Luca Pakarov

ARTICOLO n. 26 / 2025

NESSUNO IN COMUNE

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – 
Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

Merda. Merda pure questa. Porcheria. Non ce la fanno. Ma come si fa? Che vergogna.

Sei mail, sei comunicati stampa, sei allegati, sei link. A ognuna aveva dedicato circa 10 secondi di lettura e contemporaneamente fra i 30 e i 36 secondi di ascolto dalla cassa Bluetooth collegata al telefono. Sei mail arrivate fra le 18 e le 21 del giorno prima e ora, alle 8.15 di mattino, già nel cestino, il tutto mentre preparava e poi sorseggiava caffelatte e inzuppava quattro biscotti all’arancia rinsecchiti mentre rollava una sigaretta, guardava l’orologio e premeva play, avanti, traccia 5, stop e di nuovo play, avanti, traccia 4, stop, guardava l’orologio. 

Alle 9 era al suo posto di lavoro con la divisa rossa e nera del megastore di elettronica, superata la buriana del Natale toccava sorbirsi i ragazzini con in tasca qualche spicciolo, arrivavano frenetici per acquistare controller e volanti da corsa con pedali per PlayStation, videogiochi come Elden Ring, cavetti, si informavano sui droni, poi c’erano tutti gli altri, quelli che cambiavano un regalo doppio, o meglio indesiderato, o quelli mal funzionanti, in quest’ultimo caso si trattava di over 60 incapaci di collegare una rete wi-fi o un cavo usb. Rispondeva impassibile, con le braccia lungo i fianchi e senza muovere le mani alle domande su quanta memoria avesse un tipo di telefono o un portatile; da quando lavorava in quel capannone luminescente si sentiva intorpidito, anche la tecnologia non gli interessava più, si limitava a leggere e a memorizzare le informazioni dei prodotti e a ripeterle, anche il suo store manager, malgrado avesse avallato la sua assunzione, di tanto in tanto lo chiamava in disparte e gli ripeteva di essere più “empatico” con i clienti. Non era questione di empatia, al limite sarebbe dovuto essere più misericordioso, pensava Boris.

Appena poteva adocchiava gli avvisi delle e-mail illuminare lo schermo del suo telefono: MusicaPress, HardcoreNation, JazzCore, MusicFashion, un continuo, il venerdì, giorno deputato all’uscita degli album, almeno venti proposte di dischi “imperdibili” che finivano per autosoffocarsi l’un l’altro. Tempo addietro aveva tirato giù due conti: se avesse dovuto ascoltare tutta la musica che gli propinavano avrebbe dovuto almeno dedicargli cinque ore al giorno, festivi compresi, e per un solo unico ascolto. Sarebbe stato il lavoro della vita, ma mancava il requisito minimo, lo stipendio, per un po’ c’era stato dentro, un fisso per nutrire e crescere la novità dell’online e pagati fuori i pezzi del cartaceo, all’epoca traino della rivista. Poi il settimanale aveva chiuso, cioè era stato venduto, la redazione ridotta al minimo, erano restate solo le pagine online, niente più carta, fino a svuotarla completamente e vendere perfino gli uffici del palazzo di Milano. Boris non era stato capace di riciclarsi come altri, magari come ufficio stampa o con qualche ruolo negli eventi o meglio ancora cambiando completamente strada. Era rimasto a metà, nutrendo una speranza malconcia e vuota, confidando nella lunga storia del settimanale, in un ritorno che aveva qualcosa di mistico e collaterale, immaginando che le cose potessero solo migliorare, nel frattempo firmava recensioni e interviste per un quotidiano, poche al mese, era già un miracolo che ci fosse una pagina la settimana, un contentino che gli permetteva di pagare qualche bolletta, se andava bene. Nel piccolo appartamento che gli aveva lasciato la madre, i dischi erano in ordine cronologico di uscita disposti su quattro pareti, dal pavimento al soffitto, era il suo capitale di storie e di emozioni che gli anni sbiadivano.

«Capo… Quelle cuffie? Che differenza ci sono con quelle là rosse? Conduzione ossea?», indicò alzando il naso.

