Martin Scorsese

ARTICOLO n. 11 / 2021

Il Maestro Fellini

TRADUZIONE DI CAMILLA PIERETTI

EST. 8th STREET – TARDO POMERIGGIO (ca. 1959)

CAMERA IN MOVIMENTO CONTINUO alla spalla di un giovane di neanche vent’anni, che procede assorto verso ovest lungo una strada trafficata del Greenwich Village.

Sotto un braccio porta dei libri, nell’altra mano ha una copia di The Village Voice.

Cammina rapido, superando uomini con cappotti e cappelli, donne con il capo coperto da foulard intente a spingere carrelli portaspesa, coppie che si tengono per mano e poeti e spacciatori e musicisti e barboni ubriachi e drugstore, liquorerie, gastronomie, palazzi.

Il giovane però punta a una cosa sola: l’ingresso dell’Art Theatre, dove danno Ombre di John Cassavetes e I cugini di Claude Chabrol.

Se lo annota mentalmente e attraversa la Fifth Avenue sempre diretto a ovest, oltrepassando librerie e negozi di dischi e studi di registrazione e negozi di scarpe, fino ad arrivare all’8th Street Playhouse: Quando volano le cicogne e Hiroshima Mon Amour, mentre Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard è tra i prossimi arrivi!

Restiamo su di lui mentre gira a sinistra sulla Sixth Avenue, facendosi strada rapido oltre ristoranti, altre rivendite di alcolici, edicole e un negozio di sigari, e attraversa la strada per vedere da vicino l’ingresso del Waverly: Cenere e diamanti.

Taglia a est sulla 4th Street, passando davanti al Kettle of Fish e alla Judson Memorial Curch sul lato sud di Washington Square, dove un uomo dall’abito consunto distribuisce volantini: introdotto da un’Anita Ekberg impellicciata, La dolce vita verrà trasmesso in un vero cinema di Broadway, con posti a prenotazione obbligatoria in vendita a prezzi da Broadway!

Il giovane scende lungo LaGuardia Place fino a Bleecker Street, oltre il Village Gate e Bitter End fino al Bleecker Street Cinema, che trasmette Come in uno specchio, Tirate sul pianista e L’amore a vent’anni, mentre La Notte è rimandato per il terzo mese di seguito!

Si mette in coda per il film di Truffault, apre la sua copia di The Voice alla sezione cinema, e una lunga fila di titoli si stacca dalla pagina e comincia a vorticargli intorno: Luci d’invernoDiario di un ladroThe Third LoverThe Hand in the Trap… le proiezioni di Andy Wharol… Porci, geishe e marinai… Kenneth Anger e Stan Brakhage agli Anthology Film Archives… Lo spione… e, in mezzo a tutto questo, a caratteri più grandi degli altri: Joseph E. Levine presenta 8½ di Federico Fellini!

Mentre è intento a leggere, L’INQUADRATURA SI SPOSTA SOPRA DI LUI e alla folla in attesa, come spinta dall’onda del loro entusiasmo.

Avanti veloce fino al giorno d’oggi, in cui l’arte del cinema viene sistematicamente messa all’angolo, svalutata, sminuita e ridotta al suo minimo denominatore comune, il “contenuto”.

Appena quindici anni fa, il termine “contenuto” veniva usato solo quando si parlava di cinema a livello molto tecnico, in opposizione alla “forma”. Poi, a poco a poco, ha cominciato a essere impiegato sempre più spesso dai nuovi dirigenti delle aziende di telecomunicazioni, molti dei quali non sapevano nulla della storia di questa forma d’arte e non se ne curavano abbastanza da volerlo sapere. Il “contenuto” è diventato parte del lessico aziendale per riferirsi a qualunque immagine in movimento: un film di David Lean, un video di gattini, uno spot del Super Bowl, un sequel sui supereroi, l’episodio di una serie. Il tutto, ovviamente, riferito non alla visione nelle sale ma da casa, sulle piattaforme in streaming che hanno finito per soppiantare l’esperienza di andare al cinema, così come Amazon ha soppiantato i classici negozi. Da un lato, questa evoluzione è stata positiva per i cineasti, me incluso. Dall’altro, ha dato origine a una situazione in cui lo spettatore vede tutto sullo stesso piano, cosa che può sembrare molto democratica ma non lo è. Se i suggerimenti su cosa guardare vengono da un algoritmo che si basa su ciò che si è già visto, quindi unicamente su soggetto o genere, che effetti potranno mai avere sull’arte del cinema?

