Mariana Branca

ARTICOLO n. 20 / 2025

MISTY-EYED

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.

(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

By heart, attraverso il cuore, dicono, a memoria, come se la memoria non fosse nella testa, una funzione misteriosa dell’ippocampo, un’attitudine della corteccia cerebrale, come se fosse invece una volontà del cuore, un talento covato nel petto.

Imparare a memoria per salvarci dal vuoto, dal silenzio, per salvarci dal deserto, dallo spazio tutto uguale, dalle forme dai colori che ricopiano se stessi, dal tempo circolare. 

Imparare a memoria per avere qualcosa da portarci appresso quando tutto viene a mancare, quando le pagine da leggere sono finite e persino le notizie del giornale, quando le radio sono tutte spente per ascoltare una canzone.

Imparare a memoria per dar da fare all’ippocampo, impinguare la corteccia cerebrale, per non lasciare tregua al cuore, per allenarsi i muscoli del petto, esercitare il talento di non dimenticare. 

Imparare a memoria io ho cominciato a farlo quando ci siamo trasferiti qui, a Occidente, sulla costa più a ovest del mondo. Ho dovuto farlo, certe cose non si possono tradurre. By heart, per esempio, come avrei potuto dirlo? Certo, mi chiedevo: che c’entra il cuore?, ma poi non mi restava che memorizzarlo, senza farmi troppe domande. Provavo a vedere, a visualizzare le parole che qui a Occidente amano far corrispondere a delle immagini e non il contrario. Me le ripetevo nella testa on my way home, mi ripetevo fino a casa una cantilena di pensieri nuovi, una filastrocca di idee sconosciute, canticchiando, crooning¹ come una very Bobby Soxer² le parole che qui a Occidente devono suonare bene, lasciarti l’eco nelle orecchie per ore e ore. 

Imparare a memoria mio nonno lo faceva con le cose che gli piacevano molto, le storie del deserto di suo nonno che non ha mai conosciuto, la musica lirica e quella country-western di Vernon Dalhart e James Charles Rodgers, le poesie di Bruce Kiskaddon, James William Whilt, Arthur Chapman, i cowboy poets della fine dell’Ottocento.

Là fuori, dove la stretta di mano è un po’ più forte, là fuori dove il sorriso dimora un po’ più a lungo, 
È lì che inizia l’Occidente;
Là fuori, dove il sole è un po’ più luminoso, dove le nevi che cadono sono un po’ più bianche, 
È lì che inizia l’Occidente.
Là fuori, dove soffia una brezza più fresca, dove c’è risata in ogni ruscello che scorre, dove c’è più raccolta e meno semina, 
dove il mondo è in divenire, dove soffrono meno cuori disperati, dove c’è più canto e meno sospiri, 
dove c’è più dare e meno comprare, e un uomo fa amicizia senza nemmeno provarci,
È lì che inizia l’Occidente.³ 

Ripeteva a memoria, mio nonno Arthur che lo chiamavano Chap come Arthur Chapman il cowboy poet, oppure Kit come Kit Hodghins lo sceriffo de Il Piccolo Sceriffo, un fumetto western di cui mio nonno possedeva i centosettantatré numeri della prima serie, i centoventisei della seconda, i cinquantaquattro della serie oro e cinquantaquattro della quarta serie, i quarantotto della quinta, i centocinquantadue della sesta, i cinquantaquattro della serie bianca e i centoquattro dell’ottava serie per un totale di settecentosessantacinque numeri che gli avevamo portato noi, dall’Italia, quando mia madre ha deciso che avremmo avuto un futuro migliore nell’Occidente da dove se ne era andata appena maggiorenne. Mio nonno non si era opposto, non capiva cosa le mancasse là in quell’Ovest lussureggiante, ma le aveva detto che era ok, che poteva andare dove più le piaceva; mia nonna le aveva invece tolto la parola. Per anni, infatti, mia madre ha avuto solo il ricordo della voce di sua madre, diceva che riusciva a immaginarla, a sentirla nitidamente, che certi suoni si imparano a memoria. Aveva imparato by heart la voce di sua madre. 

