Giosuè Calaciura

ARTICOLO n. 43 / 2021

COMPARSE

ESTATE A ROMA

Spettri, miraggi, riflessi del passato nella città svuotata di agosto. Nel silenzio elegante del pomeriggio di via Giulia dove ormai hanno dimora solo stranieri e ricchi, tra gli angeli di pietra del Gonfalone e i putti di gesso di Santa Maria del Suffragio, ho visto galleggiare nell’aria bollente la lupa della bandiera della Roma campione d’Italia 2001. Lontano, il canto eroico di una voce ormai roca per lo sforzo e la solitudine: «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Itaglia siamo noi…». Un uomo magrissimo in costume da bagno, berretto e canottiera giallo-rossa. Agita lo stendardo, avanza al passo della vittoria, mi guarda. Ha gli occhi rossi. Forse per la soddisfazione di quelli che non sono abituati a vincere e che ancora non si è sciolta nel calore estivo, forse per lacrime di nostalgia: il campionato è finito da molti mesi. Per un attimo ha vergogna. Scompare in un vicolo verso la Moretta. Di quell’uomo e della sua magrezza rimane il canto che torna ad alzarsi, a rimbalzare sulle mura dei palazzi del Seicento sino a degradarsi in un’eco, in un sussurro, e finalmente nel silenzio per lasciare il palcoscenico sonoro all’urlo dei gabbiani che seguono il corso stanco e secco del Tevere.

Pochi passi più a Nord, in via del Consolato, ho visto una coppia di giovani, lei italiana e bianca, lui straniero e nero. Soli nel cuore della solitudine di agosto, appoggiati al cofano di un’automobile incandescente. Il ragazzo piangeva. Scosso dai singhiozzi, il viso lucido di lacrime. La ragazza tentava di consolarlo, una carezza sulla nuca, un braccio sulla spalla. Con un fazzoletto gli asciugava il pianto nella speranza che coagulasse nel silenzio della rassegnazione. Ma li ragazzo non riusciva ad arginare il lamento del suo cuore spezzato. Dall’amore finito? Da un’offesa? Da un tradimento? Non lo saprò mai. Per pudore, per non turbare l’intimità di quel mistero anch’io sono scomparso perdendomi in un vicolo.

Sul ponte degli Angeli ho visto comitive di stranieri sfuggire per curiosità al controllo della guida turistica, abbandonare il sentiero di sicurezza della fila indiana per affacciarsi sul Tevere: nel fiume qualcosa attira la loro attenzione. E non capiscono se sia verità o l’ennesima, patetica attrazione di questa Roma Disneyland con gladiatori e antichi romani in costume che sudano sotto gli elmi e gli scudi, fumando e addentando pizza bianca farcita. Un corpo a faccia in giù galleggia nella corrente annoiata di agosto. Le canne emerse per l’assenza di piogge lo rallentano, lo fermano, e, a contrastare la corrente, gli impongono evoluzioni, capriole, giravolte.

I turisti pensano al partigiano del film Paisà ucciso dai nazisti trascinato dalla corrente del Po. Immaginano un set, si guardarono intorno, cercano le cineprese, le comparse, il regista. No, non è finzione.

Altra gente si accalca sul ponte Vittorio Emanuele. Accolgono il corpo che avanza su un versante e poi si allontana sull’altro. Attraversa le campate dei ponti Principe Amedeo, Mazzini, del ponte Sisto, Garibaldi. Indugia all’altezza dell’isola Tiberina non sapendo se scegliere il ponte Cestio o il Fabricio, per qualche attimo scompare tra le rapide delle cascate per poi tornare in superficie e continuare la sua lenta corsa attraverso tutta Roma con la testarda volontà dei cadaveri che vogliono arrivare sino al mare per trovare pace. Il raccapriccio della città a poco a poco diventa semplice curiosità. Al tramonto si è ormai spento nella noia mentre il fiume continua a scorrere per versarsi nel Tirreno.