Le curatele non sono antidemocratiche o “elitiste”, termine ormai talmente abusato da aver perso qualunque significato. Al contrario, sono un atto di generosità, la condivisione di qualcosa che piace e che ispira (le migliori piattaforme di streaming, come Criterion Channel o MUBI, e le emittenti tradizionali come TCM si rifanno alle curatele, per cui ogni contenuto è selezionato con cura). Gli algoritmi invece, per definizione, si basano su calcoli che trattano lo spettatore come un semplice consumatore, niente di più.

Le scelte fatte da distributori come Amos Vogel di Grove Press negli anni Sessanta non erano atti di semplice generosità ma, spesso, anche di coraggio. Dan Talbot, espositore e programmatore, fondò la New Yorker Films per poter distribuire una pellicola che amava: Prima della rivoluzione di Bertolucci… insomma, non proprio una scommessa sicura. I film che arrivarono negli Stati Uniti grazie all’iniziativa di questi e altri distributori, curatori ed espositori portarono alla nascita di un movimento straordinario. Le circostanze che resero possibile quel momento sono ormai sfumate per sempre, dalla predominanza dell’esperienza nelle sale alla trepidazione condivisa per le tante possibilità offerte dal cinema. È per questo che torno spesso su quegli anni. Mi ritengo fortunato a essere stato giovane, vivo e aperto a tutto ciò che succedeva in quel periodo. Il cinema è sempre stato molto più che contenuto, e lo sarà sempre: gli anni in cui spuntavano film da ogni parte del mondo, dialogando l’un l’altro e ridefinendo l’arte cinematografica da una settimana per l’altra, ne sono la prova.

In sostanza, quegli artisti si trovavano continuamente alle prese con la domanda: «Che cos’è il cinema?», che si ripresentava ad ogni nuovo film. Nessuno lavorava isolato, anzi, sembrava che si rispondessero l’un l’altro, alimentandosi a vicenda. Godard e Bertolucci e Antonioni e Bergman e Imamura e Ray e Cassavetes e Kubrick e Varda e Wharol reinventavano il cinema ad ogni nuovo movimento della macchina da presa e ogni nuovo ciak, mentre registi già più affermati come Welles e Bresson e Huston e Visconti attinsero nuove energie dall’impennata di creatività attorno a loro.

Al centro di tutto questo c’era un regista che tutti conoscevano, un artista il cui nome era sinonimo di cinema e di ciò che il cinema poteva fare. Un nome che evocava immediatamente un certo stile, un certo atteggiamento nei confronti del mondo, al punto da essersi trasformato in un aggettivo. Poniamo che si volesse descrivere l’atmosfera surreale di una cena, un matrimonio, un funerale o un congresso politico, o, se è per quello, la follia dell’intero pianeta: bastava usare la parola “felliniano” e la gente capiva subito di cosa si stava parlando.

Negli anni Sessanta, Federico Fellini divenne ben più di un regista. Come Chaplin e Picasso e i Beatles, era un uomo che trascendeva la sua arte. A un certo punto, non fu più questione di questo o quel film, ma di tutte le sue opere combinate a tracciarne le gesta nella galassia. Andare a vedere un film di Fellini era come ammirare la Callas cantare, Olivier recitare o Nureyev danzare. Si arrivò al punto che i titoli cominciarono a includere il suo nome: Fellini Satyricon, Il Casanova di Fellini. L’unico che reggeva il confronto nel settore era Hitchcock, che però era un’altra cosa ancora: un marchio, un genere a sé e per sé. Fellini era il maestro del cinema.