Quando siamo tornati in Occidente, però, mia nonna era morta da qualche giorno, mia madre piangeva, diceva che la sua voce le era mancata più di tutto, guardava le sue foto, ripeteva che al suono perduto della sua voce non c’era rimedio.

Io non ci pensavo nemmeno, ad andarmene, da lì a qualche anno sarei diventata maggiorenne, avrei potuto come mia madre partire, tornarmene in Italia per esempio, ma questo avrebbe voluto dire non poter più vedere mio nonno, che era l’oro del mio Occidente. Lo vedevo tutti i giorni, ci passavo tutte le ore libere che avevo, mi insegnava le parole intraducibili, mi raccontava le sue storie, quelle dell’Ovest selvaggio che lui amava tanto. Mi insegnava a vivere a Occidente. 

Go West, young man4, diceva ogni volta che mi vedeva indecisa, perduta troppo a lungo in un pensiero: go West, young man e io ridevo, mi lasciavo chiamare man, imparavo che un tavolo non era maschio e una sedia femmina, scoprivo che le parole erano elastiche, che significavano una cosa ma anche il suo contrario, che erano allo stesso tempo sostantivo verbo e aggettivo. Che potevi combinarle tra loro e ottenere una immagine nuova, che un nome che suonava bene valeva più di mille parole. Go West, young man, e mi parlava di Desert Center, di un albero chiamato l’albero di Gioshua, mi raccontava quello che sapeva di Arthur I, suo nonno.

Mio nonno e il nonno di mio nonno erano nati entrambi il 15 gennaio, mio nonno nel 1933 e il nonno di mio nonno nel 1873, entrambi a Desert Center, nella contea di Riverside, California meridionale, nel deserto del Colorado, a metà strada tra le città di Indio e Blythe, allo svincolo della Interstate 10 e della strada statale 177 (Desert Center – Strada del Riso). In prossimità di Desert Center ci sono il deserto Chuckwalla Mountains, Corn Springs, Eagle Mountain e Chiriaco Peak. Il centro abitato conta oggi centoventicinque abitanti, il Cap è 92239, la comunità si trova all’interno prefisso 760. 

A Desert Center c’è poco, direi più precisamente che non c’è proprio niente. È un deserto, qualche cactus, uno Yucca Brevifolia detto l’albero di Gioshua, a un centinaio di chilometri, poche altre piante resistenti al caldo e al vento, qualche rotolacampo. 

Non so se il nonno di mio nonno amasse il deserto ma mio nonno sì, lo amava, me lo raccontava come un capolavoro, uno scrigno di storie, quelle dell’ovest selvaggio di Aquila della Notte, dei Conestoga che superarono le Montagne Rocciose, attraversando lentissimamente il vuoto delle praterie, “siamo a duecentocinquanta miglia dal più vicino ufficio postale, a cento miglia dal legname, a venti miglia dall’acqua e a venti centimetri dall’inferno”, diceva, quando gli sembrava che le cose si mettessero male. 

Amava il deserto, ne leggeva le storie, ascoltava i banjo suonare, le voci gorgogliare in acuti frignucolanti, ripetere sillabe e vocali, allungare protrarre le i iouhulehihiiiiiiiii lehihiiiiiiiii lehihiiiiiiiii che rimarcavano l’eco nello spazio vuoto del deserto. Il deserto mio nonno lo amava ma badava bene a non farsi risucchiare, a non ritrovarsi svuotato, imparava a memoria, ripeteva.

Nessun nome sullo stipite della porta,
Nessuna iniziale incisa nel muro,
Nessun calendario appeso alla finestra,
Solo silenzio e mistero — that’s all.5

Nessuno sa come sia morto il nonno di mio nonno, se sia stato mai sepolto da qualche parte o se il suo corpo l’abbia prosciugato il deserto, nutrendosene. Arthur I, il nonno di mio nonno, lo chiamavano Misty, che vuol dire nebbia o annebbiato perché pare che avesse lo sguardo sempre offuscato, gli occhi come pieni di lacrime, Arthur you Misty-eyed, dicevano, come se guardasse attraverso la nebbia o un latente dispiacere, come se i suoi occhi tradissero il dolore di non essere mai stato amato. 