Diciassette, forse venti anni, insaccato dentro un giubbino di piume d’oca rosso con un marchio che non riconosceva, jeans azzurri stretti, Nike bianche alte con il baffo blu, il volto squadrato incorniciato da un copricapo da skater in lana verde munito di visiera, le tempie strette su cui si reggeva la montatura degli occhiali a goccia che lo faceva assomigliare a Jeffrey Dahmer, o nella migliore delle ipotesi a Thurston Moore. Indicava cuffie stereofoniche con auricolari ergonomici e tecnologia open-ear. Era il momento di essere “empatici”.

«Principalmente il costo… E la marca ovviamente. Certo la marca garantisce più standard di qualità ma per esperienza personale posso dirti che non è esattamente sempre così… Non sono a conduzione ossea… Ma a conduzione aerea, una novità, non c’è dispersione all’esterno ma non ti isolano, in altre parole puoi ascoltare contemporaneamente anche chi ti sta parlando».

Prese le due scatole in mano, le soppesò velocemente, ripose nello scaffale le più economiche. Prima di indicargli la cassa dove pagare Boris domandò appena impacciato: «Posso chiederti cosa ci ascolti…»

«Tutto».

«Cioè?»

«Podcast, videogiochi, lezioni…»

«Musica?»

«Faccio musica»

«Hai una band?», chiese disorientato ma anche, finalmente, interessato. 

«No, scrivo la mia musica, la canto, la suono…», rispose muovendo il capo dal basso all’alto in una spinta di vanità.

«E hai pubblicato?»

«Solo dei pezzi, sono online… su Instagram, BonnyD, tutto attaccato».

«Cosa fai?»

«Trap».

Boris avrebbe voluto arrestare quel furioso oceano di merce e acquirenti per fargli domande se non fosse arrivata una donna con il lungo cappotto nero e un barboncino bianco che aveva la massima urgenza di un computer “per far studiare mia figlia”. Quando si girò, il tizio era sparito, guardò verso le casse ma c’era troppa gente e quel cazzo di barboncino aveva iniziato a sbraitare. Sentì vibrare il telefono, guardò la notifica, una mail del caporedattore, l’oggetto iniziava con FW, gli stava girando una mail. Sapeva già di cosa si trattava.

Aveva recensito un solo disco, uno solamente quasi estorto dal caporedattore, e ora gliene girava continuamente, pareva che di trap nessuno volesse scrivere. Anzi, si vergognavano a scriverne, come fosse la peste. Perché ai più giovani non fregava niente delle recensioni e quindi nessuno ti notava e l’ego restava a secco, perché i quotidiani li leggevano solo i cinquantenni, e manco troppo. E poi nessuno sapeva come abbozzare quel suono inutile, piatto, l’inclinazione commerciale, i testi che veicolavano e celebravano i valori del capitalismo, macchinoni, soldi, donne, fama, tutto la sordida sciatteria della fascinazione verso lo show-business, eppure la maggior parte dei trapper aveva una biografia radicata nei vissuti dei quartieri periferici di Milano o Roma.

In questo senso a Boris mancavano dei collegamenti storici, pareva che in quegli stessi luoghi dove si erano sviluppate le lotte di classe i ragazzi di oggi fossero stati costretti a bere il succo avvelenato del berlusconismo, l’individualismo utilitaristico o il machismo, senza elaborarne l’intossicazione, senza combattere le diseguaglianze imperanti, solo aprendo un ennesimo campo di battaglia della competizione. Ma non si poteva scrivere che ognuno di quei dischi fosse merda, anche se lo era almeno per le orecchie di un cinquantenne, un po’ perché quei successi commerciali dovevano nascondere comunque delle ragioni, un po’ perché dietro tanti di quei presunti artisti c’erano delle major

Stroncare l’album italiano di una major non era conveniente, l’ufficio stampa se ne sarebbe ricordato e il prossimo album non lo avrebbe proposto alla redazione, facendo perdere una notizia, o magari un’anteprima. I magazine online poi, con una buona recensione potevano sperare che venissero rilanciati sulle pagine degli artisti, pagine con molti più follower dei magazine stessi, garantendo click e possibili pubblicità e quindi allungando i tempi di galleggiamento. D’altronde il mondo s’era rovesciato, bastava osservare le medie rock band, da settecento mille spettatori, costrette a pubblicare un album ogni due anni non per vendere dischi, ma per la possibilità di fare una tournee sempre più striminzita con cui tirare a campare. 

