ARTICOLO n. 44 / 2021
Di Marco Lupo
TESTIMONI
ESTATE A TORINO
Il portico è uno spazio a due dimensioni1. Le volte grigie lasciano entrare il cielo e la notte. Il marmo pavimentato, liscio, granuloso nelle pozze scheggiate, gelido quando febbraio sembra crudele. Le colonne del portico sono un riparo per nascondere i cartoni, il piumone sudicio. Al buio, quando la dimensione del giorno è scomparsa, i corpi stesi sul marmo diventano sagome che tossiscono, che si asciugano le labbra bagnate dal vino acido, dalla birra bruna, dall’acqua nella bottiglia di plastica spanciata. Le ronde entrano nelle parentesi di sonno, chiedono documenti e nomi comunicati via radio alla centrale. Sagome coperte dal buio ascoltano i passi allontanarsi: un’altra notte in cui è concesso restare. Gli schermi illuminano le coperte finché il respiro diventa profondo e materico: fiato nella notte ghiacciata.
Il fronte popolare di liberazione senza liberazione, in una città da mille miliardi di euro, dove i clan acquistano proprietà e congelano beni. Nei sotterranei ci siamo noi, che elemosiniamo per un trancio di pizza. Senza soldi, affamati di tabacco e aspirine.
Queste potrebbero essere le parole sognate da un mio omonimo, un uomo sui quarant’anni che mi viene a trovare in libreria tutti i giorni, tra le 12 e le 13. Gli offro una presa di tabacco e lo ascolto. Parla degli eventi accaduti nella notte precedente, degli uomini che barcollano ubriachi e si addormentano con le gengive scoperte sul selciato. Parla delle zuffe, mi racconta dei furti tentati e di quelli riusciti. Spesso subiti. Un giorno, a metà giugno, lo incrocio in una zona d’ombra magnifica accanto agli scalini della galleria Subalpina, un punto da cui mi godo spesso la vista sulla piazza e sulle facciate che rigurgitano luce. Il naso è tagliato da uno squarcio, una crosta di sangue già raggrumato, un minuscolo lago rosso. Una testata inferta a metà del naso, a metà della notte, dopo un diverbio assurdo con un uomo che conosce da anni, un tizio che accusava una donna – stesa come tutti gli altri su cartoni e coperte – di avergli rubato i documenti.
Scrivo queste pagine in un momento in cui il dolore si diffonde nel corpo che mi ha generato. Il dolore fisico della persona amata si riflette nella mia psiche, entra come brace nei sogni, scava nelle ossa e pungola l’epidermide fino a farla sanguinare. Rifletto sulla natura egualitaria del dolore, su quanto possa essere universale e individuale allo stesso tempo. La faglia che divide molti esseri umani può essere collegata da un ponte che conduce il dolore dell’uno al dolore dell’altra. La lontananza, la protezione, l’annullamento e la rimozione del dolore non aiutano a comprendere che ogni essere vivente è destinato a farci i conti, a misurarsi con il buio e con il vuoto. Il dolore tramutato in linguaggio assume forme che non siamo in grado di decifrare, spettri geometrici che rigettiamo.
La città vive il dolore nella sua scomposizione, nelle sue fratture che si ricompongono tra una distanza e l’altra. I singoli corpi devastati non comunicano, o lo fanno soltanto in un insieme strettamente sorvegliato, quasi monastico, che conduce il vicino al vicino, il segmento al segmento. La tifoseria del dolore non compiange l’avversario, ma lo deride. Invece di creare una comunità del dolore, montagne di divisioni fanno retrocedere ogni etica possibile, quasi tutti gli spazi bianchi in cui alcuni si occupano degli altri. Eppure i casi personali contano qualcosa. Se possiamo immedesimarci nel trauma di una persona amata possiamo farlo anche con lo sconosciuto, con il corpo dell’altra.
«Da molto tempo mi sembra che l’unica cosa che valga la pena descrivere sia la luce, le sue trasformazioni e la sua eternità», scrive Andrzej Stasiuk ne Il mondo dietro Dukla. Attraversare la luce e contarne i particolari, ho pensato una volta varcato un ponte che mi ricorda le acque del fiume dell’infanzia, un’ansa che si flette dolcemente e che non rivedo da anni. I particolari che fluttuano come particelle invisibili nel tempo, che indicano i luoghi contaminati dalla memoria finché qualcuno ne abbraccia il ricordo. Nella non linearità del tempo, in un ipercubo possibile, non riusciamo a decifrare i messaggi perché ascoltiamo una frequenza diversa.
