendere quelle storie e le domandavo: «come ha fatto Mosè a chiedere al mare di dividere le acque? Come era possibile che il popolo di Israele passasse in mezzo con l’acqua da una parte all’altra?». Allora lei mi spiegava e, a pensarci, le sue spiegazioni sono state davvero una sorta di poetica, di estetica della mia scrittura futura. Lei mi diceva che nella letteratura, nel pensiero e nell’immaginazione, è possibile dire al mare di andarsene. Sono stato con loro fino ai sei anni, poi ho raggiunto i miei a Berlino e ho cominciato andare a scuola.
F.B. E là ha scoperto la lettura
M.K. Ho letto molto, moltissimo. A Berlino vivevamo in un appartamento, i miei genitori, due fratelli e una sorella maggiori. E io parlavo un buffo dialetto della Sassonia, che era strano a Berlino e non si poteva sentire. Era lo stesso dialetto che parlavano i governanti della Germania Est, Walter Ulbricht e Wilhelm Pieck. Io ero molto solo e leggevo, ma tutto sommato stavo bene. Quando sono arrivato alla maturità, mio padre mi ha detto: «potresti studiare filosofia». È che mi aveva visto leggere Aristotele. Ma io, il giorno dopo che la scuola mi ha consegnato i documenti, ho deciso di diventare tipografo. Così ho cercato un posto dove imparare a stampare. A quel tempo avevamo ancora le vecchie macchine, sì, era il ’61 e c’erano quelle vecchie macchine tipografiche e così ho imparato davvero a mettere insieme una pagina, un libro e così via. È stato un periodo molto interessante della mia vita. Nel frattempo, andavo in una casa editrice e l’ha ho appreso a organizzare il lavoro con i libri. Ho lavorato così per due anni e mezzo e poi sono andato a Londra da un libraio. A quel punto dovevo trovare un modo per guadagnarmi da vivere e così ho cominciato a scrivere, scrivevo recensioni per dei giornali. Nel ’68 ero editor di un annuario letterario e incontravo molti scrittori, con cui parlavo di letteratura, poesia, estetica. E alla fine mi son detto: «scriverò io stesso». Ho aspettato un po’ prima di pubblicare qualcosa, avrò avuto una trentina d’anni. Ora sono un uomo anziano e continuo a scrivere.
F.B. Lei è uno scrittore-editore. Quanto cambia lo sguardo di un editore che è anche scrittore rispetto a un editore-editore? Come guarda la letteratura degli altri?
M.K. Prima di tutto, chiediamoci: perché un editore non dovrebbe essere uno scrittore? Abbiamo avuto ottimi esempi. In Italia penso al mio buon vecchio amico Roberto Calasso. E così, l’altro mio amico Umberto Eco è stato un ottimo editore con Bompiani. Ricordiamoci che T.S Eliot, uno dei più grandi poeti, dirigeva anche una delle grandi case editrici di Londra, Faber and Faber. Quindi è possibile. Certo, non ho mai pubblicato le mie cose nella casa editrice dove lavoravo. Peraltro non sono mai stato proprietario di una casa editrice tutta mia, ero pagato per fare l’editore. Per Roberto Calasso era diverso, il suo lavoro di scrittore rientrava nel suo progetto. Nel mio caso ho sempre pensato che dovessero essere gli altri a pubblicare le mie cose, sennò qualcuno può pensare che la cosa puzzi un po’ disonesta. E comunque il modo di vedere il tuo lavoro cambia se lo sguardo è esterno, ma la logica è sempre la stessa: è il tentativo di aggiungere un libro in più a tutti gli altri libri esistenti. Ed è strano, perché già ci sono molti libri buoni e molti libri fantastici. Dunque, come editore di trovi a pensare che sei nella perfetta condizione di poterne aggiungere un altro. A dire il vero, è anche un pensiero un po’ egoista. Ma io ho sempre trovato un nuovo libro da pubblicare. E continuo a farlo. Pubblico, pubblico, pubblico e scrivo e nel frattempo invecchio. Credo che forse anche sul letto di morte, scriverò le righe di un nuovo libro.
