ARTICOLO n. 69 / 2022
Di Jessica Au
STORIE DI FANTASMI
Traduzione di Camilla PIeretti
Sto rileggendo per l’ennesima volta un racconto di Maupassant che ho sempre pensato si intitolasse I danzatori, ma che in realtà si intitola Il minuetto. Non ricordo quante volte io l’abbia già letto, so solo che probabilmente lo rileggerò ancora e ancora.
Tutti i ballerini del breve documentario indossano una sorta di uniforme: un body nero con maniche a tre quarti e dei collant senza piede semiopachi che terminano qualche centimetro sopra la caviglia, per cui sembra che portino una specie di tuta aderente con una scollatura ampia e generosa. Sono scultorei e disadorni. Martha Graham diceva che niente dovrebbe ostacolare il corpo, che va modellato, disciplinato e onorato.
In Territory of Light, di Yuko Tsushima, una madre single e la figlia vanno sul tetto del palazzo dove vivono per cercare l’origine di una perdita d’acqua. Una volta lì, scoprono che la torre idrica è straripata e che il tetto è coperto da una patina d’acqua perfettamente trasparente che luccica al sole, formando una grande distesa piatta. Il mare, il mare, grida la bambina, raccogliendola con le mani a coppa e immergendovi la faccia.
Un martedì pomeriggio, verso l’inizio dell’inverno, a Melbourne, decido di riguardare un film di Zhang Yimou, Lanterne rosse. La storia è quella di una giovane appena diciannovenne, interpretata dall’attrice Gong Li, che accetta di diventare la quarta moglie di un uomo facoltoso. Al suo arrivo nel palazzo in cui andrà a vivere, viene informata che la famiglia del marito segue varie antiche tradizioni, una delle quali prevede che, quando il padrone decide di passare la notte con una delle sue concubine, fuori dalla porta di lei venga appesa una lanterna rossa. La moglie prescelta gode anche del privilegio di un elaborato massaggio ai piedi e può scegliere il menù del giorno successivo. Inizialmente la giovane, Songlian, che prima del matrimonio studiava all’università, sembra reagire a queste antiche tradizioni con derisione. Le lanterne sono molto alte, metà di un normale essere umano, e talmente pesanti che ci vogliono due servi per appenderle. Ben presto, però, anche lei rimane affascinata da questi rituali e dai piccoli poteri che comportano. Il film si svolge quasi per intero all’interno del palazzo di pietra. Le lanterne rosse e le sete dai colori vivaci indossate da Songlian nelle diverse stagioni creano un forte contrasto con i tetti spogli e le antiche torri, così grigie e sguarnite da far pensare a un deserto.
Il racconto di Maupassant è breve e molto particolare. Il narratore inizia parlando della natura del dolore e di certe cose, di certi incontri, in parte percepiti, in parte immaginati, che penetrano in noi «come lunghe e sottili punture inguaribili» che, dice, perdurano nel tempo. Dopodiché, prosegue raccontando un aneddoto risalente ai suoi anni da studente, quando si era imbattuto in uno strano vecchietto in un angolo del vivaio del Lussemburgo. Presto, il narratore scopre che l’uomo era stato maestro di ballo all’Opéra, all’epoca di Luigi XV e che è sposato a una grande ballerina, una favorita del Re dell’epoca: «Ho sposato la Castris, signore, ve la presenterò se volete, ma viene qui solo più tardi. Questo giardino, vedete, è la nostra gioia e la nostra vita. È tutto quel che ci rimane di una volta. Ci sembra che non potremmo più esistere se non l’avessimo».[1]
«Quando un danzatore è all’apice della potenza», scrive Martha Graham, «possiede due cose splendide, fragili e deteriorabili: la spontaneità, conquistata dopo anni di esercizio, e la semplicità, non intesa nell’accezione usuale, ma come stato di semplicità assoluta, quello di cui parla T.S Eliot e che si consegue sacrificando assolutamente tutto».[2]
Tendo a dimenticare la maggior parte di ciò che vedo o leggo: interi paragrafi di apertura, il contesto generale. Tuttavia, certe impressioni, certi dettagli restano, come insepolti, così che il mio non è più un continuo avvicinarmi a qualcosa di completamente nuovo.