Dieci giorni fa, a qualche chilometro da dove scrivo, in una stanza abitata dal caos dell’abbandono, silenziosa come tutte le case in cui qualcuno è vissuto finché è stato possibile, F. ha trovato uno scatolone di cui aveva sentito parlare. Negli anni del dopoguerra l’area in cui si trova la casa è diventata una zona industriale. La scatola conteneva lettere e cartoline dall’Etiopia, un paese devastato dai coloni fascisti. In una di quelle lettere si comunica il decesso del soldato. In un’altra lettera, di qualche settimana prima, il soldato scrive ai genitori e alla sorella raccontando la vita al fronte. In un’altra lettera, a metà strada tra le due missive, i commilitoni scrivono alla famiglia riferendo di una pallottola prodotta dagli autoctoni, un corpo esterno che avrebbe ferito di striscio il soldato.
Le cartoline, nota la donna che sta aprendo una dopo l’altra le lettere vergate con una splendida e minuscola calligrafia, sono fotografie di ragazzine e donne che trasportano acqua da una fonte al villaggio, che sorridono, che cantano, che saranno schiave domestiche e sessuali dei colonizzatori fascisti2 nell’assurda follia imperialista.
Cosa rivelano delle lettere scritte intorno alla morte di un soldato inviato a uccidere civili nel 1936?
Cosa significano quelle lettere per una persona nata e cresciuta nel posto del ritrovamento?
Cosa significano quelle lettere per una persona nata e cresciuta nel posto del ritrovamento ma legata alle radici di quei fatti, di quegli eventi?
Che cosa possono dirsi queste persone, che hanno in comune eventi macroscopici e ricordi differenti?
Il 26 ottobre del 2020 sono comparsi video su Instagram, Twitter, Facebook e TikTok. Le immagini sgranate, riprese dai notiziari e dai talkshow, hanno in sottofondo le sirene e un vociare indistinto che cresce e diminuisce in base all’intensità degli eventi. Quella sera, in piazza Castello, gli esercenti protestano per le chiusure, per la lunga sequenza di dpcm, per le norme anti Covid e per il destino crudele. La foschia avvolge Torino, nasconde gli angoli e dimentica la visuale limpida che collega una retta alla sua perpendicolare. Per lunghi mesi il centro cittadino si è rivelato nudo e impotente, non irrorato dai flussi di passaggio, dai corpi che rendono vitali le architetture disegnate nel passato. Le abluzioni quotidiane si sono spostate nelle aree periferiche, nei quartieri che hanno assaggiato le potenzialità del centro scomposto e frazionato in nuove identità provvisorie. Se prima del Covid la dicotomia centro/periferia era obsoleta e inefficace, con l’avvento della crisi epidemiologica le città sono state costrette a reimmaginarsi.
«Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio/di una nuova,/L’afflato dell’odio per bellezza lirica,/La forza cieca per forma compiuta.»
In questi versi di Czesław Miłosz si nascondono domande che è lecito porre. Se la memoria è fallace, contano molto i particolari, le interazioni che riusciamo ad avere, le connessioni che conducono tra ciò che sappiamo e ciò che ignoriamo.
Durante gli scontri della sera fumosa, mentre gli esercenti tornavano a casa e decine di giovani vestiti con tute, piumini e sneakers entravano nell’area protetta dei negozi di lusso, i vetri sono stati frantumati, la merce rubata, i colpi inferti, la rabbia è esplosa e si è materializzata nei lacrimogeni lanciati dalle squadre della polizia.
Non sembrava una protesta simbolica, né una violenza che puntasse a dare voce alle ingiustizie che separano i figli dei precari, dei marginalizzati, dei nuovi schiavi dai figli degli abbienti, né sembrava soltanto un riflesso condizionato dal desiderio di avere qualcosa e di averlo subito. Il giorno dopo e in quelli a venire, sui giornali e nelle reti tv, è comparso lo sconforto di quelli che hanno pagato un prezzo molto alto in termini economici. Subire violenza e fare violenza: in questa storia di oggetti ritrovati o distrutti e di persone che fuggono o piangono, entra anche la breve assenza di una targa. Quasi tutti i testimoni ammettono che quella targa, dedicata ad Andrea Piumatti (partigiano ventiduenne ucciso dai fascisti all’imbocco della galleria Subalpina il 16 marzo 1944), sia stata in effetti divelta durante gli scontri. Altri testimoni, lettori e commentatori delle pagine locali, dicono il contrario.
Passo tutte le mattine in quel punto e credo di ricordare che anche quel giorno, il 26 ottobre 2020, la targa fosse al suo posto, esattamente nel punto in cui Andrea Piumatti fu colpito da due colpi di rivoltella alla tempia. Se la memoria è fallace e chiunque potrà sempre dichiarare il contrario di ciò che ricordiamo, contano molto i particolari e le riflessioni che siamo in grado di fare sugli eventi che dividono.