Di suo nonno Misty mio nonno me ne parlava spesso, ma una volta è stato strano, sono uscita da casa di mio nonno e c’era la nebbia, una nebbia densa, a Huntington Beach la nebbia c’è molto di rado.

C’era la nebbia anche la mattina dopo, che ascoltavo il brano Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death andando a scuola, sono uscita di casa e sono entrata nella nebbia, una nebbia di goccioline non così piccole, gocce di umidità quasi distinguibili, separabili, visibili una ad una, sono uscita dal mio letto, uscita di casa e entrata nella nebbia che era una estensione del sonno, del torpore dei muscoli, della percezione farraginosa del mondo, un prolungamento della dimensione sfocata del sogno.

Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death mi è capitato a caso, un suggerimento dell’applicazione, ha scelto l’algoritmo partendo da Sixtoo, Buck 65 e Keola che avevo ascoltato i giorni precedenti. Ascoltavo e camminavo nella nebbia che la luce non ci passava attraverso, l’imperforabile nebbia fitta delle sette del mattino, la attraversavo come una particella di materia attraversa un buco nero, senza cognizione volontà direzione, come se non potessi che attraversare la nebbia fitta delle sette del mattino di Huntington Beach, muovendomi a caso, brancolando sulla linea perfetta di un destino che forse era il mio. 

Glen Porter di Glen Porter dall’album Blessed By A Young Death era un suono appannato, mi faceva entrare la nebbia nelle orecchie, nei canali dell’udito, era denso, spaesato, suonava spento, suonava come un sogno, sfocato e farraginoso e sbriciolato, sparpagliato nell’umidità condensata della nebbia intorno a me. 

La sua musica galoppava nelle goccioline della nebbia, era la nebbia a cantare, a suonare, a frignare, a manifestarsi nelle gocce separate, una a una separabili, visibili ad occhio nudo.

Volevo sapere di più, chi era questo Glen Porter? Da dove gli veniva questa musica triste, downtempo, trip-hop forse, fitta di nebulosa, di particelle separate eppure imperforabili, da quale punto del suo corpo? Era un ricordo? Una memoria di dolore trattenuto negli occhi. Gli nasceva nella testa, nei vuoti dell’ippocampo, del petto? Questa musica sgretolabile, che prolungava il sonno e il sogno e il passo inconsapevole dei miei piedi alle sette del mattino, che mi faceva una sagoma di nebbia, fatta di nebbia come tutto era fatto di nebbia intorno a me, come tutto è fatto di deserto nel deserto, di materia grigia nella corteccia cerebrale, di vuoto nei crateri della memoria.

Ho cercato Glen Porter su internet, diceva: Glen Porter, all’anagrafe Ryan Stephenson, ha scelto di farsi chiamare come suo nonno, Glen con una sola n invece che due, è nato il 15 gennaio 1983 ad Anaheim, California — centocinquantanove miglia a ovest da Desert Center dove erano nati suo nonno Glenn, mio nonno e il nonno di mio nonno. 

Viveva anche lui a Huntington Beach da molti anni, suonava il pianoforte, la tromba il trombone, la chitarra acustica l’elettrica la classica, suonava viole violini violoncelli bassi batterie e poi ci aggiungeva elementi elettronici, ci collegava tutti i tipi di pedali, overdrive, distorsore, delay, riverbero, compressore, wah-wah, era un vero polistrumentista. La sua musica era una composizione di lamenti e rincorse, di affanni e sospiri, era un galoppo lento, era un rotolacampo, un cespuglio che rotolava sulla superficie della steppa immensa e vuota della Baja California, una salsola a rotolare sulle strade desolate di Huntington Beach prima che Huntington Beach fosse la città che è oggi, centonovantamila abitanti, quattordici chilometri di spiagge, clima generalmente soleggiato, caldo, mitigato da venti a venticinque chilometri all’ora, l’acqua dell’oceano a una temperatura di quindici gradi Celsius in primavera e in autunno, venticinque in estate, quattordici in inverno. Al mattino, ma molto di rado, la nebbia. 