Per tutto il susseguirsi delle stagioni nel film, Gong Li, che interpreta il ruolo di Songlian, porta al polso destro un bracciale di giada. La giada, leggo, è talmente dura da non rompersi se cade e può essere affilata al punto da rigare vetro e acciaio. Mia madre mi dice che assorbe il calore di chi la indossa e che, se le piaci, diventa sempre più verde e quindi sempre più bella nel tempo. Tra i suoi gioielli ha un braccialetto simile a quello indossato da Songlian nel film, anche se quello è più bianco e marrone, mentre il bracciale di mia madre è di un puro verde pallido. Lo tiene in una custodia con una base di plastica rossa e una copertura trasparente, su cui campeggia il nome di una gioielleria di Johor Baharu in caratteri dorati. Tutti i suoi gioielli sono conservati in custodie simili, dalle giade più costose alle collane e ai braccialetti coperti di pietre preziose, adagiati su dischi di cotone bianco da quattro soldi, di quelli usati per struccarsi, che si comprano in farmacia. Di recente, le ho chiesto se potevo rivedere la sua collezione e, mentre eravamo intente in quella attività, mi sono ricordata di averlo fatto spesso con lei, da bambina. All’epoca, tutti quei monili parevano racchiudere qualcosa di profondo. Ciascuno di loro era accompagnato da una storia, che raccontava a chi era appartenuto, chi lo aveva donato e quando. Ho scoperto di avere ancora i miei preferiti, quelli caratterizzati da qualità fantastiche o da una particolare bellezza, verso cui tendevo a gravitare pur senza sapere perché. Leggo che esistono giade risalenti al neolitico che sono state ritrovate in vari luoghi di sepoltura in tutta la Cina, spesso in forma di uccelli, insetti o di creature simili a draghi, ma con un grugno suino. Pezzi dotati di quell’animata astrattezza che evoca le opere di Brancusi, di Isamu Noguchi o di Henry Moore.
William Carlos Williams e le prugne in frigorifero. Anne Sexton e la figlia a cui un cavallo ha pestato un piede. Anne Carson e Monica Vitti, che percorre anche lei un paesaggio desertico in cerca dell’amica. Marie Howe come Maria Maddalena, che si tocca il braccio sinistro, poi il destro, poi di nuovo il sinistro e ancora il destro. Ma questa volta un po’ più forte.
Leggo che, quando Marie Taglioni danzò per la prima volta in La Sylphide, nel 1832, indossava un abito di mussola senza spalline, una gonna che le arrivava a metà polpaccio, collant rosa e scarpette di seta. Per la prima volta, ballò sempre sulle punte. Il suo abito sarebbe diventato una specie di uniforme, replicata ancora e ancora negli anni a venire. Scopro che, nonostante il fascino dei dipinti di Degas, la vita delle ballerine dell’epoca aveva anche un lato oscuro, che spesso venivano sfruttate e pagate molto poco per la loro arte. La tendenza dell’epoca era il romanticismo gotico. I danzatori erano silfidi e spiriti, fatti d’aria e adorni di tulle e di mussola. Morivano durante il primo o l’ultimo atto, ma a volte anche sul palco, quando i loro costumi spettrali prendevano fuoco sulle luci a gas.
Per prima cosa, al nucleo di caolinite veniva applicato del pigmento blu. Il tutto veniva poi ricoperto da una lacca trasparente e cotto ad alte temperature. Dopodiché, toccava a smalti di colori vivaci, verdi, rossi e gialli. Spesso, sul blu visibile sotto la lacca venivano dipinti dei motivi colorati che conferivano all’insieme l’effetto fluttuante di una sovrapposizione di disegni.
Un tempo preparavo spesso un riso verde portoghese con olio piccante, coriandolo e succo di limone. È un piatto molto semplice e c’è stato un periodo in cui io o il mio partner lo cucinavamo quasi tutte le settimane. Il riso è quasi più un risotto, con cime di rapa e cavolo nero. Per preparare l’olio usato per condire il riso, bisogna saltare peperoncino fresco e secco con aglio, alloro, sale e pepe nero in una padella dal fondo spesso. Dopodiché, bisogna aggiungere aguardente velha, aceto di vino bianco, succo e scorza di limone e dell’altro olio d’oliva. Il sapore penetrante dell’aceto e la freschezza dell’olio, che vanno ad avvolgere il blando amido del riso, sono rassicuranti, irresistibili, e mi fanno pensare ai mesi che abbiamo trascorso tra Lisbona e Porto. È lì che ho assaggiato per la prima volta i tortini all’uovo portoghesi, che mi hanno ricordato i dan tats di cui mi abbuffavo da bambina durante lo yum cha a Chinatown al punto da essere una delle prime cose che ho comprato per mia madre quando è venuta a stare da noi.
Il bracciale di giada mi entra sul polso sinistro, ma non sul destro. Ti bastano solo due o tre cose, dice Corrado.
Nel racconto di Mavis Gallant The Cost of Living, i quattro personaggi – due sorelle australiane, una giovane donna di nome Sylvie e un attore di nome Patrick – sono appaiati e insieme posizionati l’uno contro l’altro, come in una danza. Gallant scrive di Parigi in inverno: una città buia e fredda, di musei e di luci aride, di caffè pieni di vapore e di «acqua che ti ruscella sulle scarpe». The Cost of Living è un’opera sensibile alla qualità delle cose: arance, cipria, profumi Miss Dior, cracker salati, un sottogonna in pizzo di sangallo. Una delle sorelle, Louise, la più ricca, tiene un registro di tutte le spese che ha, suddividendole su due colonne: Necessaria o Superflua. In una scena, la si descrive come abbigliata con un lungo abito di lana grigia e dei braccialetti di turchesi provenienti dalla Cina. È in questa veste che incontra Patrick, l’attore che, per breve tempo, sarà anche suo amante. Louise è rispettabile, per bene. Ha fatto il proprio dovere ed è riuscita ad accumulare una piccola fortuna. È molto generosa con Sylvie, la parigina, che copre di regali. Anche Sylvie un tempo è stata amante di Patrick, cosa che non è chiaro se Louise sappia oppure no. Sylvie sogna di poter calcare le scene, veste di stracci ed è debole e impotente. L’altra sorella, Puss, la narratrice, si mantiene insegnando musica. A lei Louise offre attenzioni e compagnia, ma niente di materiale e soprattutto mai del denaro. Ogni personaggio vive in un delicato equilibrio con gli altri. Dapprima, le donne sembrano tutte orientate in qualche modo verso Patrick, ma quando lui se ne va cominciano a gravitare l’una verso l’altra. Nel corso della storia, ogni personaggio si muove e gira come un cuscinetto a sfera, le sue motivazioni e i suoi desideri imperscrutabili finché non vengono svelati, emergendo all’improvviso come teatranti da dietro le quinte.