Li ho visti. Si offrono agli sguardi solo per sottrazione degli altri diversivi nella città che si svuota e per moltiplicazione nello sconforto demografico. Sono gli anziani, i vecchi di Roma, fossili come le pietre dei Fori, silenziosi come le catacombe chiuse ai turisti, forastici come i gatti di Torre Argentina. Animali mimetici che si confondono nella città operosa. Come tutti i consumatori certificano l’esistenza in vita sugli scontrini degli acquisti nei supermercati glaciali di aria condizionata e nelle botteghe di quartiere. Solo nella luce piena di agosto, senza altri nascondigli e distrazioni, è possibile registrare la loro presenza. Soli di una solitudine che lievita e tutto inghiotte durante la giornata nella città estiva: dall’illusione della luce del mattino all’estasi del pomeriggio soffocante, dal pasto serale al tavolo della cucina con il balcone spalancato per invitare a cena le voci della città, sino al sonno come un anticipo di morte. Ma i vecchi vivono l’esistenza dei fantasmi in carne e ossa, spettri senza trasparenza.

Li ho scoperti a villa Celimontana mentre cercano fresco e riparo sotto i salici piangenti, li ho notati per contrasto con i bambini privi di villeggiatura che giocano a rotolare come cadaveri senza governo dalle pendici del parco giù giù sino alla pista di pattinaggio. I vecchi osservano i bambini e i bambini guardano i vecchi dai vertici opposti dell’esistenza. Riflessi nello specchio dell’altro ciascuno contempla il mistero di essere al mondo nella parabola indicibile e assurda della vita. I vecchi sopportano i bambini solo nello spazio neutrale dei giardini pubblici.

Proprio per le ferie di agosto i figli tornano dalle residenze lontane per un breve soggiorno di visita e di saluto nelle acque morte delle ferie agostane. Si appoggiano nella casa del nonno in attesa della coincidenza del volo, per comprare i costumi e i giochi d’acqua ai nipoti, per una cena di commiato alla pizzeria ai Marmi di Viale Trastevere che in romano chiamano l’Obitorio.

In casa c’è solo il nonno perché la nonna è morta. È lui che nell’accudimento degli ospiti si sbraccia nei servizi di casa, lava i piatti, rassetta. E quando la nuora gli grida «Papà, riposati», lo invita  a mollare la presa sulle attività quotidiane, lui risponde che invece è contento di quella fatica perché da quando è vedovo lava solo un piatto, una padella e una piccola pentola.

Ma è troppo prossima la convivenza con i nipoti bambini, troppo pervasivo il fracasso dei loro giochi, dei litigi e delle zuffe. I bisogni  e le speranze della famiglia del figlio non gli appartengono più.

Nemmeno il loro odore. Colonie e deodoranti, il sudore dei bambini, hanno cancellato il profumo della moglie che ancora riesce a riconoscere a folate di pochi istanti. Lo ha sentito appena sveglio al mattino. Il rumore del ventilatore gli ricordava l’elica del Fokker del viaggio di nozze. Costiera amalfitana. Un’altra estate. Sotto il lenzuolo l’erezione fastidiosa di istinti abbandonati, sogni che non ricorda più. E il profumo della moglie nel sentore di sudario dei cuscini.

Lo ha sentito ancora, a ora di pranzo, sventolando la tovaglia sul tavolo della cucina. E ancora, aprendo l’armadio per cambiarsi: l’odore dei vestiti della moglie che non ha cuore di regalare. «Potresti portali alla Caritas per chi ne ha davvero bisogno: papà, sono ancora in ottimo stato», suggerisce la nuora.

Coglie ogni scusa per uscire, per fare la spesa, per attività di fantasia inventate al momento. Per sottrarsi, per fuggire. Non ama che quella donna, la moglie del figlio, in fondo un’estranea, lo chiami papà. Ricorda i commenti della moglie sul letto a pochi giorni dalla morte: quella non era la donna adatta per il figlio, così formale, così altezzosa negli sguardi, così diversa.

