Luca Ravenna

ARTICOLO n. 54 / 2024

UMORISMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Capacità di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Bene, lo scopro ora. Non mi ero mai posto il dubbio in precedenza. Non sapevo cosa fosse o forse lo sapevo senza saperlo, come tutti.

Qualche giorno fa stavo facendo un caffè con una macchinetta simil-Nespresso a casa della mia ragazza. Normalmente quando carico la cartuccia e sono insieme a lei fingo di essere in un ufficio milanese e mi metto a fare l’imitazione di un fantomatico capo ufficio fluido sui cinquanta anni che importuna in modo uguale giovani donne e giovani uomini, facendo valere il peso della sua innata simpatia.

“Avete letto quella pazza su Magazine coso? Ma quella è da internare o no?”
“No raga… io non ce la faccio!”
“Come va con la casa? Trovato qualcosa?”
“Ah, solo zone terribili? Cazzo con quel che ti paghiamo… Ahhahaha…”
“Come va con il pezzo per Gucci? Venuto figo? Camicetta top oggi eh… ahahahah”
“Mi Ami? Andati? Flop? Top? Droga?”
“Raga le cialde sono finite, facciamo la solita raccolta?”

Ma quel giorno ero stanco, ormai è un mese che mi trascino come uno zombie fra Milano e Roma fingendo di avere energie che non ho più. Ho terminato un tour bellissimo e molto intenso che mi ha portato in giro per l’Italia con il mio ultimo spettacolo. Sessantadue date in sette mesi. È stato esaltante, emozionante e stupendo, ma l’energia è completamente terminata e con essa anche la voglia di scherzare, ossia il desiderio di “rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Quando mi capita di parlare con qualcuno, non apprezzo più le battute su di me, sono estremamente paranoico rispetto al mio aspetto fisico, non sopporto le persone che fanno ridere, vorrei stare in campagna circondato dagli animali per un mese.

Sia chiaro: non mi sto lamentando. Sono felice di fare il lavoro più bello del mondo. Essere pagato per dire barzellette piuttosto complesse – questo è di fatto il mio lavoro – è qualcosa che va al di là dei miei sogni più vividi. Ma per farlo con enorme sincerità bisogna per prima cosa cercare di essere sinceri con se stessi. E se proprio devo esserlo, ora mi sembra difficile cavare umorismo dalla realtà che mi circonda.

Come sempre succede in questi casi è bene fare il punto della situazione e cercare di ripartire provando a decifrare cosa sia l’umorismo per me. Provo quindi a buttare giù una sorta di elenco, di punti, di idee, di leggi che seguo quando provo a scrivere qualcosa di divertente.

Vediamo se tornano utili a qualcuno. Non è un decalogo, non è nulla, solo una serie di pensieri sulla risata, l’umorismo che cerco di tenere a mente sia quando lavoro, che nella vita di tutti i giorni.

– “È molto simpatico/a” è una bellissima cosa da dire di una persona.

– “È un coglione/una cogliona” è la stessa identica cosa, detta da qualcun altro.

– Il lavoro di un umorista è surfare come una lumaca sul filo di un rasoio o sulla lama di un coltello, questa similitudine è mia non di Marlon Brando/Colonnello Kurz in Apocalypse now.

– A cosa punti una persona che sceglie di guadagnare facendo ridere, non si sa. Così è. I traumi infantili, essere stato bullizzato, non avere altre forma di difesa se non quella dell’ironia; non saprei, mi sembrano tutte idiozie. È un fuoco che arde? Non ne ho idea né mi interessa ormai. Ma è un desiderio difficile da spegnere.

– Non esiste applauso, risata, commento, di chicchessia che possa anche solo lontanamente avvicinare l’istante in cui, camminando per strada e ripensando a qualcosa, porta alla risata fra sé e sé. Le battute migliori, le piccole fratture della realtà in cui infilare le dita per provare ad arrampicarsi su una parete che con un po’ di tecnica porta alla scrittura di un monologo che sia divertente per sé e poi, se si ha fortuna, anche per gli altri. Quelle spaccature hanno a che fare con l’infinito dialogo che si ha con se stessi.

– Depositato quel seme, con la tecnica (banalmente segnandoselo su un taccuino), si può pensare di far crescere qualcosa che verrà prima o poi presentato al pubblico. Se avrà senso e sarà condivisibile dalle persone in ascolto, non sta certo all’autore deciderlo.

– Non è mai un monologo, ma sempre un dialogo. Prima con sé stessi, poi con il pubblico.

– “Quella cosa non fa ridere”, come dicono alcuni, è una frase che non ha senso. La risata non è oggettiva. È soggettiva. “Quella cosa non fa ridere me, adesso, perché ho i cazzi miei”.“Come me adesso”: così va bene, così si può dire.