Glen Porter suonava come se mountain men e California gold rushers e cowboys e rangers e sheriffs e bandits e outlaws e gunfighters e i Navajo e gli Yavapai e i Kikapoo e i Comanches e i Cheyenne si fossero dati la caccia non sotto il sole incandescente ma nella luce rifratta dalle particelle di una immaginifica nebbia nel deserto. Era come se avesse composto le colonne sonore di sparatorie uccisioni massacri combattimenti guerre rincorse, giorni e giorni di caccia all’uomo non nel deserto ma nella nebbia del deserto, a occhi stretti brancolando nella nebbia fitta densa ricolma del deserto, una nebbia fatta di goccioline grosse separate visibili una a una, gocce del sudore sudato per secoli nel caldo asfissiante del deserto, del sangue versato dei morti di fame e di guerra, delle vacche i cavalli i pionieri gli indigeni dei coloni dei nativi, di tutti i morti di fame e di guerra per cent’anni nel deserto, del loro pianto. 

Glen Porter li faceva combattere rincorrersi cacciare morire in una nebbia fitta immaginifica che riempiva tutto, li faceva crollare tump sulla sabbia, spararsi bang dritto al cuore, gli faceva fermare zdac pallottole con i denti, tranciarsi zash la carne con affilate lance, penetrarsi swoosh le ossa con le frecce, li faceva scappare cloppete al galoppo sulle distese immense di sabbia, nella nebbia, nell’acqua nel sudore nel sangue spremuti dal deserto, nel pianto strizzato dalla sabbia.

Glen Porter sparpagliava la nebbia, l’acqua il sudore il sangue il pianto risalivano a galla, riempivano il deserto, smorzavano ogni suono, addensando ricolmando, saturando ogni tump bang zdac swoosh zash cloppete, li sentivi appena, come se venissero dal fondo di un cratere nel deserto. Volevo saperne di più, volevo conoscere quel deserto umido, entrare nel deserto caldo e nebbioso di Glen Porter, farmi abbagliare non dal sole dalla sabbia ma dalla nebbia, farmi stordire non dall’alta pressione ma da quello stato condensato, morire di sete non per la mancanza di acqua dolce in superficie ma per la mancanza di visione, la cecità grigia della nebbia che ti allontana dalle cose, che ti fa girare in tondo, che non ti permette di allungare la mano verso l’oggetto cercato, desiderato, l’acqua, la bocca secca, la gola prosciugata dalla mancanza dell’acqua che è lì ma non puoi vederla; volevo conoscere, entrare nel deserto nebuloso e stinto di Glen Porter dove la visione è negata non dalla poltiglia luminosa di luce ma dalla rifrazione della luce sui microcristalli di ghiaccio sospesi nell’aria, sparpagliati nell’aria, la luce che si schianta sulle gocce non così piccole di umidità, sull’aria cristallizzata. Su internet ho letto:

«Sono sempre stato un fan della musica drammatica da quando ho memoria. Non parlo molto; la musica che ho composto per questo album è nata in un periodo difficile per me e credo che sia il mio tentativo di trasmettere cose per cui non riuscivo a trovare le parole. È semplicemente ciò che esce quando mi siedo e inizio a suonare. Ascolto tutti i tipi di musica. Non credo che un tipo specifico mi influenzi più di altri. Ovviamente, le mie radici sono nell’hip-hop, ma ascolto qualsiasi cosa mi faccia provare qualcosa. Se non lo provo, non serve a niente per me. Per quanto riguarda il suono folk/country, non riesco a spiegarlo. La gente lo sottolinea da un po’ di tempo e non so mai cosa dire. Non sono un grande fan del country, ma sono un grande fan del folk» e altre poche domande fatte da un tizio di una rivista di musica, come per esempio:

«- Modello o ispirazione? – Robert Anton Wilson, leggilo e capirai perché.
– Canzone che avresti voluto scrivere tu? – While My Guitar Gently Weeps dei Beatles.
– La cosa preferita da fare non legata alla musica? – La masturbazione, per ovvi motivi.
– Il posto preferito al mondo? – Qualsiasi posto che sembri casa».6

Ho capito che non avrei trovato molto, Glen Porter era uno che parlava poco. Ho messo su i suoi sei dischiin ordine cronologico, ho alzato al massimo il volume delle mie casse, ho chiuso gli occhi: Glen Porter mi ha subito spinto nel suo deserto bagnato, sono entrata nella nebbia nella sabbia, ho visto le dune di cristalli di ghiaccio del deserto umido e rifratto di Glen Porter, ho galoppato di un trotto lento sulle dune di cristalli di ghiaccio. Ho sentito la nebbia inumidirmi i capelli, la densità del deserto premermi addosso, schiacciarmi il vuoto nel petto. 