Quindi qualcuno ha deciso di sradicare una targa dedicata a un ventiduenne assassinato dai fascisti, un giovane uomo che da marinaio in servizio si era rifiutato di arruolarsi nella repubblica di Salò e che si era unito alla Brigata S. Magnoni della 43a Divisione «De Vitis».
Ci si chiede se a compiere un gesto del genere siano stati i nostalgici del duce, i fascisti che abitano il nostro tempo e che non hanno mai fatto i conti con le conseguenze del loro mito, con gli strascichi terribili che sono stati concessi da generazioni di cerchiobottisti della memoria.
Se fosse vero potremmo darne una giustificazione politica. Se fosse falso dovremmo ripartire dal significato di quella lapide in un contesto in cui la polarizzazione della storia italiana non conta nulla, in un paesaggio in cui fascisti e partigiani non esistono più.
Quello spazio neutro dipende dal nostro modo di guardare e da quanto sia difficile esercitare una pressione sulle nostre certezze. Quella targa non è stata sradicata per ragioni politiche, ma soltanto perché un facile bersaglio. Un oggetto privo di significato per la folla nella sera fumosa. Materia e basta.
Possibile che sia andata in questo modo? Possibile che qualcuno che vive e cresce nello stesso spazio in cui mi muovo e respiro sia così lontano da ciò che sento?
Possibile che la sua distanza non sia motivata da ragioni politiche ma da differenze identitarie? Possibile che una persona nata e cresciuta in un luogo non dia nessun significato particolare a una targa e che ne dia invece a oggetti e date di cui, nello stesso tempo, ignoriamo l’esistenza?
Possibile, scrive Martin Pollack3. Lo scopre quando viene invitato a leggere dei brani tratti da un suo libro nel teatro cittadino di Hallein. Davanti a lui ci sono 300 studenti con un grado di istruzione piuttosto basso, lo informano i suoi ospiti. Quei ragazzi hanno una storia di migrazioni che collegano la Turchia agli stati dell’ex Jugoslavia fino a terre e lingue di cui l’autore ammette di saperne poco. Mentre legge la storia del padre, ufficiale delle SS e capo della Gestapo a Linz, si rende conto che la maggior parte del suo pubblico lo ascolta annoiato, senza nessun tipo di coinvolgimento. Pollack si rende conto di aver parlato e letto di avvenimenti che non avevano nessuna connessione con le storie di quei ragazzi. Le loro memorie famigliari non avevano punti di contatto con il suo novecento europeo, con eventi che sembrano monoliti identitari. Le loro esperienze erano legate ad altre date, ad altre vicende. Nessuno, neanche l’autore, si era posto il problema di differenziare il discorso su memoria e identità a seconda dell’interlocutore, in relazione all’altro.
Gli Altri.
A distanza di mesi, Pollack conosce un giovane austriaco di origine libanese. La sua famiglia è fuggita dal Libano tre generazioni prima, per salvarsi dalla grande carestia che durante la prima guerra mondiale uccise 200.000 persone. Il trauma storico in cui si sono identificati i componenti della sua famiglia, generazione dopo generazione, è sempre stato ignorato da tutti gli interlocutori con cui hanno parlato nel corso degli anni. Lo stesso Pollack ammette di non averne mai letto, né sentito parlare. Il giovane austriaco di origine libanese è abituato all’ignoranza dei suoi connazionali. Pollack risponde a questa mancanza con riflessioni che vale la pena condividere: «La frammentazione della nostra società è uno dei grandi problemi che dobbiamo affrontare, cela dei pericoli, ma anche grandi opportunità. Ricoprirà un ruolo importante anche il nostro atteggiamento nei confronti dei vari ricordi all’interno della società frammentata, se non ne prenderemo atto e li negheremo, o se li accetteremo e ci confronteremo con essi in modo aperto e non prevenuto».
Si può essere lontani da chi è altro nella tua terra natale, nel luogo in cui dimori, lavori, sopravvivi, ti ammali e ti curi. Siamo legati da fili che non riconosciamo, e ignoriamo chi ci circonda perché non abituati ad ascoltare le altrui memorie, quelle degli Altri.
Mentre aspetto di incontrare S., un attivista del comitato di quartiere Aurora, rileggo le pagine scritte da Luca Rastello4 nel corso degli anni. Siedo sotto la volta dei portici interrotti, in via Po, davanti a un bar che ricorda la fine degli anni ottanta e le insegne luminose dell‘epoca. L’ombra accoglie i piccioni che passeggiano tra i tavolini e nasconde i fagotti dei senzatetto agli angoli delle colonne. Leggo le pagine preziose, incise con ironia e grazia, e penso che a Torino Rastello non è ricordato abbastanza.
