Laura Morante

ARTICOLO n. 94 / 2024

NEVE A NATALE

Premessa. 

Forse perché non ci sono racconti natalizi che non siano sommersi dalla neve, né canti di Natale che non la evochino con toni struggenti, fin da bambina e per molti anni sono stata tenacemente persuasa che la neve a Natale fosse un diritto che mi era stato sottratto. Un dicembre dopo l’altro, il clima temperato della piccola città dove vivevo, così vicina al mare, la privava dell’atmosfera tipicamente natalizia che solo un’abbondante nevicata avrebbe potuto infonderle, riscattandola dalla sua quasi totale assenza di bellezza: carichi di neve, i rami degli alberi privi di foglie avrebbero perduto il loro aspetto spettrale, e i tetti imbiancati avrebbero conferito un’aria di serena dignità agli edifici più squallidi.

Ma soprattutto il silenzioso fioccare della neve avrebbe creato quell’atmosfera di mistico incanto che segretamente desideravo, e neutralizzato le chiassose celebrazioni profane, quasi irridenti, della mia famiglia, che erano per me una dolorosa ferita. 

Così, ostinatamente, negli anni, un dicembre dopo l’altro, ho continuato ad aspettare la neve, e a sentirmi profondamente infelice quando, la mattina della Vigilia, scoprivo attraverso i vetri della mia finestra le consuete sfumature grigio-brune dei nostri inverni troppo miti.

1.

Se ne discusse a lungo, poi si decise che non si poteva assolutamente rifiutare. Ricordo bene le circostanze: la fine di uno dei nostri abituali pranzi sgangherati, con gente che andava e veniva, finché intorno al tavolo (un vecchio tavolo rotondo, cui l’aggiunta successiva di svariate prolunghe aveva conferito una forma semi-ovale) rimanemmo soltanto in quattro: mio padre, mia madre, io – sette anni – e il maggiore dei miei fratelli, la cui opinione in merito era considerata dirimente, in quanto nipote prediletto della Zia. Dalle finestre penetrava nella stanza una luminescenza compatta e grigiastra.

Si disse che la Zia avrebbe avuto su di me un’influenza positiva, che bisognava senz’altro darle ragione sul fatto che il mio esagerato attaccamento alla mamma aveva già avuto conseguenze nefaste: sensibilità morbosa, insicurezza patologica e un’assoluta mancanza di autonomia. 

D’altronde, non si poteva opporre alcun argomento valido alla proposta della Zia. Il Natale nella nostra famiglia era notoriamente privo di sacralità. La celebrazione della Vigilia consisteva in una cena scomposta e rumorosa (che spesso si concludeva con discussioni accanite su temi rigorosamente profani), cui seguiva un frettoloso scambio di regali dal valore puramente simbolico. Il pranzo del 25 non esisteva addirittura. Ci si svegliava a scaglioni, non prima delle dieci, e ciascuno di noi attingeva per proprio conto ai resti della cena. 

Questi furono più o meno i ragionamenti, tutti si trovarono d’accordo e si convenne che il 23 dicembre, appena uscita da scuola, sarei partita per Roma con un treno, in compagnia di uno dei miei fratelli che mi avrebbe lasciata in consegna alla Zia e sarebbe poi subito tornato indietro. Non so più con quali argomentazioni mi venne infine assicurato che avrei tratto grande vantaggio da quella vacanza. Ricordo invece il tono cauto nel quale mi vennero esposte, e l’effetto di angoscioso allarme che quel tono produsse in me. Ciò nonostante, sono quasi certa di essere riuscita a trattenere le lacrime. Rammento lo sconcerto sui visi di mio padre, di mia madre e di mio fratello, quando, a voce bassa, riuscii a formulare la domanda che trattenevo fin dall’inizio di quel fatale dibattito: «A Roma ci sarà la neve?».

2.

