ARTICOLO n. 77 / 2024
Di Emanuele Trevi & Mario Trevi
COME CAPITA SPESSO NELLE FAMIGLIE
Pubblichiamo un estratto dalla nuova edizione di Invasioni controllate (Ponte alle Grazie) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Ok, papà, inizia la tortura. La tua proverbiale riservatezza sta per subire un grave attentato. So che diffidi dell’idea di questa conversazione e del resto, in generale, sei una persona molto schiva. Ti definiresti una persona timida? E la timidezza, riveste per te un qualche tipo di interesse psicologico, o è un semplice impedimento, un fatto accidentale?
Entrambe le cose. Mi spiego: la timidezza, un certo eccesso di riservatezza sono indubbiamente un mio difetto. Nello stesso tempo, io provo sempre ad attuare una strategia di utilizzazione dei limiti… che in fondo è già un concetto junghiano, Jung amerebbe parlare di utilizzazione dell’«Ombra». Senti però, prima di andare avanti ti ricordo che ho ottantatré anni, e che la mia memoria non è più quella di una volta, posso fare qualche errore. Non c’è da fidarsi completamente.
Tu sei nato nel 1924, ad Ancona. Senza mai nominarla, Nanni Moretti ci ha ambientato un film, La stanza del figlio, dove lui – guarda le combinazioni! – interpreta molto bene la parte di uno psicologo, forse anche junghiano visto che non usa il lettino. Una volta, passeggiando per Ancona vicino al porto, ho notato su un palazzo una vecchia insegna di marmo, c’era scritto: MATERASSI TREVI. Era la ditta di tuo padre?
No, era una ditta di parenti dei nonni, d’altra parte tutti i Trevi di Ancona erano più o meno parenti. I nonni erano abbastanza ricchi, i tipici rappresentanti della borghesia ebraica di allora, gli anni a cavallo tra Otto e Novecento. Ma la loro sorte è cambiata radicalmente con la Prima Guerra Mondiale. Perché avevano molti affari in Ungheria. A questo proposito, ho un ricordo molto vivido dell’infanzia: ci lasciavano giocare con dei grandi contenitori – quelle casse di vimini che oggi non si fanno più – pieni fino all’orlo di corone ungheresi… che non valevano più nulla! Ci facevamo il gioco della banca, il gioco della posta… La nostra era quella che si dice una buona famiglia: tra gli avi c’è anche, a quanto pare, un famoso rabbino, un commentatore della Torah. Non è che ne sappia molto, però.
Tuo padre non era tanto legato alle tradizioni, visto che ha sposato una cristiana…
Sì, mia madre, tua nonna Bianca, in un certo senso era una perfetta mezzosangue, metà piemontese e metà meridionale. Ma non era ebrea.
Suo padre, mio nonno, veniva da Salerno, era un bravissimo ingegnere ferroviario, faceva cose difficili, come i valichi, le gallerie, le elettrificazioni delle linee più importanti. Aveva lavorato anche a un tratto particolarmente difficile della rete di allora, quello di Porretta, vicino Bologna. E così, andava con la moglie dove lo portava il lavoro. Figurati che mia madre è nata a Sulmona. La casa dei nonni era piena di ricordi, trofei, riconoscimenti…
Parli della casa a Diano d’Alba, nelle Langhe, dove hai passato parte della tua infanzia?
Sì, ci siamo trasferiti in Piemonte da Ancona con la mamma quando mio padre, Giacomo, è partito per il Kenya. Lui aveva preso in Svizzera una specie di laurea – ora non esiste più – in ingegneria tessile, ma era il tipo d’uomo che sapeva fare tutto, strade, case… devo riconoscere che era una persona geniale. Era andato in Kenya con un amico che aveva un’azienda agricola di migliaia e migliaia di ettari, e faceva tutto quello che può fare un ingegnere vero e proprio: abitazioni, strade, ponti. Tra l’altro l’azienda tessile di famiglia, come ti dicevo, non esisteva più, era fallita a causa della guerra. Mia madre si sentiva sola ad Ancona, dopo la partenza di mio padre, e così decise di tornare in Piemonte per stare vicina ai suoi, che tra l’altro iniziavano a invecchiare. Voleva proteggere ed essere protetta. Noi non stavamo proprio a Diano, ma ad Alba, dove io e le mie sorelle saremmo potuti andare al ginnasio e al liceo. A Diano, a casa dei nonni, ci andavamo anche a piedi, sono solo sei chilometri.
Tu sei il più piccolo, entrambe le zie sono nate prima di te…
Sì, abbiamo quattro anni di differenza uno dall’altro: la prima era Mariù, che è morta da poco, poi è venuta Vera, poi io.
Sei nato il 3 di aprile, sei un Ariete. Mi sembra però che, a differenza di molti junghiani, te ne sei sempre infischiato del tuo segno zodiacale…
In effetti, non gli ho mai dato peso. E pensa che Ernst Bernhard, il mio maestro, cercava sempre di stimolare il mio interesse per questa materia. Come molti tedeschi, credeva fermamente nell’astrologia. Aveva anche studiato un po’ il mio quadro astrale, come lo chiamano…
Anche Jung del resto credeva nell’influenza delle stelle…
Sì, lui ci era arrivato studiando il fenomeno della sincronicità. Comunque, mi è anche capitato di frequentare persone che si occupavano di astrologia, voglio dire professionalmente. Dei tratti del carattere che si attribuiscono per tradizione all’Ariete, mi sono riconosciuto particolarmente nella testardaggine, nella tenacia nel perseguire certi obiettivi.
In realtà, tu sei una persona molto metodica. Un ricordo che ho di quando ero piccolo è il rumore della macchina da scrivere che partiva puntualmente alle cinque di mattina…
…mi avrai odiato.
…no, anzi, era un rumore rassicurante, un invito a rigirarsi nel letto, il segnale che l’ora della scuola era ancora lontana.
Per me quelle ore intorno all’alba sono sempre state le più produttive, le uniche in un certo senso. Ancora oggi, mi alzo alle cinque e mi metto a lavorare per un’ora, un’ora e mezzo. Poi mi occupo di altro. Torniamo ai tuoi genitori, se ti va. Da quello che ho intuìto, tuo padre era una persona dal carattere forte, quello che si definisce un volitivo. Giusto?
Sì, la definizione è esatta. Tieni presente che è anche stato molto sfortunato, come tutti coloro che, provenendo da una condizione agiata, a un certo punto si ritrovano praticamente in miseria. Ecco, lui ha reagito a testa bassa, facendosi la sua strada nella vita. Aveva questa incredibile capacità di fare tutto. Mi ricordo per esempio che, quando ero ancora molto piccolo, aveva costruito per un amico una bellissima villa vicino a Foligno. Andavamo spesso lì, a vedere il babbo lavorare. Per noi bambini, faceva dei presepi fantastici, con vere cascate d’acqua! E aveva una prodigiosa facilità per le lingue, che io non ho mai avuto e che lo ha indubbiamente aiutato. In Africa aveva imparato non solo lo swahili, ma anche molti dialetti locali, quelli che si parlavano in tutta la zona che va dal Kenya alla Somalia. Lo aiutava anche il suo carattere molto espansivo, era una persona dalle relazioni facili con il prossimo. Tu hai ereditato questo carattere molto più di me, come spesso capita nelle famiglie.