Poi, al centro del deserto, ho visto la sagoma di un uomo, mi sono avvicinata, brancolando nella nebbia, nella sabbia nebulizzata, e ho visto il nonno di mio nonno, Arthur I nato nel 1873, il 15 gennaio, nel pieno dell’inverno, a Desert Center, nel pieno del deserto. 

Era un uomo non molto alto, magro, con una faccia nervosa, le guance muscolari, come se le avesse allenate per anni masticando tabacco, sputando la polvere alzata dalle vacche portate al pascolo, stringendo i denti quando impugnava la sua calibro .44. Portava un cappello a tesa larga in feltro di castoro, la corona alta, le stringhe in crine di cavallo, chiaro. La camicia era in chambray bianco, con il giogo stilizzato sul petto e dei fiori rossi ricamati, al collo una bolo tie di cuoio nero con le punte in argento come l’ornamento che fungeva da chiusura, una spilla con una pietra azzurra al centro. Indossava i buckskin – la giacca e i pantaloni con le frange – scamosciati, di una morbida pelle di cervo, ai piedi degli stivali con tacco angolato, alto più di un pollice, la punta arrotondata, il gambale alto, marrone, in pelle di alce, con una decorazione rossa e blu che richiamava le penne di una freccia. Nessuna fondina gli pendeva a destra o sinistra, era vero, mio nonno me lo aveva detto, la Pacificatrice8 la tenevano infilata nella cintura, per fare prima.

Lo guardavo, era seduto su uno sgabello in mezzo alla nebbia alla sabbia, dietro di lui si stagliava la sagoma di un grosso albero. Suonava la chitarra, poi ha smesso, ha accennato un sorriso, ha detto:

«Io sono Arthur I ma tutti mi chiamavano Misty, laggiù nel deserto. Misty-eyed, più precisamente. 

Lo hai capito, no? Sono il nonno di tuo nonno, nato a Desert Center nel pieno dell’inverno anche se nel deserto l’inverno non esiste. Esiste il freddo, però, esiste una sensazione di freddo, di ossa umide, di carne che marcisce. Esiste la nebbia, una visione annebbiata, quando non vedi che deserto e il deserto non ti lascia tregua e puoi galoppare, cavalcare il tuo cavallo senza sapere dove stai andando e galoppare fino a che il tuo cavallo ormai baked9 stramazza sulla sabbia, puoi camminare, brancolare senza sapere in che direzione stai andando a morire.

Io sono morto sotto uno Yucca Brevifolia, un Joshua Tree che avrà avuto cento anni, in tutto il deserto sono andato a morire sotto un albero bastardo. Mi hanno sparato davanti al saloon, quei figli di puttana, bevevo il mio whisky, sono arrivati, tutti hanno visto che non ho cercato rogne, ma loro avevano già deciso, dovevano farmi fuori, mandarmi al boot-yard10 perché mi ero innamorato di una donna che non avrei dovuto nemmeno guardare, invece noi ci amavamo, ci amavamo ci capivamo, lei mi capiva, non mi giudicava un pazzo, lei non mi faceva sentire uno strano, per lei io ero uno normale e mi amava, io non avevo mai amato nessuna, avevo trentacinque anni e a quell’età ormai sei vecchio nel Far West, ma io lei la amavo, la amavo e volevo avere un ranch tutto mio, e crescere insieme vacche, e bufali anche, e vendere le pelli e il latte e avere una famiglia, che poi io un figlio l’ho fatto, con lei, ma non lo sapevo, è nato quando io me ne ero già andato al Creatore, un figlio maschio che poi era il padre di tuo nonno.