Il resto del pomeriggio fu l’inferno in terra, Boris nella pausa sigaretta passava dallo stanzino per fare un goccetto, buttava giù due sorsi di vodka nascosta dentro allo zaino, poi due mentine. Riusciva a restare totalmente lucido se equilibrava vodka e performance orale con i clienti. Era sufficiente non sembrare troppo accelerati. Come un automa o un pannello elettronico dava informazioni e mandava in cassa.

Da quando non andava a un concerto? Dall’ultima volta che gli avevano ritirato la patente dopo un concerto.

Da quando non trascorreva ore a parlare di gruppi, distorsioni, testi, chitarre, live, davanti a litri di birra? Boh, da quando semplicemente gli amici si erano fatti una famiglia.

Da quando non ascoltava un disco in santa pace, giusto per il piacere di ascoltarlo? Probabilmente da quando aveva perso la routine del sabato, quando si rinchiudeva un paio d’ore nel negozio di dischi. Negozio ormai chiuso.

Eppure scriveva ogni settimana di musica. A che cosa serviva se non veniva letto?

A casa cercò BonnyD, quindicimila follower, nessuno in comune, seguiva settecentocinquanta utenti, nessuno in comune. Ripensò a quel volto, alle sue poche ma decise parole, a com’era vestito, un coglione qualsiasi, da cui però trapelava una traccia di fascino che Boris non sapeva decifrare. Cosa lo colpiva? Quindicimila follower erano tanti, troppi per un ragazzino viziato di provincia. Nel profilo c’era lui, BonnyD, con un mantello leopardato, sullo sfondo una giovanissima che si copriva il volto con unghie lunghissime, affilate e nere. Un profilo grezzo, tendente a risaltare la soggettività e l’agonismo verso il consorzio umano, non era ancora arrivato un social media manager, altre foto sempre con BonnyD in primo piano conciato con abiti diversi, emoticon a iosa, notò che non c’era la musica, nella testa di Boris da uno che dichiarava di essere un musicista si aspettava almeno di vedere una chitarra, un microfono, un mixer o un palco.

Non mostrava mai il corpo BonnyD, le felpe troppo grandi e probabilmente ancora non aveva tatuaggi da sfoggiare. In uno scatto era davanti a un capannone dismesso, seduto sul cofano di un’Audi, non troppo diverso dagli scatti che pubblicava Valmir, il suo collega macedone, Boris riconosceva quel luogo non lontano dalla sua abitazione, la fabbrica di elettrodomestici chiusa da un decennio e dove alcuni suoi compagni di scuola si erano seppelliti per anni. Ma se gli assunti stabiliti da Boris, che i giovani poveri avevano eletto come forma artistica la trap per affermare sé stessi e non una comunità, la trap come immaginario personale che facendo leva sul contesto marginale di provenienza fa approdare l’artista a un riconoscimento sociale e quindi economico, un tipo come BonnyD, proveniente da una provincia impoverita ma dove non si era mai troppo poveri, né troppo emarginati, perché aveva scelto proprio quel linguaggio da cui, appunto quel tipo di provincia, sembrava ancora avulsa? O era Boris a essere un primitivo che non aveva intercettato quel linguaggio universale anche lì? Possibile che non riuscisse a staccarsi da tre o quattro elementi con i capelli lunghi e birre in mano che provavano riff e batteria nelle cantine o nei garage? 

Mise “segui” al profilo. Gli sembrò un tradimento, ebbe l’impressione che gli altri suoi colleghi o ex colleghi lo stessero già giudicando. Era il momento di leggere la mail del suo capo. Invero c’era poco da leggere: Te ne occupi tu?