– Per il palco: bisogna scrivere come si parla. Non c’è nulla di meno umoristico della forma mancata, della forma fittizia. Se – come spesso succede – un comico parla in modo eccessivamente forbito o distante dal suo vero modo di masticare la lingua ci si stacca immediatamente.

– Dimenticare il punto precedente. C’è chi riesce benissimo a parlare in modo diverso sul palco. Ognuno ha il suo stile. La comicità non ha regole, ma solo effetti. Chiunque provi a dare delle regole o dei voti se ne deve andare a fare in culo.

– Stare sul palco e scrivere sono due lavori differenti.

– Ci sono grandi autori e grandi perfomer, non sempre le due cose coincidono.

– Per trovare qualcosa di divertente da raccontare bisogna non ascoltare chi si ha davanti. Non è facile da spiegare né da accettare, ma è fondamentale ascoltare con mezzo orecchio. Con l’altro è necessario stare concentrati su se stessi. È doloroso perché può allontanare le persone, ma almeno per me funziona così. Se cerco qualcosa di divertente non posso ascoltare veramente chi ho di fronte.

– Di sicuro sono abbastanza abituato a cercare il pensiero laterale rispetto a tutto quello che accade intorno a me. Non saprei contare le volte che mi è stato rinfacciato il fatto di aver preferito una battuta di fronte alla possibilità di ascoltare il momento in cui mi trovavo, per il puro gusto di dire qualcosa di divertente. Da questo punto di vista non mi considero un artista, gli artisti veri sono quelli che sanno ferire gli altri, io qua e là potrei averlo anche fatto, ma ora come ora non saprei.

– Detto questo, amen. C’è di peggio.

– Ridere è sempre bello e giusto. Nessuno si è mai lamentato di aver riso per un’ora, era la frase con cui chiudevo le prime sere che organizzavo a Milano qualche anno fa. Non penso di aver mai detto nulla di più sincero sull’umorismo in vita mia.

– Niente ha senso finché non si trova qualcuno a cui raccontare di sé. Se non si ha qualcuno a cui raccontarlo è bene tenere un diario, una chat fittizia. Qualcosa per cui si possano mettere in fila delle immagini, dei momenti, una traccia. Più sono struggenti, più c’è lo spazio per ridere, solo che magari sarà qualcun altro a farlo notare. Fa niente. Esistiamo solo in base ai rapporti con gli altri. Anche questa frase è mia!

– Non esiste nulla finché non lo si racconta e finché non si cerca il lato divertente di qualsiasi storia, sennò quella storia rischia di essere solo una lamentela.

– Il tempo per una battuta è l’unica cosa che non si può insegnare. È qualcosa di magico, di inafferrabile. È una partitura scritta con l’inchiostro invisibile. Qualcuno la sa scrivere, ma solo per se stesso. Altri non lo sanno fare. È brutale da dire, ma così è.

– C’è sempre spazio per un aneddoto divertente, c’è sempre spazio per il ricordo di una storia. Chi non ha tempo o voglia di ascoltarli non merita la compagnia che gli viene regalata. Non sto parlando di palco, sto parlando di vita. Per fortuna esistono tante persone fra cui cercare ed esiste, se uno vuole, a un certo punto anche il palco.

– Non esistono momenti divertenti della propria vita che nel ricordarli non feriscano con la nostalgia. Quando si finisce di ridere e il rinculo degli ultimi singulti si spegne – magari a cena fra amici – e si afferra il bicchiere in tavola e si passa ad altro – a un amaro, al caffè, al conto – il sorriso si schiude sapendo che la storia è finita e si torna alla realtà. Come una folata di vento che fa sbattere la finestra. Il ricordo è passato, la storia anche e la vita anche. Quell’istante è per me struggente e dolorosissimo. Ma ce ne saranno altri, magari anche di più belli.

– Io diffido anche da chi mangia troppo in fretta, non mi piace che qualcuno ordini per il tavolo a cena, non amo chi parla di sesso senza che ci sia confidenza estrema. Non sopporto chi guida veloce in macchina o in generale si vanta di imprese esagerate al volante. Non sopporto chi parla di evasione fiscale o chi parla di soldi in generale. Non sopporto chi urla il proprio giudizio su un film mentre è ancora in sala o peggio a teatro.Ma soprattutto non sopporto chi non ride o ci tiene a dare l’impressione di non ridere mai, di non perdere tempo con l’umorismo. Non le persone che ridono poco o hanno una risata difficile. Parlo proprio delle persone sempre serie. Inculatevi! Trovatevi fra di voi al circolo degli inutili e andatevene a fare in culo tutti insieme.

– L’umorismo è come una carie nei denti. Fa male, ma senza non si possono espiare i propri peccati.

Quando si fa ridere qualcuno per qualcosa è una soddisfazione enorme. Non c’è nulla di più convincente a livello umano dell’ascoltare una risata, ma non bisogna dimenticarsi che la prima da ascoltare e da non dimenticare è la propria risata. Perché ridiamo solo per un motivo: per sentirci meno soli.