Dai diari di Mavis Gallant, scritti a Madrid nel maggio del 1952: «Ho sperimentato di nuovo quel secondo di pura gioia che mi capita di provare di tanto in tanto. Come sempre, è arrivato senza preavviso ed è svanito quasi subito. Stavo andando in panetteria, con le ultime undici pesetas che avevo in tasca. È una sensazione difficile da definire e forse non dovrei nemmeno provarci… Nel ricordare la scena, vedo me stessa e la strada in una luce chiara ma sfocata, statica, come una proiezione fermata di colpo. Ricordo che d’un tratto mi sono venute in mente queste parole: “Adesso lo saprò”, poi, quando l’onda di una sensazione che posso solo descrivere come pura gioia ha iniziato a ritirarsi: “È per questo che si vive”».
Tornando a casa, in macchina, ascolto un podcast in cui si parla di una designer che si è creata un unico outfit da indossare ogni giorno per sei mesi, in modo da non dover più scegliere ma da poter mettere sempre la stessa cosa, giorno dopo giorno. Era una sorta di camicione. Penso a quanto potrebbe piacermi come idea.
A casa di mia mamma c’è una confezione di torte lunari, regalo di un’amica. Ogni anno mi dimentico quando cade di preciso la festività, ma so che in quel periodo le torte lunari faranno la loro comparsa nella sua cucina. Si presentano in un’ampia varietà di latte e scatole, confezionate magnificamente ma con troppi strati protettivi e carte, che mi ricordano le scatole di cibo, dolci e torte in vendita nei grandi magazzini di lusso a Singapore o in Malesia, da portare in regalo quando si va in visita da qualcuno. Le torte sono spesse e pastose, preparate con semi di loto o di azuki e con tuorli d’uovo salati. Mia madre le taglia in quarti da dividerci. Se preparate correttamente, il tuorlo dovrebbe galleggiare nel ripieno come la Luna in un cielo notturno. La storia, ricordo, è quella di Cheng’e, che beve l’elisir dell’immortalità e fluttua su, su, fino alla Luna. In alcune versioni, Cheng’e beve l’elisir, che appartiene al marito, per evitare che un ladro riesca a rubarlo; in altre, non riesce a resistere alla tentazione di diventare immortale e, avidamente, lo beve tutto mentre il marito è assente. In entrambi i casi, però, trascorre il resto dei suoi giorni sola, a fluttuare vicino alla Terra per rendersi visibile, ma comunque lontana.
In un libro di tessuti giapponesi acquistato durante un recente viaggio a Sydney: una luna bianca, del colore della seta invecchiata, sul pannello posteriore di un kimono. Su questa base sono ricamate campanule grandiflore e miscanti, i cui motivi sembrano fluttuare come nuvole.
Anche Songlian fluttua, verso la fine di Lanterne rosse. Perlomeno, è la sua mente a fluttuare, la sua formazione, la sua sanità mentale. Devastata dalle macchinazioni della famiglia e della servitù del mondo chiuso in cui è capitata, tormentata dal ruolo svolto in due diverse morti, ben presto diventa anche lei un fantasma, che si aggira per il palazzo indossando gli stessi abiti con cui è arrivata, i capelli nuovamente acconciati in trecce infantili, come a voler richiamare la donna che era entrata lì portando con tanta fiducia il proprio bagaglio, dalla propria casa a un futuro che ancora non poteva immaginare.
Nel vivaio di Lussemburgo, il vecchio maestro e la Castris ballano un minuetto per il narratore. È, lo si capisce, un’apparizione penosa e comica. Quando la coppia si muove, è come vedere dei vecchi giocattoli, delle bambole con un meccanismo un poco rotto. I loro passi, che un tempo saranno stati eleganti, ora paiono comici e sorpassati. Quando il narratore torna a Parigi, due anni dopo, scopre che quella parte del vivaio è stata distrutta: proprio il luogo di cui il maestro e la ballerina, per loro stessa ammissione, non avrebbero potuto fare a meno. In questo senso, mi ricorda il palazzo d’infanzia di Leopardi, o i «russi bianchi» con cui Taeko, la più giovane delle sorelle Makioka, va a cena nel romanzo di Tanazaki.
Traduzione di Camilla Pieretti.