Sotto scorreva il comunicato stampa della major, promuoveva il nuovo disco di SpettoDrama, nelle prime tre righe, come minaccia, c’erano i numeri. Il suo ultimo singolo, Sparo Bianco, aveva ottenuto in pochi giorni 700.000 streaming, la sua pagina Instagram contava quasi 1 milione di follower. Dopo le origini magrebine, il passato difficile a Quarto Oggiaro da cui si poteva sottendere qualche arresto, solo in ultimo arrivava la musica, una spruzzata di musica tanto per capire che si caldeggiava un disco, prima solo storytelling, il personaggio. Non si diceva granché, venivano toccati i temi ricorrenti come “l’uso di sostanze”, la “ricerca di una felicità in un mondo sempre meno ospitale”, “l’alienazione generazionale”, “autentico e diretto”, “il lirismo autoriale”; l’ufficio stampa in un lodevole sforzo edificava l’apparenza, ripuliva l’artista prevenendo possibili critiche ai testi. Ma quali critiche? Alberto, un conoscente che scriveva per il defunto Suoni Diversi, si era azzardato a cassare come inascoltabile il disco italiano della “nuova scena rap” promosso da una major, subito non aveva più ottenuto ingressi gratuiti poi gli erano stati richiesti sempre meno pezzi. Alberto aveva raccontato che l’ufficio stampa e il manager, senza mezzi termini, avevano chiesto la sua testa, di non farlo più scrivere dei loro clienti. Chissà se si trattava di una fantasia per deviare sull’ingiustizia la storia del suo fallimento. Infatti Alberto aveva rinunciato, insegnava matematica alle scuole medie e scriveva banalità su Facebook. Boris rimase stupito dal post con cui Alberto annunciò il suo ritiro, una lunga e passionale tirata sulle motivazioni, il contesto e la fiducia venuta a mancare, neanche fosse stato Lester Bangs che lasciava Rolling Stone. Trovò Alberto ridicolo, il post di cattivo gusto, non credeva che uno all’apparenza timido e sufficientemente sfigato si credesse tanto posizionato nello sterile giornalismo musicale del Paese. 

Ok, ci penso io, 1.200 battute?

Risposta: Facciamo 2.400. Il doppio, il doppio significava ascoltarlo almeno tre volte ed escogitare qualche buon motivo per scriverne. Riempì un bicchiere di bianco e avviò lo streaming riservato con codice, dalle casse collegate al computer partì subito la voce anonima di SpettoDrama mitigata dalle distorsioni dell’autotune. Non lo irritava ciò che diceva, Boris teneva alla larga i moralismi, Spetto Drama non ce l’aveva con i ricchi, voleva essere ricco e ci stava riuscendo con barreegotrip, rime con cui esaltare il proprio fottuto ego, e poi una quantità di simboli e loghi della modernità collegati in un caotico paesaggio. Boris cercò di isolare alcuni passaggi della seconda traccia, Solo Io:

Ho un Rolex che brilla, lo so che ti acceca,
le lancette girano, ma la strada è diretta.

Stavo giù, ora volo, skyline nella tasca,
oro sul polso, il tempo non mi manca.

Cazzo e stracazzo. La generazione di Boris e quella prima si erano formate anche sul cantautorato impegnato, poteva piacere o meno ma aveva influito sui musicisti e più in generale su tutta la produzione culturale di chi a un certo punto s’era dedicato al rap o al rock alternativo, al reggae o al dub, al trip hop o alla no wave, al noise o al funk. Tutti, secondo Boris. Almeno tiravano fuori dei contenuti pure quando il contenitore faceva schifo. SpettoDrama cosa aveva ascoltato da ragazzino? Cosa gli avevano fatto? Quei suoni, il basso profondo, i testi intermittenti, producevano in Boris una sensazione di perturbamento, forse per la costrizione di non poter spegnere e l’obbligo di tirare fuori qualche frase sensata.

Sin dal principio delle sue collaborazioni aveva applicato una sorta di personale etica delle recensioni: non stroncava i piccoli, meglio non parlarne, che importanza aveva infierire con articoli spietati o peggio sarcastici su chi non si reggeva sulle proprie gambe? Su chi ci stava quantomeno provando? Si stroncavano solo i grandi nomi, quando necessario, quelli che ormai campavano di produzioni importanti e di due dischi buoni che ritornavano in almeno mezza durata dei loro live. Nel modo di intendere le cose di Boris, gli inviavano dischi, gli offrivano da bere e biglietti gratis, certo per lusingarlo affinché scrivesse due righe buone ma anche per il rispetto che si era guadagnato. Ora nemmeno i grandi potevano essere toccati, la faccenda si era squilibrata dall’altra parte, agenzie di booking e manager emanavano troppo potere, gli stessi investivano spiccioli di pubblicità dei loro eventi, banner e pagine, e i loro clienti avevano troppi follower, una forza subdola ma costante che pesava su quotidiani e le poche riviste rimaste. Se ne parlavi, dovevi parlarne bene. Nessuno lo ammetteva ma era diventata la regola.  