La Zia fuma una sigaretta dietro l’altra, letteralmente: spesso usa il mozzicone di quella che ha appena finito per accendersene una nuova. La stanza è bella, alta e luminosa, arredata con mobili antichi, scelti con un gusto raffinato e sicuro che perfino io sono in grado di apprezzare. Presto però si riempie di fumo. Se mi viene voglia di tossire, mi allontano cautamente e faccio il minimo rumore possibile. Altrimenti la Zia alza gli occhi dal suo quadernone, mi osserva con sospettoso fastidio, e poi mi chiede in tono sarcastico se non sono un po’ troppo delicata di polmoni. Lei odia le moine. Chiama moina qualunque espressione, gesto o parola che non abbia lo stigma di un’assoluta e decisa franchezza, prossima alla brutalità. Io invece sono spaventata dai suoi modi perentori; perfino il suo accento romano, molto più spiccato di quello del babbo, mi incute terrore. Non ho paura che mi picchi, intendiamoci. Ho paura del suo giudizio e del tono sprezzante con il quale potrebbe esprimerlo. Tanto più che, per quanto io sia sinceramente intenzionata a rispettare il Regolamento, so che ogni mossa potrebbe costituire un’infrazione, perché non mi riesce proprio di capire in che cosa il Regolamento consista. Sono su un campo minato. Muoversi il meno possibile, parlare il minimo indispensabile. Ma allora la Zia dopo un po’ alza lo sguardo dal quadernone, mi osserva un momento, e poi mi sorride in un modo che mi sembra inquietante, malgrado i suoi occhi grandi, allungati e chiari esprimano una certa indulgente dolcezza. «Ti annoi?», mi chiede, «Ti faccio paura? Ti manca la mamma?». Con la testa faccio segno di no, sincera per un terzo soltanto: sono troppo spaventata per annoiarmi, e la mamma mi manca al punto che il solo sentirla evocare mi fa venire voglia di piangere. Con grande sforzo, resisto. Piangere, lo so, sarebbe l’errore fatale, il passo falso che mi precipiterebbe all’Inferno. 

3.

Non ho mai visto niente di paragonabile a quest’enorme piazza. È immensa e sontuosa, circondata da palazzi fastosi, ci sono tre fontane, un’antica chiesa e un obelisco. Ma soprattutto decine di bancarelle sfavillanti di luci che si accendono a intermittenza sono affiancate le une alle altre lungo tutto il perimetro. Fra le fontane si aggirano tre o quattro uomini sommariamente travestiti da Babbo Natale, proponendo fotografie con i bambini che passano trascinati dalle mamme. A quello che ci interpella (una foto con la nipotina, signora?) la Zia lancia un’ingiuria romanesca che risuona lancinante e feroce.  

Mi strattona brutalmente, benché non ce ne sia bisogno: ho saputo che Babbo Natale non esiste ancora prima di prendere coscienza di esistere io stessa, e comunque è fuori questione che io osi esprimere in presenza della Zia un desiderio futile come quello di fare una foto. D’altronde, per non correre rischi, non esprimo alcun desiderio, neanche dopo le ruvide e impazienti sollecitazioni della Zia. È lei stessa a scegliere per me, pezzo per pezzo, un presepe artigianale con case di cartone dipinto, statuette di gesso, una grande capanna di sughero, alberi, uccelli e altri animali, il tutto al costo di 19,300 lire. 

4.

Siamo in un quartiere di palazzoni moderni precocemente invecchiati. Alle finestre le serrande sono quasi tutte abbassate, ma in molti casi sono rotte e pendono di sbieco rispetto alla linea dei davanzali, e allora si intravedono sale da pranzo avvolte in un alone bianco, famiglie riunite intorno a tavole apparecchiate. L’asfalto della strada è disseminato di buche, più o meno grandi, più o meno profonde. I lampioni emettono una luce giallastra. Le vetrine sono quasi tutte buie, tanto che, passandoci davanti, posso vedere il mio riflesso accanto a quello della Zia, incappucciata in un foulard dai colori gitani. 

Le poche luminarie natalizie hanno un aspetto malinconico, perfino il ritmo del loro accendersi e spegnersi sembra più lento, come se fossero stanche di quell’inutile occhieggiare. Le automobili ci ignorano e passa del tempo prima che riusciamo ad attraversare, grazie alle vigorose imprecazioni della Zia. Poi ci dirigiamo verso la Trattoria, indicata obliquamente da un’insegna al neon lastricata da cadaveri di mosche morte da tempo. Entrando, siamo avviluppate dal caldo insalubre dei caloriferi. La Zia chiama per nome la cuoca e titolare, dandole del tu, e lei, una donna alta e massiccia, con un largo grembiale, le risponde con lo stesso tono familiare. Ma mi accorgo bene che il suo sorriso e i suoi occhi esprimono sentimenti ambivalenti: compiacimento, timidezza, gratitudine e un’ombra di timore, lontano parente della paura che mi attanaglia.