Ormai sono trascorsi quasi trent’anni dalla sua scomparsa. Il periodo in cui la sua influenza sembrava permeare ogni aspetto della cultura è ormai passato. Ecco perché il cofanetto messo insieme da Criterion Channel lo scorso anno per il centenario della sua nascita, Essential Fellini, è più che gradito.

Fellini arrivò a padroneggiare completamente la forma visiva nel 1963 con , film in cui la macchina da presa si libra, aleggia e si innalza tra scenari interiori ed esteriori, secondo gli umori altalenanti e i pensieri segreti dell’alter ego di Fellini, Guido, interpretato da Marcello Mastroianni. Mi capita di guardare dei pezzi di quell’opera, su cui sono tornato più volte di quante sia in grado di contarne, e di trovarmi ancora a chiedermi: Come avrà fatto? Com’è possibile che ogni movimento, ogni gesto, ogni refolo d’aria sembrino inserirsi perfettamente al loro posto? Com’è che tutto pare prodigioso e inevitabile, come in un sogno? Com’è possibile che ogni movimento sia così denso di inesprimibile desiderio?

In questo contesto, il suono svolge una funzione fondamentale. Fellini sapeva essere creativo con il sonoro quanto lo era con le immagini. Il cinema italiano ha una lunga tradizione di doppiaggio, iniziata sotto Mussolini, il quale decretò che tutti i film importati da altri paesi dovessero essere doppiati. In molti film italiani, quindi, persino tra i più celebri, il divario tra sonoro e labiale può risultare spiazzante. Fellini sapeva usare questo spaesamento come uno strumento espressivo. Il suono e le immagini, nei suoi film, cozzano e si amplificano l’un l’altro, in modo tale che l’intera esperienza cinematografica si articola come un brano musicale, o come una lunga pergamena che si srotola. Oggi, la gente si lascia affascinare dalle ultime tecnologie e da quello che sono in grado di fare, ma non sono le telecamere digitali leggere e le tecniche di postproduzione come lo stitching e il morphing a fare il film: dipende tutto dalle scelte compiute nella realizzazione della pellicola nel suo insieme. Per i grandi artisti come Fellini, nessun elemento è mai insignificante: tutto ha una sua importanza. Sono sicuro che le telecamere digitali sarebbero state per lui un’esaltante novità, ma non avrebbero influito sul rigore e sulla precisione delle sue scelte estetiche.

È importante ricordare che Fellini iniziò dal neorealismo: cosa particolarmente interessante se si considera che, per molti versi, ha finito per rappresentare l’esatto opposto. In realtà, è stato proprio tra gli inventori del movimento, in collaborazione con il suo mentore Roberto Rossellini. Quel momento riesce ancora a sorprendermi: è stato una fonte di ispirazione talmente importante per il cinema, che dubito che gli anni Cinquanta e sessanta sarebbero stati animati dalla stessa creatività e dalle stesse sperimentazioni, senza il realismo da cui partire. Più che di un movimento, si è trattato di un gruppo di cineasti che hanno reagito a un periodo inimmaginabile nella vita della propria nazione. Dopo vent’anni di fascismo, dopo tanta crudeltà, terrore e distruzione, in che modo si poteva andare avanti, come individui e come paese? I film di Rossellini e De Sica e Visconti e Zavattini e Fellini e altri, film in cui estetica, moralità e spiritualità erano così legate le une alle altre da risultare indistinguibili, hanno svolto un ruolo fondamentale nel redimere l’Italia agli occhi del mondo.