Insomma, io bevevo il mio coffin varnish11 nel saloon dove passavo di rado, loro sono arrivati, ho pensato che la cosa si mettesse male, c’era puzza d’inferno attorno a me, mi hanno detto di uscire fuori per parlare da uomo a uomo. Sono uscito e altro che scontro leale, mi hanno sparato in tre ma io ho sfilato la mia black-eyed Susan8 e li ho fatti secchi, tutti e tre, tre contro uno non è una cosa facile quando il deserto è così bastardo da incollarti le palpebre agli occhi, da annebbiarti ridurti a uno straccio umido e marcio, il deserto di luglio, era quasi luglio, il giorno prima del primo giorno di luglio, il deserto a luglio è il buco dell’inferno, e in quella melma di sudore e sabbia, nella lava del sole che ti squaglia la faccia, non è facile schivare le pallottole, il deserto il whisky l’amore ti rammolliscono, ti fanno molle, senza nervi. Io ecco, gli ho fatto fare il Grande Salto nelle braccia della vecchia Signora, ma prima che quei sacchi di merda cadessero al suolo con il tonfo tipico dei sacchi di merda, mi è arrivata una pallottola in petto, nel petto capisci, dove sta il cuore, nello spazio vuoto dove si tengono le cose che si imparano a memoria.

Io ho sempre imparato a memoria tutto quello che ho potuto, perché nel deserto le cose o le sai by heart o chissà dove vanno a finire, perché il deserto è una grossa nebbia calda che ti lava la memoria. Non sono mai stato un tipo problematico, nelle badland nessuno parlava male di me, che potevano dire? Mi facevo i fatti miei, non andavo in giro a cercare beef12 con nessuno, a sedurre le donne, non parlavo mai, o comunque parlavo molto poco. Mi chiamavano Misty perché non mi fidavo, guardavo tutto con diffidenza, sai quando stringi gli occhi che vuoi mettere a fuoco, ecco, così». 

«Hey you, Misty-eyed, dicevano che avessi gli occhi come pieni di pianto. Non lo so, so che nel deserto il pianto vale come l’oro. So che me ne stavo per conto mio, non avevo amici, amanti, amori, mogli, figli, io lavoravo, guardavo le vacche, le portavo da una parte all’altra del deserto, ero un semplice cow-poke13, rispettavo le mie duties, facevo quello che andava fatto e poi ho incontrato lei, che è stata l’inizio della fine, che mi ha dato un figlio, che poi a sua volta ha avuto un figlio che è tuo nonno, Arthur II.

Il mio corpo non l’hanno mai ritrovato, quando mi hanno sparato nel petto ho preso il mio cavallo e sono scappato, altri figli di puttana stavano arrivando per venire a farmi fuori, allora sono scappato, grondavo sangue, il mio cavallo era una spugna di sangue quando sono caduto, ho continuato a camminare, brancolando, annaspando, fino allo Yucca BrevifoliaJoshua Tree bastardo, l’unico albero in tutto il fottuto deserto. Il mio corpo se lo sono mangiato i coyote pezzo per pezzo, di me non ne è rimasto niente, nemmeno i miei stivali, la mia donna non ha mai saputo dove fossi andato a morire, mio figlio chi fosse suo padre, tuo nonno chi fosse suo nonno. Ma tu adesso sai, tu devi andarglielo a dire, ad Arthur II, Chap, lo chiamano Chap, no? Devi dirgli che suo nonno non era un figlio di puttana, era un cowboy, un cowboy solitario che lo chiamavano Misty, che suo nonno Misty-eyed si è trascinato per tutte le ore rimanenti del giorno e della notte prima e ancora per tutte quelle del giorno che sono morto, il primo di luglio l’ultimo della mia vita da cowboy di Desert Center; devi dirgli che brancolando, annaspando nella sabbia del deserto, ho scoperto che nel deserto c’è la nebbia, una nebbia fitta densa, che si muove lenta, cristalli di sabbia che ti entrano nel corpo in tutti gli orifizi, ti entrano dentro ti riempiono ti saturano il petto e che persino saturo di nebbia di sabbia di deserto, persino mentre morivo, io non ho dimenticato. Ho tenuto a mente, a cuore, nel petto, le cose poche cose che ho amato. Tu glielo devi dire». 

Io ho detto al nonno di mio nonno: 
«Va bene, glielo dico. Ma perché sei apparso proprio adesso?»