Le sue parole mi ragguagliano sul perché: «Ho l’impressione che si trovino centinaia di professionisti della cultura disposti a mobilitarsi per la vita, la libertà, la circolazione delle idee, ma che se ne trovino ben pochi interessati concretamente alla vita, alla libertà, alla circolazione degli umani (soprattutto se appartenenti ad altri ceti)»5.
S. appoggia la bicicletta a una colonna del portico e mi raggiunge al tavolino. Lo ascolto parlare di Barriera, Aurora, della zona nord di Torino, di quartieri in cui la dimensione multiculturale è vista e immaginata (da chi non la frequenta, da chi non la vive) come un territorio irrecuperabile. La realtà, mi dice, è che l’associazionismo in quelle aree è una risorsa preziosa, capace di creare aggregazione e socializzazione. La spinta dal basso di cittadine e cittadini, persone che si battono per migliorare il quartiere in cui vivono, mi ricorda centinaia di esperienze simili nel mondo democratico e autoritario, dal Brasile alla Grecia. Le amministrazioni comunali hanno smantellato il presidio ospedaliero Maria Adelaide, hanno eliminato la zona franca del commercio cittadino al Balôn – l’area di libero scambio – e hanno eradicato quell’eversione che durava da secoli e che rappresentava un moto libertario e salvifico per la moltitudine che non riesce a sopravvivere altrimenti. Inoltre stanno cedendo spazi a società che hanno un’idea piuttosto singole del concetto di ospitalità6.
Nella dicotomia decoro/indecenza traspare tutta l’ipocrisia di un modo di concepire la varietà di cui si compone il tessuto umano: se è vero che decorum significa vestirsi e agire in modo conveniente alla propria condizione sociale, allora è anche vero che ignorare la maggioranza della popolazione che non può permettersi decoro e lusso o privilegi equivale ad accettare l’ingiustizia sociale e l’abbruttimento lavorativo che si abbattono sul cuore pulsante del paese. Si aggiunga il prezzo che pagano i lavoratori precari, le aule scolastiche tradotte in lavoro nero, l’inchiostro simpatico che riempie le prime pagine dei giornali e che racconta le faglie di un’epoca attraversata da crisi complicate, dai crolli vertiginosi del valore salariale, dai tassi di occupazione viziati da statistiche incomplete, fasulle, fallaci.
Vale quindi la pena di ignorare ogni cosa e portare una bandiera qualsiasi. Torna la fretta di richiudersi, di riaffermare un ego collettivo, un nazionalismo da manuale, violento e ricorrente con i più deboli, con gli ultimi della fila, che vomita bile su ogni minoranza e che riafferma ogni volta, ad ogni occasione, un’incompleta visione della storia umana, del travaglio che conduce Neanderthal al Rinascimento: la scena artistica italiana, tanto decantata da politici in trasferta in zone oscurate da poteri dispotici, è stato un esempio della potenza delle aperture e della bellezza dell’ignoto.
O. è nato a Belgrado alla fine degli anni settanta. L’ospedale in cui ha visto la luce, GAK Narodni front, è rimasto operativo durante gli anni della guerra e nelle fasi difficili della transizione. Lo incontro in una calda giornata di luglio da Parola, l’enoteca di via Cesare Battisti:
«L’Italia è stata molto affettuosa con noi, nel 1987. C’era una certa curiosità verso chi veniva da fuori: ero un bambino a cui doveva essere insegnato tutto da capo e mi scontravo per la prima volta con termini e usi che tutti si preoccupavano di spiegare con molta pazienza: la prima comunione; il panino con la mortadella; la Juventus; il carnevale. Le donne si scambiavano le ricette, i compagni di scuola ci portavano in giro per la città e ci coinvolgevano in ogni attività sportiva, perché era facile, eravamo jugoslavi. Tutto cambiò nel 1994, quando tornammo a Torino. L’immigrazione era esplosa, proprio come era accaduto all’Europa dell’Est, e noi ci trovammo ad avere a che fare con pregiudizi e paralisi sociale: i torinesi sostituirono la curiosità col dubbio e i valori umani con i luoghi comuni. Questo mi manca della fine degli anni ottanta: con mio fratello sperimentavamo la conoscenza di un’intera città, senza nessun tipo di pressione sociale, politica o culturale. Eravamo immuni dai pregiudizi perché eravamo bambini e perché la gente apprezzava e abbracciava il nuovo, coltivava la passione per tutto quello che non aveva ancora visto, sentito, annusato.
Non posso dimenticare, però, che cosa ha fatto questa città per me. Nei momenti più bui, tra il 1992 e il 1993, quando a Belgrado andavo a scuola in un‘atmosfera tetra, fatta di disagio e code per il pane, nei miei pensieri esisteva un solo angolo di paradiso su questo pianeta e si chiamava Torino».