Fellini è stato coautore di Roma, città aperta e Paisà (per il quale pare che, mentre Rossellini era malato, abbia anche diretto qualche scena dell’episodio di Firenze), oltre ad aver partecipato alla stesura e alla recitazione del Miracolo. Il suo percorso artistico si è chiaramente discosto molto presto da quello di Rossellini, ma i due hanno sempre mantenuto un grande rispetto e affetto reciproco. Un giorno, poi, Fellini fece un’osservazione particolarmente acuta: che quello che la gente descriveva come neorealismo in realtà esisteva davvero soltanto nei film di Rossellini. Al di là di Ladri di biciclette, Umberto D. e La terra trema, credo che Fellini intendesse dire che Rossellini era l’unico ad avere una fiducia così profonda e duratura nella semplicità e nell’umanità, l’unico a lavorare in modo da lasciare che fosse la vita stessa a raccontare quanto più possibile la propria storia. Fellini, al contrario, era uno stilista e un affabulatore, un mago e un cantastorie, ma le basi di etica e di esperienza vissuta che ricevette da Rossellini furono essenziali per lo spirito dei suoi film.

Entrato nella maggiore età proprio mentre Fellini raggiungeva la sua maturità di artista, ho sempre avuto un particolare riguardo per le sue opere. Vidi La strada, la storia di una povera giovane venduta a un forzuto e brutale saltimbanco, quando avevo circa tredici anni e ne rimasi particolarmente colpito. Pur ambientata nell’Italia del dopoguerra, la pellicola si svolgeva come una ballata medievale, se non addirittura qualcosa di precedente, un’emanazione del mondo antico. Lo stesso si può dire della Dolce vita, che però era un panorama, uno spaccato di vita moderna e scissione spirituale. La strada, uscito nel 1954 (e due anni più tardi negli Stati Uniti) è un quadro più piccolo, una favola che ha le sue radici in concetti elementari: terra, cielo, innocenza, crudeltà, devozione, distruzione.

Ai miei occhi, poi, aveva una dimensione aggiunta. Lo vidi per la prima volta insieme alla mia famiglia, alla televisione, e ricordo che per i miei nonni la storia rispecchiava fedelmente le difficoltà che si erano lasciati alle spalle nel vecchio mondo. La strada non ricevette una buona accoglienza in Italia. Alcuni lo considerarono un tradimento del neorealismo (metro di giudizio per molti film italiani dell’epoca), e suppongo che molti spettatori locali abbiano trovato strana l’idea di presentare una storia così dura come se fosse una fiaba. Nel resto del mondo, però, ebbe un successo straordinario, dando a Fellini la notorietà internazionale. Era la pellicola su cui sembrava aver lavorato e sofferto di più: la sceneggiatura era talmente dettagliata da raggiungere le seicento pagine e, verso la fine di una produzione davvero complessa, il regista ebbe un esaurimento nervoso e dovette sottoporsi alla prima (credo) di numerose sessioni di psicanalisi per poter terminare le riprese. Fu anche il film che, per il resto della sua vita, considerò a lui più caro.

Le notti di Cabiria, una serie di episodi fantastici nella vita di una prostituta romana (fonte di ispirazione per il musical di Broadway e film di Bob Fosse Sweet Charity), ne consolidò la reputazione. Come tutti, lo trovai emotivamente travolgente. Ma la grande rivelazione successiva fu La dolce vita. Vederlo appena uscì, in una sala completamente gremita, fu un’esperienza indimenticabile. La dolce vita arrivò negli Stati Uniti nel 1961, tramite la Astor Pictures, e fu trasmesso come evento speciale in un vero cinema di Broadway, con biglietti costosi e posti numerati, da prenotare via posta: il tipo di attenzioni generalmente riservate a leggendarie pellicole a sfondo biblico come Ben Hur. Prendemmo posto, le luci si spensero e, nel guardare questo maestoso, tremendo affresco cinematografico dipanarsi sullo schermo, tutti provammo la sensazione scioccante del riconoscimento. Di fronte a noi c’era un artista che era riuscito a esprimere l’ansia dell’era nucleare, la sensazione che nulla avesse più importanza perché tutto e tutti avrebbero potuto essere annientati in qualsiasi momento. Oltre allo shock, però, percepimmo anche l’euforia suscitata dall’amore di Fellini per l’arte del cinema e, di conseguenza, per la vita stessa. Qualcosa del genere si stava verificando anche nel rock and roll, con i primi album elettronici di Dylan e poi con The White Album e Let It Bleed: pur parlando di ansia e disperazione, erano esperienze elettrizzanti, trascendenti.