F.B. Lei ha pubblicato anche molta poesia. In un’intervista ha detto: «è una cosa non negoziabile». Cosa significa pubblicare poesia?
M.K. Ho sempre amato pubblicare poesie, nessun’altra grande casa editrice ne ha pubblicate così tante. Ogni anno pubblico dieci, quindici libri di poesia e sempre gli addetti alle vendite mi dicono: «buon Dio, Michael, perché pubblichi tutto questo? Dai poeti non possiamo ricavarne un soldo». Eppure, tutti questi poeti, dopo dieci anni, hanno ricevuto grandi premi, compreso il Nobel. Quindi la mia lista di poesie nel suo complesso ha avuto un gran successo, penso a Iosif Brodsky a Seamus Heaney. Penso che la poesia sia una delle parti principali del mio lavoro. Penso a quanta poesia italiana abbiamo pubblicato, soprattutto i grandi poeti italiani, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Dino Campana, ma anche i poeti più giovani come Valerio Magrelli e così via. Quindi sì, amo la poesia e penso che la poesia sia la più interessante tra le forme letterarie, è la sfida più interessante per scrivere qualcosa di nuovo.
F.B. Perché la poesia può essere uno strumento così importante per la contemporaneità?
M.K. In realtà la poesia non è molto accettata come modo di pensare, guardare il mondo, affrontare il mondo. La poesia non ha davvero una grande reputazione in questo mondo. Succede ovunque, che sia in America, Italia o Germania: ci sono sempre 2430 persone interessate alla poesia, non di più. A volte uno di questi poeti ottiene un grande premio e allora entra nelle librerie e nelle biblioteche. Ma è guardando indietro, a tutta la storia della poesia, che ci si accorge come tutti i grandi poeti siano sopravvissuti molto più degli scrittori di prosa, anche i più famosi. E così alla fine penso che la poesia sia una tartaruga e la prosa una lepre molto veloce. La tartaruga è lenta, ma quando arriva all’obiettivo, è molto più felice e molto più rispettata di tutte le altre. Perché? Credo sia una questione di forma: nella poesia, in quella piccola scatola di parole, puoi trovare tutto il mondo, se sei fortunato a trovarlo. Lo capisci, ad esempio, se pensi a Ungaretti col suo famoso «M’illumino d’immenso»: due righe, sai che quelle due righe faranno per sempre parte della letteratura. «M’illumino d’immenso»: è enormemente più di 800 pagine di un qualsiasi romanzo borghese.
F.B. Eppure siamo un paese strano, ci vantiamo della nostra storia della poesia ma non ci sono programmi che supportino i giovani poeti né i traduttori, né li promuoviamo all’estero. La poesia sembra cristallizzata nel passato.
M.K. L’esperienza americana è molto diversa. In ogni college trovi una cattedra o un docente di poesia, lui stesso poeta. Così i poeti possono insegnare, avere uno stipendio e continuare a scrivere. E averli fa parte della qualità e della reputazione dell’università che li assume. Così fanno tutti i miei amici americani, così hanno fatto John Ashbery al Bard College, Adam Zagajewski a Chicago, Charles Simic alla Northwestern. Quindi tutti avevano un lavoro e i college erano orgogliosi di avere questi poeti come insegnanti. L’ultima statunitense vincitrice del premio Nobel, Louise Glück, ha insegnato ad Harvard, cioè il luogo più prestigioso che può sognare un docente. Dimostrano che sì, puoi vivere di quello. Questa è una situazione, diciamo, molto di lusso. Non ce l’abbiamo qui in Germania. Certo, a volte ci sono lezioni di poesia all’università, lo faccio anch’io ed è così interessante parlare con i giovani.