Al supermercato scopre di avere dimenticato la lista della spesa. Attraversa i corridoi con gli scaffali domandandosi: cosa mi manca? Il pensiero della spesa era il pensiero della moglie. Lei regolava tempi e modi degli acquisti. Lui spingeva il carrello e guardava il mondo. Adesso deve governarsi da sé, inventariare, stabilire la gerarchia delle necessità, distribuire gli acquisti dei generi più pesanti nella misura accettabile per le sue forze. Ma la memoria è sgomenta: nessuna lista della spesa, nessun acquisto riuscirà a riempire il vuoto, a ripristinare la routine della sua vita.

Oggi ha comprato solo una busta di biscotti secondo il consiglio della pubblicità in tv: una donna anziana, una nonna, che sforna per i nipotini la fragranza della sua pasta frolla. Sarà il suo pranzo.

Non vuole tornare nella casa assediata dalla famiglia del figlio, dai loro odori, dai loro rumori, dalle loro urgenze, dai loro progetti che hanno il respiro del futuro. Lui ha solo la contingenza. E la memoria. Con la confezione dei biscotti in una mano sale sull’autobus. Eccola la città vuota. Stremata dall’assenza, dalla fatica delle carovane dei turisti, dalle saracinesche abbassate. I compagni di viaggio sono come lui: anziani con una sporta in mano. Non sopporta quel riflesso della propria condizione. Gli sembra esausto, così prossimo al capolinea che non arriva mai. Scende alla fermata della Chiesa Nuova, in corso Vittorio Emanuele. Il mercato di Campo de’ Fiori sussulta di calore e di folla: si addensano stranieri e romani che ad agosto possono permettersi di non lasciare la Capitale e di acquistare mazzi di tuberose. È troppo anche per il suo bisogno di distrazione.

Piazza Navona sembra congelata di calore nei suoi riverberi di luce. Si spinge sino a piazza del Popolo che sembra ricoperta d’asfalto bollente. Poi il Pincio nella fatica della salita, incrociando in processione turisti e ragazzi. I ragazzi. Quanto volte, proprio lì, tra i viali di villa Borghese senza malizia li ha osservati pomiciare, baciarsi a bocca aperta come a sfamarsi, toccarsi e abbracciarsi simulando l’accoppiamento. Con tenerezza avrebbe voluto avvertirli, avvisarli che l’amore, la vita, è una caduta senza ritorno, un volo senza paracadute, un’equazione senza soluzione. «Vecchio sporcaccione» gli ha urlato il ragazzo cogliendolo assorto nelle effusioni con la fidanzata. Ha minacciato di chiamare i carabinieri. Adesso sta alla larga dalle coppiette di giovani.

Attende l’autobus del ritorno in viale Washington. C’è un altro anziano all’ombra del tiglio. Come lui. Uguale a lui. Gli chiede se riesce a vedere il numero del bus che sta arrivando. Quello gli risponde: «Perché, c’è un autobus?». È quasi cieco. Un naufrago d’agosto. Ha perso la strada del ritorno. Senza rotta come una tartaruga di mare. Le porte si aprono ma nessuno dei due sale a bordo. Ha deciso: accompagnerà lui stesso quel vecchio più vecchio di lui.

Li ho visti stanchi, claudicanti, uno accanto all’altro avanzare lungo Muro Torto, sfiorati dalle automobili che cercano refrigerio nella velocità a ogni costo. Ai guidatori sembravano un’allucinazione nel deserto di Roma. Li ho visti mano nella mano entrare nella galleria all’altezza di Via Veneto, nel buio sotterraneo del tunnel. Finalmente liberi dalle illusioni e dalle promesse della città. E non avevano paura.