Quando presentammo la versione restaurata della Dolce vita a Roma, dieci anni fa, Bertolucci insistette per presenziare. Allora già faticava ad andare in giro, perché era costretto in sedia a rotelle e in preda a incessanti dolori, ma disse che non se la poteva perdere. Al termine della proiezione, mi confessò che La dolce vita era la ragione per cui aveva cominciato a fare cinema. Ne fui sinceramente sorpreso, perché non me ne aveva mai parlato prima. Ma, in fondo, non c’era niente di cui meravigliarsi. Quel film era stata un’esperienza galvanizzante, che aveva scosso un’intera cultura.

Le due opere di Fellini che mi hanno influenzato di più, quelle che mi hanno davvero segnato, sono state I vitelloni e . I vitelloni perché ha saputo cogliere qualcosa di così reale e prezioso da ricollegarsi alla mia personale esperienza; perché ha ridefinito la mia idea di cinema, di cosa fosse e di dove potesse portare.

I vitelloni, uscito nel 1953 in Italia e tre anni più tardi negli Stati Uniti, è il terzo film di Fellini, ma il primo di un certo rilievo. È anche una delle sue opere più personali. Composto da una serie di scene, racconta le vite di cinque amici sulla ventina a Rimini, città dove Fellini è cresciuto: Alberto, interpretato dal grande Alberto Sordi; Leopoldo, interpretato da Leopoldo Trieste; Moraldo, l’alter ego di Fellini, interpretato da Franco Interlenghi; Riccardo, interpretato dal fratello di Fellini; Fausto, interpretato da Franco Fabrizi. I cinque trascorrono le giornate a giocare a biliardo, fare la corte alle ragazze e andarsene a spasso prendendo in giro chiunque incontrino. Tutti sono animati da grandi sogni e progetti. Si comportano come bambini e i genitori li trattano di conseguenza. E la vita va avanti.

Io mi sentivo come se li conoscessi, quei ragazzi, come se facessero parte della mia vita, del mio quartiere. Riconoscevo addirittura parte del loro linguaggio del corpo, del loro umorismo. Anzi, a un certo punto sono stato uno di loro. Capivo cosa provava Moraldo, la sua voglia disperata di andarsene. Fellini riusciva a rappresentare tutto in maniera così perfetta: l’immaturità, la vanità, la noia, la tristezza, la ricerca della prossima distrazione, del prossimo picco di euforia. Era in grado di trasmettere il calore, il cameratismo, le battute, ma anche la tristezza e la disperazione che nascondevano, tutto in un colpo. I vitelloni è una pellicola dolceamara e dolorosamente lirica, che ha svolto un ruolo decisivo nella genesi di Mean Streets. È un grande film sulla propria città natia. Qualunque essa sia.

Per quanto riguarda ,tutti quelli che conoscevo e che cercavano di fare film, all’epoca, avevano una loro pietra miliare, un termine di paragone. Per me era, ed è ancora, .

Cosa si fa dopo aver prodotto una pellicola dal successo travolgente come La dolce vita? Tutti pendono dalle tue labbra, in attesa di scoprire quale sarà il tuo prossimo passo. Un po’ come è successo a Dylan a metà degli anni Sessanta, dopo l’uscita di Blonde on Blonde. Fellini e Dylan erano nella stessa situazione: avevano raggiunto ampie schiere di persone, e tutti pensavano di conoscerli, di capirli e, spesso, di avere dei diritti su di loro. Insomma, era una pressione continua. Pressione dal pubblico, dai fan, dai critici e dai nemici (dove nemici e fan spesso sembrano essere una cosa sola). Pressione per produrre ancora. Pressione per andare avanti. Pressione da se stessi, su se stessi.

Per Fellini, come per Dylan, la risposta fu l’introspezione. Dylan cercava la semplicità, nel senso spirituale attribuitole da Thomas Merton e, dopo il suo incidente in moto, la trovò a Woodstock, dove registrò The Basement Tapes e scrisse i brani di John Wesley Harding.