In un paio d’ore scrisse quello che poteva, rimanendo più neutro possibile, zero aggettivi qualificativi, riempiendo altri due bicchieri di bianco, riportando tutti i nomi dei feat del disco, alcuni titoli dei pezzi, info biografiche del comunicato stampa e qualche rima non esageratamente patetica per allungare un brodo insipido. Come per discolparsi nel pezzo accennava a una supposta “incomprensione generazionale”. Due ore fastidiose, ventidue euro netti. Se considerava l’ascolto, almeno quattro ore, sempre ventidue euro netti. Ore che tuttavia lo portavano avanti, provava ancora piacere a vedere la sua firma stampata sulla carta, un’ottusa vanità ma che lo faceva resistere ed esistere, un passo alla volta, almeno nel lento andare della sua bolla di lavoratori culturali sottopagati, bolliti e prossimi a scomparire. Era l’unica comunità che gli restava, quei pochi con si sentiva al telefono per lamentarsi per questo o quell’altro. Ormai il discorso girava solo sull’Intelligenza Artificiale. 

L’appartamento a piano terra puzzava di umidità, mentre ripiegava nell’armadio con le mani gelide una delle due divise del negozio di elettronica, asciutta dopo una fredda giornata al sole, pensò di essere ciò che sapeva essere: un vecchio idiota nostalgico. A conti fatti il passato era meglio del futuro, sacrificando il presente. Un reazionario frustrato, completamente scollegato dalle realtà che raccontava, con l’intransigenza bovina che prima o poi l’avrebbe trasformato in un silente elettore di destra. Un pensiero che lo fece immalinconire.

Le settimane a seguire nel negozio regnava una calma apparente, meno clienti ma più lavoro, l’ordine era di riformare l’area degli elettrodomestici per un’operazione di cross-selling, lavatrici e asciugatrici in primis, portarle in fondo al negozio, far risalire invece verso la vetrina televisioni e stazione Apple; rinnovare senza rinnovare un bel niente. Era come scavare buche per poi riempirle, il commesso veniva pagato per lavorare, Boris comunque preferiva l’attività fisica che il servizio ai clienti. E poi, tornato a casa, senza la matassa di parole sperperate durante il giorno, riusciva a scrivere più facilmente. Il giovedì notte in cui stava sistemando un’intervista alquanto banale per un disco shoegaze, niente di che ma conforme ai suoi gusti, si accorse che la recensione di SpettoDrama era stata pubblicata. Manco lo avevano avvisato. Per quel che poteva contare, non ci pensò nemmeno a condividerla sui social, nessuno sarebbe andato a leggerla tantomeno SpettoDrama che neppure doveva sapere dell’esistenza del giornale.

Rivendicandola su Facebook però correva il rischio di qualche commento a cui sarebbe stato obbligato a rispondere, il pericolo era di ritrovarsi, un messaggio dopo l’altro, proteggendo essenzialmente la sua firma, a difendere il disco di SpettoDrama. Quei quattro sfigati come lui che si etichettavano come critici musicali ogni tre giorni accendevano su Facebook baruffe e piccoli scannamenti su temi a cui a nessun essere umano munito di un briciolo di buon senso fregava un cazzo di niente, poteva essere una classifica, l’ospite di un festival, un premio, la dichiarazione del frontman, il ricordo di quella volta che avevano preso una birra con il morto del giorno. Un intrattenimento che lo coinvolgeva sempre meno.

Quando lo vide entrare stava trasportando con il carrellino la nuova Whirlpool 10 kg, prezzo ottocentodieci euro. Lo osservò mentre si guardava attorno disorientato, quando BonnyD individuò Boris incrociò il labirinto dei reparti e giunse davanti a lui. Stesso berretto, stessi occhiali, ma indossava un giaccone da snowboard lungo, bianco, con dei disegni infantili, casa cane albero.

«Sei Boris, giusto? Ho letto quello che hai scritto di SpettoDrama…»

«L’hai letta? Dove?»

«Social».

«Ti è piaciuta?»

«È il migliore…»

Boris ridusse l’inclinazione del carrellino e appoggiò delicatamente la lavatrice, poi restò come sospeso, leggermente ebete. Per la prima volta, nel grande magazzino, gli veniva riconosciuto un ruolo che non fosse il commesso, l’unico che avesse visto al di là della divisa rossa e nera era un ragazzino di cui non aveva nessuna stima. A cui non attribuiva nessun valore ma per cui aveva, sì, un briciolo di curiosità.