Misty ha detto: 

«Perché la musica che ascolti, non lo senti? Non senti che dentro c’è il deserto, c’è la nebbia, c’è un pianto che gorgoglia sotto le palpebre degli occhi. Sai quella storia che quando muori puoi tornare in un altro corpo? Se hai ancora qualcosa da dire. Be’, io sono entrato in questo corpo, in questo Ryan Stephenson o Glen Porter come si fa chiamare. Mi sono reincarnato, Glen Porter l’ho scelto quando era ancora nella pancia di sua madre che cantava, cantava sempre quella donna, per nove mesi gli ha cantato ogni tipo di canzone. È un bravo ragazzo, un misty-eyed».

Ho detto a Misty: 

«E Glen Porter lo sa, che è la tua reincarnazione?»
E il nonno di mio nonno mi ha detto: 
«Perché, tu lo sai, di chi sei la reincarnazione?»
Ha smesso di parlare e ha ripreso a suonare la sua chitarra, a cantare:
Oh, non seppellirmi nella prateria solitaria
Dove i coyote selvaggi ululeranno su di me
Dove i serpenti a sonagli sibilano e il vento soffia libero
Oh, non seppellirmi nella prateria solitaria.14

Allora la mia testa ha preso a girare, sentivo la chitarra del nonno di mio nonno suonare, rimbombare nella stanza, Glen Porter che era la reincarnazione del nonno di mio nonno suonava nella stanza, suonava il suono dei rotolacampo che non fanno rumore, della nebbia che non fa rumore, del deserto, che rumore fa il deserto? Ho detto al nonno di mio nonno:

«La tua chitarra piange, dolcemente piange, io guardo il pavimento, vedo che ha bisogno di essere spazzato, guardo le particelle di polvere sul pavimento e sento il bisogno del pavimento di essere spazzato, toccato dalle setole della scopa dall’oscillazione delle setole della scopa, il suono della scopa che oscilla avantidietro avantidietro sulle mattonelle, le setole lisciano squasciano il pavimento, ripetono l’andata il ritorno sulle mattonelle il suono prima si apre poi si chiude, le setole sfregano la polpa delle mattonelle, sssssssffffffrrrrrrr sssssssfffffffrrrrrrregano il pavimento, le setole le sss le le setole sfreeeeegaaaaaano sfreeeeegaaaaaano sfreeeeegaaaaaano le mattonelle a ritmo, il tempo è un due quarti moderato, nessuna fretta, è il pavimento che chiede di essere ssssssspazzato sssssssfregato dalle sssssssetole della ssssssscopa è il pavimento che chiede di essere ssssssscopato, scopato come l’acqua con il bagnasciuga, l’acqua che sciaborda l’acqua che fa avantidietro avantidietro a ritmo sulla sabbia compatta, le setole a ritmo sulle mattonelle, come il vento sulle dune di sabbia compatta, la sabbia il vento se la scopa. È il pavimento che ne ha bisogno, lo vedo sento che ne ha bisogno che lo chiede, di essere spazzato sfregato scopato toccato suonato». 

«La tua chitarra piangedolcemente piange, non so perché nessuno ti abbia detto come svelare il tuo amore, non so come ti abbiano controllato, ti hanno comprato e venduto, come hanno fatto, certo avrai commesso i tuoi errori ma stavi di sicuro imparando, imparavi ad amare, suonavi la chitarra, la tua chitarra è un pianto gentile, la ascolto e guardo il mondo e noto che sta girando, la rotazione fa un rumore di vento e di brezza, di turbini di sabbia, di cavallo al galoppo, di gonna che gira e si gonfia, di braccia che tengono la donna che indossa la gonna e la fanno girare, la gonna è larga è ampia è bianca, la gonna della donna che amavi, Arthur I Misty-eyed nonno di mio nonno, la gonna la donna che gira e gira e balla il giorno che vi siete sposati in segreto, di nascosto dal deserto, che all’altare le hai detto: ti amerò come il vento ama la criniera del mio cavallo come ne ama il galoppo, come il turbine ama la sabbia, come l’aria ama la tua gonna che si gonfia quando ti prendo tra le braccia e ti faccio girare e la tua gonna larga ampia bianca si gonfia, si dilata si riempie d’aria si trasforma in una nuvola chiara, ti amerò come la nuvola ama la volta celeste, come il petto ama ricordare come la memoria ama il vuoto che la tiene».