Al tavolo ci aspettano tre amici della Zia, due uomini e una donna. Senonché gli uomini hanno qualcosa di femmineo, e la donna esibisce un’accentuata rusticità. Pare impegnata a dimostrare fino a che punto sia immune da ogni civetteria. Vengo presentata brevemente. Ottemperando a un misterioso precetto, tutti mi trattano come un’adulta, rivolgendomi qualche domanda alla quale oso appena rispondere, troppo timorosa di non essere in grado di adeguarmi. Per il resto della cena vengo quasi del tutto ignorata. La Zia mi sembra la sola che abbia un comportamento naturale, benché esorbitante. Parla molto e a voce molto alta. Le sue affermazioni suonano come sentenze inappellabili. Gli altri paiono impegnati in una paradossale partita a scacchi, nella quale l’obiettivo di tutti consista nel perdere, anziché nel vincere. Un passo indietro, due di lato, un piccolo salto in avanti, scacco matto, vince la Zia. Guardo l’alberello della vetrina, circondato di bottiglie impolverate, di flaconi di vetro opaco, di grosse forme di pecorino, e altri oggetti consumabili e non, vivi e morti. È un alberello artificiale, issato su un piedistallo di metallo plastificato, guarnito di una decina di palle rutilanti e attraversato da pochi fili spelacchiati color argento. In cima all’albero c’è un puntale dorato che lo fa pendere leggermente da un lato. 

È il 24 Dicembre, penso. A casa mia genitori e fratelli stanno mangiando senza assaporare nulla, impegnati in qualche discussione non procrastinabile. Sotto l’albero preparato in fretta, impacchettati verosimilmente con la carta del Natale passato, ci sono i regali, che tutti scarteranno fra poco, ringraziando con sorrisi distratti.

5. 

La sento la voce della Zia. Ma è come se venisse da un posto molto lontano, o molto profondo. Non posso rispondere, anche se vorrei. Devo fare attenzione a dove metto i piedi. Il terreno sul quale sto camminando è pieno di insidie. Sabbie mobili, voragini. Anche l’aspetto innocuo di questa piccola spaccatura potrebbe preludere a una caduta vertiginosa in abissi senza fine. Forse viene proprio da questi abissi la voce della Zia. Cammino. Urto mobili, travolgo oggetti, rovescio un tavolino, ma continuo a camminare, non posso proprio fermarmi. Dietro di me sento l’ansimare di una belva: una tigre, un leone, un leopardo? Non oso voltarmi per accertarmene, e poi che differenza potrebbe fare? Non ho modo di mettermi in salvo, si tratta di scegliere: lasciarsi divorare dalla belva o rischiare di precipitare…

Il giorno dopo ho la febbre. Non una grande febbre, poche linee sopra la temperatura normale, ma la Zia mi tiene a letto per precauzione, o forse perché la mia presenza non le arrechi fastidio. Tutta la mattina è stata china sul quadernone, scriveva in gran fretta, come fosse anche lei inseguita da una belva, ma senza voragini e trabocchetti a impedirle la fuga. Andava via spedita, e io non esistevo, e mi piaceva immensamente non esistere. 

Più tardi la sento parlare al telefono. All’inizio ascolto distrattamente, attenta soprattutto al suono della sua voce, che sale, scende, si impenna. Mi sembra prodigioso questo suo modo di parlare, come se nessuno dei concetti, nessuna delle convinzioni che pure esprime con estrema forza avessero bisogno di scaturire dalla riflessione. È tutto lì, già pronto, come un’immensa biblioteca istantaneamente consultabile, dove anzi ogni cosa ti viene incontro da sé, prima ancora che tu sappia di averne bisogno. 