«Se mi lasci la mail ti invio il mio EP, esce fra una settimana».

«Etichetta?»

«Io».

BonnyD adoperava gli attrezzi obsoleti dell’ambiente in cui Boris si era forgiato, mai aveva sentito di un trapper che inviava il disco bramando una recensione. BonnyD che di periferie e dissing non doveva sapere un accidente, proveniva dal passato ma cercava disperatamente di entrare nel futuro con gli strumenti che aveva: il suo background, un software di merda, le sue parole loffie e la sua voce. Boris provò una punta di pena per quello sbruffoncello. Però aveva coraggio, voleva distinguersi mentre lui, Boris, che strada aveva intrapreso per distinguersi? 

Scoccò la decisione: sarebbe stata la sua ultima recensione e si sentì meglio.

«Lo ascolto, certo. Se non mi piace lo stronco», disse mentendo mentre rialzava la lavatrice.

ARTICOLO n. 86 / 2022

DA DOVE VENITE VOI CHE SCRIVETE QUI?

Joseph Ponthus, la generazione X e il lavoro culturale

Farsi da soli, in tanti sensi e contesti, anche i peggiori. Meritocrazia, autoimprenditorialità, self-made o deregulation, parole sospette interiorizzate a forza a inizi anni 2000, contraddittorie e pericolose quando messe sul piano pratico. Da ragioniere diplomato con il minimo dei voti a laureato in filosofia, conti e partita doppia non erano il mio forte. Poi un master in comunicazione grazie a una borsa di studio, qualche corso di informatica, diploma di lingua, il tesserino da pubblicista e altre licenze ad attestare alta funzionalità e adattamento. Nel mezzo, già da quando ero a scuola, dai 14 anni, sempre il lavoro, fabbrica di scarpe, cameriere, taglialegna, imbianchino, aiuto cuoco, call center, fabbrica di vasche idromassaggio, portalettere, lavorazione materie plastiche, assicuratore, call center, barista, fabbrica di luci, parcheggiatore, aiuto scenografo, ognuno li ho attraversati. Nemmeno li ricordo tutti, sono sicuro che in parecchi casi sono stato pagato in nero, o parzialmente in nero, erano comunque soldi. All’inizio non percepivo la ricchezza come sostanza, era idealizzata, la ricchezza riguardava l’umano, risiedeva nelle mie esperienze, in una vita piccola ma avventurosa, attiva, in cui allargare gli orizzonti, conoscere altre vite, altre possibilità e crearmi un’idea. La mia famiglia non mi ha mai fatto mancare l’essenziale, quand’è stato possibile mi ha aiutato con il denaro, ho avuto il motorino, la vecchia Lancia Delta di mio padre. I soldi erano importanti, certo, non fondamentali, sapevo di avere una casa a cui tornare, ho sempre vissuto con poco, in camere o appartamenti minimi, viaggiare appena possibile, assecondando un forte quanto celato senso di autodeterminazione e l’insofferenza di quegli anni. L’autodeterminazione veniva dall’aria che avevo respirato, famiglie contadine, ex mezzadri che superato il dopoguerra di fame e fatica stavano bene, inventandosi, rinnovandosi. L’insofferenza era la provincia, la noia e la ripetitività da cui scappare.