Gli ho detto: 

«Io sto seduta qui e non faccio che invecchiare mentre la tua chitarra piange, dolcemente piange15 mugola geme languisce guaisce lacrima, la tua chitarra è un pianto soave, è il deserto che piange, la nebbia è il pianto del deserto e tu l’hai visto, tu hai visto il deserto piangere, Misty-eyed».

Avrei voluto dirlo, a mio nonno, Arthur II detto Chap, raccontargli di suo nonno, di averlo ritrovato nel deserto nebbioso di Glen Porter, dirgli che non era un figlio di puttana ma uno che aveva amato una volta soltanto, che il deserto se l’era ingoiato, evaporandolo, masticandone pure gli stivali. 

Avrei voluto ma non ne ho avuto il tempo, mio nonno Chap Arthur II è morto il giorno dopo, il primo luglio 2018, si dondolava sulla sedia a dondolo sotto al portico della sua casa di legno, a Huntington Beach, California, si dondolava in una eccezionale nebbia di luglio. Ascoltava Ramblin’ Man di Hank Williams,

E quando me ne sarò andato
E starai davanti alla mia tomba
Di’ solo che Dio ha chiamato casa
Il tuo vagabondo

quando è morto, dondolandosi con Hank Williams se n’è andato, senza soffrire niente. 

Ho pensato che gli sarà piaciuto, andarsene in quella nebbia fitta che non si vedeva che nebbia, come nel deserto non si vede che deserto, dove il dolore il pianto si seccano, si prosciugano o rimangono impigliati negli occhi, dove devi imparare a memoria il calore il sapore il rumore del pianto per non dimenticarlo. 

In quella eccezionale nebbia di luglio, il primo giorno di luglio 2018, a trentacinque anni, con una overdose di Fentanyl, anche Glen Porter se n’è andato, senza soffrire niente, senza vedere che fuori c’era la nebbia.


¹ crooning, canticchiare in modo romantico: un crooner è un cantante che si esibisce con uno stile fluido e intimo, particolarmente amato dalla sottocultura giovanile nota come Bobby Soxers. Lo stile del crooning ha raggiunto il suo apice tra gli anni ’40 e ’60.

² Bobby Soxers, sottocultura di giovani donne americane degli anni ’40. I loro interessi includevano la musica popolare, in particolare quella del cantante Frank Sinatra, e l’indossare abiti larghi e i bobby-socks, calzini da donna bianchi, indossati bobbed, piegati intorno alla caviglia.

³ Out Where the West Begins, Arthur Chapman, 1917

Aaron Burr, politico americano

The Cabin Of Mistery, James William Whilt, 1922

dalla rivista TEXTURA, Ten questions with Glen Porter and Take, luglio 2007 

Blessed By A Young Death 2008, Falling Down 2009, The Devil Is A Dancer, The Piper Is A Madman 2012, Waveleghts2013, The Open Road and The Smell of Blood 2014, Mr. Vampire & The Deadly Walkers 2017

8  la Pacificatrice, Black-eyed Susan, vari nomi per la calibro .44/.45 Colt o Remington

9  baked, “cotto” nel senso di stremato, un cavallo spinto ad un galoppo troppo forte o troppo prolungato

10 boot-yard, “il giardino degli stivali”, slang per cimitero (i morti ammazzati venivano sepolti con gli stivali ai piedi)

11 coffin varnish, “vernice per bare”, slang per il whisky di cattiva qualità 

12 beef, “rogne”, litigare con qualcuno 

13  cow-poke, “spingi vacche”, uno dei nomi dati ai cowboy

14 Oh bury me not on the lone prairie /Where the wild coyotes will howl over me /Where the rattlesnakes hiss and the wind blows free /Oh bury me not on the lone prairie.  Bury me not o Cowboy’s Lament, da una poesia di Edward Hubbell Chapin, 1839

15  le frasi in corsivo nel paragrafo sono parte del testo di While My Guitar Gently Weeps, The Beatles, 1968