Fellini partì invece dalla propria situazione dei primi anni Sessanta, girando un film sulla sua crisi artistica. Così facendo, intraprese una pericolosa spedizione in un territorio ancora inesplorato: quello del suo mondo interiore. Il suo alter ego, Guido, è un celebre regista, affetto dall’equivalente cinematografico del blocco dello scrittore e in cerca di un rifugio, di pace e di una guida, come artista e come essere umano. Recatosi in una lussuosa stazione termale per sottoporsi a una “cura”, viene presto assediato dall’amante, dalla moglie, dall’ansioso produttore, dai potenziali attori, dalla troupe e da un’eterogenea processione di ammiratori, parassiti e di altri frequentatori delle terme. Tra loro vi è un critico, il quale afferma che la nuova sceneggiatura «manca di un conflitto centrale o di una premessa filosofica» e si riduce a «una serie di episodi ingiustificati». La pressione aumenta, ricordi di bambino, desideri e fantasie arrivano inattesi ad animare i suoi giorni e le sue notti e lui attende la sua musa ─ che va e viene, eterea, nella persona di Claudia Cardinale ─ per «mettere ordine».

è un arazzo intessuto con i sogni di Fellini. Come in un sogno, tutto sembra solido e ben definito da un lato, ma evanescente ed effimero dall’altro: il tono continua a cambiare, talvolta anche bruscamente. Il flusso di coscienza visivo che si viene a creare mantiene lo spettatore in uno stato di allerta e di sorpresa, in una forma che va ridefinendosi di continuo, man mano che il film va avanti. È come guardare Fellini girare il film davanti ai propri occhi, perché la struttura è il processo creativo stesso. Molti altri registi hanno provato a fare qualcosa sulla stessa linea, ma credo che nessuno sia mai riuscito a ottenere ciò che Fellini è riuscito a fare qui. Solo lui ha avuto l’audacia e la fiducia in sé necessarie per giocare con ogni strumento creativo, per sfruttare la plasticità delle immagini al punto che tutto pare esistere a un livello inconscio. Anche le inquadrature apparentemente più neutre, se esaminate più da vicino, rivelano un qualche elemento della luce o della composizione che spiazza, che in qualche modo è permeato dalla coscienza di Guido. Dopo un po’ uno smette di cercare di capire dov’è, se si tratta di un sogno, di un flashback o della semplice realtà. Vuole solo continuare a perdersi e a vagare con Fellini, arrendendosi all’autorità del suo stile.

La pellicola raggiunge un picco di creatività nella scena in cui Guido incontra il cardinale alle terme, un viaggio in un mondo sotterraneo alla ricerca di un oracolo, un ritorno all’argilla da cui siamo stati plasmati. Come in tutto il resto del film, la macchina da presa è in movimento, irrequieta, ipnotica, si libra nell’aria come se stesse andando incontro a qualcosa di inevitabile e rivelatore. Man mano che Guido scende nei sotterranei vediamo, dal suo punto di vista, una serie di persone che gli vanno incontro, chi consigliandolo su come ingraziarsi il cardinale, chi chiedendogli qualche favore. Entrato in un’anticamera piena di vapore, egli si avvicina all’alto prelato, i cui assistenti lo coprono con un telo di mussola mentre si sveste, lasciandone intravedere soltanto l’ombra. Guido rivela al cardinale di non essere felice e questi risponde semplicemente, memorabilmente: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?». Ogni sequenza di questa scena, ogni parte dell’allestimento e della coreografia tra attori e macchina da presa è straordinariamente complessa. Non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere stata difficile da realizzare. Sullo schermo, si svolge tutto con tale leggerezza da sembrare la cosa più facile del mondo. Per me, l’udienza con il cardinale è l’emblema di un’importante verità su : Fellini ha fatto un film a proposito di un film che poteva esistere solo come film e nient’altro. Non come un brano musicale, né come un romanzo, una poesia, una danza: poteva essere solo un’opera cinematografica.