Oggi, a 45 anni, sono uno splendido esempio della Generazione X, senza figli, senza Dio, non sposato, due gatti, pessimista, sradicato, precario cronico, si potrebbe pensare libero in qualche modo, operativo su tanti fronti, svariati lavori ma quelli per cui ho più interesse e in cui mi sento comodo non mi permettono di saldare i conti: sono ufficio stampa e organizzazione di eventi ma solo in determinati periodi, quando serve, lavoro con gente di cui ho stima, con cui mi accordo ma che, capisco, non possono darmi continuità. E poi ho scritto dei libri e tanti articoli in rispettabili testate. Sulla carta potrebbero sembrare buoni numeri, in qualche modo dovrebbe essere tutto ok, ma ristagno, incapace di prendere delle decisioni, una caratteristica della Generazione X, quando ti guadagni ogni pezzettino non vuoi lasciare nulla, specialmente se tanti pezzettini ti permettono di mangiare. Così l’agenda è piena, scadenze in diversi settori ma che non mi rendono campione in nessun ambito, so adeguarmi, afferro e sbrigo nei tempi le consegne, ma comunque non ci campo. Ecco allora l’altro lavoro che svolgo quando le scuole sono aperte: è l’AEC, l’assistente educativo culturale o assistente scolastico o altre cento sigle che fanno intuire quanto sia vago questo ruolo, favorisco l’autonomia degli alunni disabili all’interno della scuola, assunto da una cooperativa sociale. Non so se ho la vocazione per lavorare con i disabili ma lo so fare, questo è certo come certi sono i pochissimi diritti, chi ci lavora sa, il fantastico mondo del sociale è impegnativo e rende una miseria, spesso a cottimo, a chiamata. È un paradosso, l’art. 1 che disciplina le coop sociali recita: hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini, ok bello, aiutiamo gli altri ma a noi chi ci aiuta? Si è pagati in base alle ore svolte, alunno malato allora sostituzioni, spezzoni qua e là oppure, semplicemente, meno cash. In estate sei sospeso, vai a capire cosa significa se non entrare in una terra di nessuno, perché hai il contratto a tempo indeterminato congelato, non ti pagano ma non ti spetta Naspi né tantomeno la cassa integrazione. Per avere uno stipendio sopra ai mille euro devi fare tante, troppe ore per un lavoro usurante. Ogni tanto, come se fosse uno sport estremo, mi presento dai sindacati, vari, a caso, li ho ascoltati quasi tutti, giusto per vedere dietro alla scrivania ripetere il copione di sempre, quelle braccia che si allargano e lo sguardo rivolto verso l’alto, ho bisogno di (ri)sentirmi dire che non c’è speranza, che non si può far nulla. «Funziona così», «Ti va bene – dice lui – perché in teoria, essendo tu socio lavoratore, potrebbero impedirti di avere altri contratti», e così via. Una condizione straordinariamente penalizzante, umiliante, antecedente al Pacchetto Treu e quindi al Jobs Act, questo guarda caso introdotto dal ministro Poletti che fu presidente di Cooperative Italiane. Fra gli operatori con un sorriso amaro si dice che i contratti delle coop siano stati la nave scuola del precariato.

Altro paradosso: ho guadagnato di più sotto lockdown; con la cassa integrazione in deroga che in cooperativa copriva pure l’estate e alcuni dei fondi destinati ai lavoratori dello spettacolo, ho incassato di più. Guadagni di più senza lavorare, me lo ripeto quando sono esausto, allora non mi resta che accarezzare il sogno di abbandonare almeno il sociale, di sparire, è un pensiero che scaccio perché devo lavorare. Un retaggio cioè di quel passato operoso e insaziabile in cui sono cresciuto, ne sono consapevole, forse è solo paura, ma ho il turbamento di essere in trappola, sento un bruciore forte che sale dallo stomaco. Ho iniziato a vagheggiare l’ipotesi di prendere la disoccupazione, licenziandomi, facendomi riassumere un mese da chicchessia e così accedere agli ammortizzatori sociali. Ma la mia è una situazione complicata, tanti Cud, diritti d’autore, contratti di collaborazione, contratti di assunzione d’estate, «Ti potrebbero scalare ciò che guadagni con gli altri incarichi», dicono al sindacato. 

Leggo con interesse le storie di precariato ma non mi consolano, si assomigliano a tal punto da trasformarsi in intrattenimento, pure questa qui, ho l’impressione che le testimonianze non servano a nulla quando si è imbevuti dello spietato individualismo alimentato dagli ultimi 30 anni di politiche neoliberali, quando non avverti una comunità intorno non c’è nemmeno nessun eroismo dei lavoratori, solo solitudine se si è continuamente ricattati dalla necessità di tirare avanti. Il lavoro ha perso completamente quella ascendenza immaginifica della giovinezza, ora per quanto mi riguarda resta solo speculazione. La ricchezza è diventata sostanziale e circostanziata, relativa alla sua essenza e complice dell’immanenza, è il conto corrente, sogno 10 o 20mila euro, nemmeno cifre astronomiche, una quota che mi permetta di prendermi una pausa, respirare ed assaporare un cappuccino al bar con tranquillità.