Dopo un po’ la sento pronunciare il nome del babbo e allora sì, mi metto in ascolto. Dice che lui le aveva assicurato che era una fase superata, che certo non si aspettava una cosa così, che non può starmi dietro tutta la notte per evitare che mi faccia male… Magari mi arrampico su una sedia, mi butto dalla finestra, convinta di essere un’aquila reale, oppure do fuoco alla casa, che ne sai?… Dice che non può permettersi di sperperare le sue notti… Se non dorme lavora, e se non lavora deve dormire per essere in grado di lavorare il giorno dopo. Poi dice anche che mi credeva più vivace, più interessante, che le sembro avviata a diventare una sorta di gentile vegetale… Educata, sì, lo sono, anche troppo, il genere di educazione piccolo-borghese che ricevo in casa, non da parte tua, s’intende… A questo punto la sento accendersi una sigaretta, aspirare, assentire con una sorta di acuto mugolio e infine dire non lo so… Domani, stasera, il prima possibile… 

6. 

Chissà se in famiglia sono contenti che io sia tornata prima del previsto. Sembrano normali, come sempre; cioè non indifferenti, ma svagati, distratti. Forse alcuni dei miei fratelli non hanno neanche fatto caso alla mia assenza. Io la mia allegria so di doverla nascondere, almeno per un po’. Ma non mi riesce bene. La mamma dice che ho gli occhi che brillano e che è inutile che io mi finga contrita, lei non ci casca. Con il babbo dovrò stare più attenta, ci teneva a questa cosa: che la Zia mi avesse presa in simpatia, che volesse considerarmi quasi una figlia. A quel che capisco, sarebbe stata una specie di promozione. 

Fortunatamente, quando viene a darmi la buonanotte, non ho bisogno di fingermi dispiaciuta o delusa, perché lui dà per scontato che io lo sia e si preoccupa solo di consolarmi, di minimizzare. Non è che io non le piaccia, mi dice. «Anzi, ti trova interessante, ma hai questo problema, che sembrava superato – ti ricordi? – Erano mesi che non succedeva più. E lei in questo momento non si può permettere di non dormire. A me invece queste tue scorribande notturne non hanno mai dato troppo fastidio. Forse perché comunque spesso soffro di insonnia e quando ti incontro in corridoio di notte mi piace scambiare con te qualche parola… Perché a volte mi rispondi, sai? E anche se sul momento sembra che tu dica solo cose buffe, che non hanno senso, poi, ripensandoci, un senso si trova, anzi, è come una chiave magica che apre una porta misteriosa, attraverso la quale si entra in luoghi sconosciuti, che altrimenti rimarrebbero inaccessibili. Peccato che con la Zia tu non abbia parlato».

7.

La mattina del 27 dicembre mi sveglio contenta, quando tutti stanno ancora dormendo, oppure ascoltano la radio, o guardano il soffitto pensando ai fatti loro. Fuori piove, un vero temporale: ogni tanto si vede un lampo e poi, dopo un istante, si sente il tuono, forte da far tremare la casa. Mi alzo e comincio a scartare il mio presepe, pezzo per pezzo. Ieri sera in giardino sono riuscita a trovare un bel po’ di muschio, ho raccolto anche del ghiaino dal vialetto e fra la spazzatura ho ripescato diverse carte natalizie per creare un fondo. Le stendo sul tavolo della sala da pranzo – non quello intorno al quale mangiamo, un altro quadrato, più piccolo, che si trova contro il muro, sotto una finestra. Creo i rilievi, dispongo le case, la capanna, gli alberi, i personaggi e tutti gli animali. Sistemo bene il muschio, alternandolo alla ghiaia. È bello, ma manca ancora l’essenziale. Vado in cucina, mi arrampico sul tavolo, apro il pensile in formica e prendo un pacco di farina. E finalmente, sulla scena natalizia, nevica. Nevica sulle case, sulla capanna, sugli alberi, sui giocatori di carte, sul venditore di caldarroste, sui pastori, sui doni per il Bambino Gesù, sui contadini, sulle pecore con i loro agnelli e sui quattro allegri mangiatori di pastasciutta che, incuranti del freddo e della neve, siedono intorno a una tavola generosamente imbandita. Un raggio di sole, inaspettato, si fa strada fra le nuvole nere e viene a colpire il mio presepe, come una consacrazione.