L’uscita di scatenò dispute senza fine, tanto era il suo effetto drammatico. Ognuno di noi aveva una sua interpretazione e facevamo le ore piccole a discuterne, a sviscerarne ogni scena, ogni secondo. Ovviamente, non raggiungemmo mai un’interpretazione definitiva: l’unico modo per spiegare un sogno è seguire una logica onirica. Il film non termina in maniera definita, cosa che infastidì molte persone. Un giorno, Gore Vidal mi ha raccontato di aver detto a Fellini: «Fred, meno sogni la prossima volta, devi raccontare una storia». Ma la mancanza di un finale in è in linea con il resto del film, perché è il processo artistico stesso a non terminare: bisogna andare avanti. E quando si finisce si è spinti a ricominciare, come Sisifo. E, proprio come accadde a Sisifo, presto spingere il masso su per la collina, ancora e ancora, diventa l’obiettivo di una vita.

Il film ebbe un enorme impatto sugli altri registi, fungendo da fonte di ispirazione per Il mondo di Alex di Paul Mazursky, in cui Fellini interpreta se stesso, Stardust Memories di Woody Allen e All That Jazz di Fosse, per non parlare del musical di Broadway Nine. Come ho già detto, ho perso il conto del numero di volte in cui ho visto e non sto nemmeno a dire in quanti modi mi abbia influenzato. Fellini ci ha mostrato cosa volesse dire essere un artista, soggetto all’impellente bisogno di creare arte. è la più pura espressione di amore per il cinema che io conosca.

Andare avanti dopo La dolce vita? Difficile. Andare avanti dopo ? Non riesco nemmeno a pensarci. Con Toby Dammit, un mediometraggio ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe (nonché terza e ultima parte del film collettivo Tre passi nel delirio), Fellini portò il suo immaginario allucinatorio a un livello di raffinatezza estrema. La pellicola è una viscerale discesa negli inferi. In Fellini Satyricon, invece, creò qualcosa di mai visto prima: un affresco del mondo antico, un «saggio di fantascienza del passato», come lui stesso lo ha definito. Amarcord, film semi-autobiografico ambientato nella Rimini dell’era fascista, è oggi una delle sue opere più amate (per esempio, è tra i preferiti di Hou Hsiao-hsien), pur essendo molto meno coraggiosa delle pellicole precedenti. Eppure, è comunque un’opera ricca di punti di vista straordinari (personalmente sono rimasto affascinato dall’ammirazione che Italo Calvino provava per questo film in qualità di ritratto della vita nell’Italia di Mussolini, cosa a cui io non avevo pensato). Dopo Amarcord, ogni film contiene qualche frammento di genio, ma mai quanto Il Casanova di Fellini. Opera glaciale, più fredda dell’ultimo dei gironi infernali danteschi, è un’esperienza straordinaria, delineata con uno stile audace, ma davvero sinistra. Una pellicola che parve segnare una svolta nella carriera del regista. A dire il vero, la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni ottanta sembrano essere stati un periodo di trasformazione decisivo per molti cineasti in tutto il mondo, me incluso. La sensazione di cameratismo che avevamo provato, vera o immaginaria che fosse, parve dissolversi e ognuno di noi finì per isolarsi nel proprio universo, lottando per mettere insieme il film successivo.

Conoscevo Federico abbastanza da definirlo un amico. Ci incontrammo per la prima volta nel 1970, quando arrivai in Italia con una serie di cortometraggi che avevo selezionato per presentarli a un festival cinematografico. Contattai l’ufficio di Fellini e mi fu concessa una mezz’ora del suo tempo. Fu estremamente affabile e cordiale. Gli confessai che, in quello che era il mio primo viaggio a Roma, avevo tenuto lui e la cappella Sistina per ultimi. Rise. Il suo assistente commentò: «Vedi Federico, sei diventato un noioso monumento!». Lo assicurai che avrebbe potuto essere tutto tranne che noioso. Ricordo anche che gli chiesi dove avrei potuto mangiare una buona lasagna e mi consigliò un ottimo ristorante: conosceva sempre i locali migliori, ovunque andasse.