Temo che le mie forze si stiano esaurendo, i pensieri sempre più negativi, ogni giorno perdo qualcosa, la mia sta diventando una spirale di rancore, ce l’ho vagamente con qualcuno poco identificabile da qua sotto, uno spettro, è un processo del tutto involontario che però ancora posso osservare e neutralizzare, ho gli strumenti per individuare l’emotività distorta e le diseguaglianze sociali, non mi sorprendono per niente i risultati delle elezioni politiche, ci sono tante monadi che hanno bisogno di una risposta, qualsiasi risposta, si abbraccia anche la promessa di un miracolo.

Certe volte, rischiando di sembrare maleducato, domando alle persone con cui entro in confidenza cosa fanno i genitori, da dove vengono, generalmente quando converso con chi abita il mondo della cultura. Da dove venite voi che scrivete qui? Sono preoccupato, escludendo quelli bravi e bravissimi che prima o poi si fanno notare, temo che arrivare a un giornale importante sia diventata solo una questione di censo; quanto puoi mantenerti in una grande città con quello che viene pagato un articolo di 4 o 5mila battute? Quanti altri lavori puoi svolgere ed avere la forza, fisica e mentale, di scrivere? Quanto si può resistere? Chi resiste, credo io, è perché parte da un’altra base economica che gli permette di riversare energie vitali su studio e contenuti, oltre al desiderio di vedere la propria firma fra altre più autorevoli, un desiderio giusto e impegnativo. E il fatto in sé seguirebbe solo la logica classista di ogni altra fottuta occupazione, se non fosse che poi a raccontare le storie, la cronaca, la politica, restano quelli che vengono da una data classe sociale, anche se le “classi”, ripete qualcuno, non esistono più. Avranno queste classi medio-alte la capacità di raccontare e dialogare con il malcontento, la sofferenza, lo svilimento o la sfortuna di chi non ha avuto un’istruzione adeguata, di chi è cresciuto in costrutti socio familiari che non gli hanno permesso di mettere il becco fuori di casa? Si discute continuamente di narrazioni tossiche, il problema sta anche a monte, nel sistema di reclutamento e quindi nel sistema produttivo.Ho divorato Alla linea di Joseph Ponthus (Bompiani), tradotto da Ileana Zagaglia, uno degli affreschi più raffinati sull’indecente condizione operaia (anzi del lavoro) che ho potuto leggere negli ultimi anni, una prosa con il ritmo della catena di montaggio e in cui, a un certo punto, l’autore scrive: «Il silenzio sulle nostre vite sembra d’obbligo/La fabbrica prima di tutto e insieme il nostro reddito mensile». Provo la medesima sensazione di abbandono; hai compiuto ogni dettame che ti era stato suggerito e vaghi, a metà della tua esistenza, in una nebbia fitta, in una provvisorietà incapace di guidarti da qualche parte, di costruire, retta solo dall’urgenza del salario. Qualche giorno addietro i soldi di un bonifico mi hanno permesso di sostituire gli occhiali da vista, ci vedevo più niente, pareggiare un po’ i conti con la mia compagna, saldare qualche debito, mi ritrovo sempre a ragionare sulle centinaia d’euro, le bollette, sempre a fare le pulci alle spese. Vivo in provincia e ho un piccolo mutuo di casa, già è arrivata la comunicazione per la revisione dell’auto, automobile che fa quel che può per tirare avanti, per sostenermi, certe volte ci parlo, la convinco ad accendersi e ad accollarsi le mie necessità, tendo a restituire un’anima a chi mi aiuta pure se non ha cuore ma carburatori, l’unico sollievo è solo l’opzione che potrebbe andarmi peggio. Ho la preoccupazione del giorno in cui mi abbandonerà la lavatrice che inizia a far rumori strani, i grattacapi te li costruisci in anticipo, li materializzi, il dentista lo rimando di continuo, le visite di controllo manco a parlarne. Il malessere cresce, certe volte ravviso più avvantaggiato di me chi si è ritrovato anche solo una casa di proprietà, è uno scarto minimo ma fondamentale specie nelle aree metropolitane, ma è solo un’escalation, dopo diventa importante il tipo di proprietà, la zona, quante stanze, terrazzi. In questa ipertrofia dello sfruttamento, spoglio di coordinate e solidarietà, intercetto privilegi e rendite ovunque a giustificare i miei fallimenti e questo stato di perenne insoddisfazione, di sparizione degli obiettivi e dell’essere, infine di eterna sottomissione.