Tuttavia, penso anche che se nessuno è veramente interessato alla poesia, non ha senso costringere la gente a leggerla. Penso che quel piacere lo devi trovare da solo o sei perso. E posso solo dirlo ai più giovani: senza poesia, la tua vita è molto più povera. Se non mi credi, se non credi a questo segreto che ti sto raccontando, non ti posso costringere. Ma se ti piace, probabilmente avrai un’idea un po’ più chiara di quello che sta succedendo in questo nostro mondo.
F.B. E in questo nostro mondo, mai come ora si scrive e si pubblica così tanto…
M.K. Da quando abbiamo cominciato a sfornare tutti questi programmi educativi, del tipo “come essere uno scrittore”, ci ritroviamo un sacco di libri, a volte interessanti ma non certo affascinanti. E così tutti pubblichiamo centinaia di nuovi libri. Ma a ben vedere, secondo me, la pubblicazione di tutto questo nuovo materiale sembra il tentativo di dare risposte al nostro stare al mondo, ma ha poco a che fare con l’arte. Non sono libri scientifici, non è buona letteratura. A me questa cosa non è mai piaciuta. Probabilmente può suonare un po’ snob, ma a me sono sempre interessati lo stile e le idee. Sappiamo che senza arte ci troveremo in grosse difficoltà. D’altra parte, si dice che l’arte e la letteratura devono essere accessibili, semplici semplici, e quando si presentano difficili significa che non sono buone. Ecco, per me invece, quando una cosa mi si presenta difficile è meraviglioso. Quindi, che dire? Non dobbiamo per forza leggere dalla mattina alla sera per essere persone gentili e istruite, ma dobbiamo sapere cosa leggiamo.
F.B. In una intervista lei hai detto che «per essere editore devi essere psicologo, imprenditore, lettore e amico allo stesso tempo». Quindi cosa significa oggi essere un buon editore?
M.K. È un’ottima domanda che dovremmo farci. In realtà nessuno ti insegna a essere un editore, puoi solo fare del tuo meglio. E forse solo alla fine puoi scoprire se sei stato un Calasso, un Bompiani, un Garzanti o un Einaudi. Quindi, dal momento che non puoi saperlo, devi avere molti lectores intorno a te, perché non puoi fare tutto da solo. Devi avere persone che stanno imparando altre lingue o che parlano lingue che tu non conosci. Devi avere uno psicologo in azienda. Devi avere a fianco un ottimo uomo d’affari: un editore vuole spendere i soldi, pagare gli autori, ma ci vuole uno che ti dica: «cosa spendi se non ci sono abbastanza soldi?». E poi devi avere degli ottimi addetti alle vendite che seguano le tue idee: per me, è sempre stato importante avere un meraviglioso settore vendite, gestito – detto entre-nous – quasi sempre da donne.
Quando sono in una città straniera, entro sempre in una libreria. Guardo cosa c’è in vetrina, cosa c’è sul tavolo o le raccomandazioni appese alla parete. E mi chiedo sempre: «perché? Come si arriva a questo?». La risposta è che è necessariamente un lungo lavoro di squadra. Persino Calasso, che era così presente tra i suoi libri, anche lui aveva una squadra, aveva bisogno di ascoltare tutti, discutere e scegliere.
Certo, da Giulio Einaudi era molto visibile, dietro ai suoi capelli bianchi c’erano Natalia Ginzburg, Elio Vittorini, Italo Calvino. Erano il cuore della Einaudi, editor coltissimi, che sapevano davvero leggere. È vero che ora c’è un nuovo tipo di editor, che annusa solo e annusa solo il successo e poi pubblica. No, un editor deve saper leggere attentamente e deve essere molto, molto colto. Penso a uno come Bobi Bazlen a Trieste, che ha il merito di aver portato la letteratura tedesca dopo la guerra in Italia. Ecco, lui è un vero esempio di editore.