Diversi anni più tardi mi trasferii a Roma per un periodo e cominciammo a vederci abbastanza spesso. Ci capitava di incontrarci per caso e di pranzare insieme. Fellini era sempre e comunque un uomo di spettacolo, e lo spettacolo non si fermava mai. Guardarlo girare un film era un’esperienza eccezionale. Era come se dirigesse una dozzina di orchestre contemporaneamente. Portai i miei genitori sul set di La città delle donne, dove Fellini schizzava da una parte all’altra a blandire, supplicare, simulare parti, scolpire e sistemare ogni elemento della scena fin nei minimi dettagli, per trasformare la sua visione in realtà in un turbine di movimento inarrestabile. Mentre ci allontanavamo, mio padre disse: «Pensavo che avremmo fatto una foto con Fellini». E io risposi: «Ma l’avete fatta!». Era successo talmente in fretta che non se ne erano neanche accorti.

Negli ultimi anni della sua vita, cercai di aiutarlo a far distribuire La voce della luna negli Stati Uniti. Il film gli aveva causato qualche contrasto con i produttori: loro volevano una tipica stravaganza felliniana, mentre lui girò qualcosa di molto più cupo e meditativo. Nessun distributore osava metterci mano e rimasi davvero scioccato nello scoprire che nessuno, neanche tra i principali cinema indipendenti di New York, era interessato a inserirlo in cartellone. I vecchi film sì, ma non quello nuovo, che si rivelò anche l’ultimo. Qualche tempo dopo, lo aiutai a trovare dei finanziamenti per un documentario che aveva in mente, una serie di ritratti di tutti coloro che collaborano alla realizzazione di un film: gli attori, il direttore della fotografia, il produttore, l’addetto ai sopralluoghi (mi ricordo che, nel canovaccio di quell’episodio, il narratore spiegava che la cosa più importante in assoluto era organizzarsi in modo che i luoghi scelti fossero vicini a qualche buon ristorante). Purtroppo, morì prima di poter avviare il suo progetto. Ricordo l’ultima volta che gli parlai al telefono. Aveva una voce molto flebile, capivo che non gli rimaneva più molto da vivere. Fu triste vedere quell’incredibile energia vitale spegnersi a poco a poco.

Oggi tutto è cambiato: sia il cinema sia l’importanza che riveste nella nostra cultura. Ovviamente, è naturale che artisti del calibro di Godard, Bergman, Kubrick e Fellini, che un tempo regnavano su questa grande forma d’arte come dèi, con il passare del tempo cadano nel dimenticatoio. Tuttavia, non possiamo dare più niente per scontato. Non possiamo fare affidamento sull’industria cinematografica odierna perché si prenda cura del cinema. Nell’industria cinematografica, che oggi è diventata l’industria dell’intrattenimento visivo di massa, l’enfasi è sempre sulla parola «industria» e il valore è determinato dalla quantità di denaro che si riesce a ottenere da una data proprietà. In quel senso, ogni film da Aurora a La strada a 2001: Odissea nello spazio è ormai stato spremuto fino all’ultimo centesimo ed è pronto per finire nella categoria “Film d’autore” sulle piattaforme di streaming. Quelli di noi che conoscono il cinema e la sua storia devono condividere il loro amore e le loro conoscenze con quante più persone possibile. E dobbiamo far capire una volta per tutte agli attuali titolari dei diritti legali su queste pellicole che si tratta di ben più di semplici beni da sfruttare per poi metterli sottochiave. Al contrario, sono tra i più grandi patrimoni della nostra cultura e andrebbero trattati di conseguenza.

Suppongo che dovremmo anche affinare la nostra percezione di cosa è cinema e cosa no. Federico Fellini è un buon punto di partenza. Si possono dire molte cose sui suoi film, ma una cosa è certa: quelli sì che sono cinema. Il suo lavoro è stato fondamentale nel definire questa forma d’arte.

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