ARTICOLO n. 93 / 2024
LE OCCASIONI DELL’AMORE
La sequenza d’inizio dell’ultimo film di Stéphane Brizé ricorda l’apertura di La femme d’à côté del 1981, il penultimo film di François Truffaut, dove un’ambulanza a sirene spiegate percorre velocemente una strada di campagna nei dintorni di Grenoble. Il film inizia dalla sua fine, la tragedia è compiuta e la coppia di amanti giace l’uno a fianco all’altra senza vita. Una voce fuori campo introduce così gli spettatori in un lungo flashback. Nel caso di Hors-saison di Stephan Brizé, in Italia con il titolo, per una volta non troppo trasfigurante, de Le occasioni dell’amore, e distribuito nelle sale da IWonder dal 23 dicembre, si tratta invece di un’automobile che percorre una strada isolata. Qui non è presente alcuna voce fuori campo, al suo posto una musica, o meglio un umanissimo fischiettio tanto nostalgico quanto giocoso e leggero. Il panorama appare desolante e malinconico al limite del tragico, ma al tempo stesso il suo carattere selvaggio rivela una giornata invernale quieta, in cui la Bretagna si rivela nella pioggia e nelle sue infinite gradazioni di grigio (il vero colore nazionale della Francia secondo François Mitterrand).
Le analogie tra i due film si esauriscono dunque quasi subito, ma l’origine resta solida. Si tratta infatti per entrambe le pellicole di una storia d’amore in cui il sentimento amoroso prevale fortissimamente sulla storia passata, che pur essendosi consumata negli anni impedisce ai due amanti di lasciarsi per davvero, anzi trova i due protagonisti impreparati e sorpresi.
Hors-saison segue la trilogia del lavoro (La Loi du marché del 2015, En guerre del 2018, Un autre monde del 2021) che avuto come assoluto protagonista Vincent Lindon. Stephan Brizé muta così l’ottica con cui indaga la contemporaneità entrando totalmente nella vita privata dei suoi protagonisti. Gli effetti delle leggi del mercato e della modernità non appaiono più solo all’interno di dinamiche misurabili o esterne imposte da logiche economiche e di forza maggiore, ma anche e soprattutto in quegli spazi intimi sempre poco spiegabili, ma che determinano alla fine quasi tutto nell’esistenza degli umani.
In un’epoca in cui immediatezza e distanza si alternano in modo frenetico e non di rado rapsodico, per non dire assurdo, Brizé mostra come i sentimenti si trovino a gareggiare ridicolmente all’interno di dinamiche performative prive di alcun senso, ma inevitabilmente capaci di soggiogare e ingannare dando forma a ingarbugliate situazioni di assenza e di perdita di sé.
Guillaume Canet interpreta Matthieu, un personaggio non troppo distante da se stesso, ovvero un attore parigino di successo. Matthieu è in uno stato di crisi evidente. Uscito in maniera fallimentare da una prova teatrale per lui cruciale, ma che non ha avuto il coraggio di affrontare fino in fondo – al punto da abbandonare all’ultimo teatro e compagnia disertando la prima – Mathieu si trova in Bretagna in cerca di pace e di cure, nello specifico all’interno di un lussuoso hotel clinica per cure talassoterapiche.
Matthieu è stretto tra la paura del proprio incombente fallimento e dal disamore per il successo ingombrante e nevrotico – per non dire ostile – della moglie giornalista, che rimasta a Parigi non è certo troppo disponibile ad accettare le insicurezze e le fragilità di un consorte che si rivela un po’ infantile e vacuo.
Mathieu vaga totalmente perso sulla spiaggia deserta così come nell’asettico e medicale hotel di lusso, si offre per selfie di rito e tenta sport alternativi poco incoraggianti, ma come in un noir classico arriva un messaggio dalla reception che sarà la svolta del suo soggiorno in Bretagna.
Mathieu ritrova così Alice, l’italiana conosciuta più di dieci anni prima a Parigi. Un amore passato e in parte rimosso in un dolore per lui represso, per lei lancinante, con non pochi strascichi. Si ritrovano sull’orlo di un equilibrio fragilissimo fatto di sano ordine e puntuale organizzazione. Tutto è stabilito secondo i giusti valori affettivi e relazionali dovuti: un marito per lei e una moglie per lui, una figlia per lei e un figlio per lui, tranquillità per lei e l’agognato successo come attore per lui. Un equilibrio che rivela un’inquietudine e un dolore non dichiarato.
Tutto sembra però far presumere a nulla più che un amabile ritrovarsi, magari segnato giusto un poco dalla malinconia di una giovinezza passata e di qualche desiderio lasciato cadere per strada. E così sembra andare tra una colazione e un pranzo fino a quando non intervengono le prime crepe, e la gentilezza mansueta e affettata viene sostituita da una tensione crescente e da un eros che si mischia all’odio e al rancore. Una felicità inaspettata che si scioglie così in una tristezza forse irrecuperabile.
Il grande amore esplode tra le mani dei due protagonisti che a quel punto come archeologi devono ricomporre pezzo a pezzo il senso della loro storia, numerando fatti e situazioni, catalogando i ricordi sotto il segno di una nuova seppur improbabile possibilità. Entrambi provano ad attraversare il flusso dei desideri cercando di capire cosa resta di loro due e soprattutto se davvero quello tra loro fu il grande amore della loro vita.
Stephan Brizé affronta un tema classico e replicabile all’infinito, e lo fa con la delicatezza propria di un cinema che sa ancora affidarsi alle immagini prima ancora che agli isterici movimenti di camera o peggio a una colonna sonora assordante e inutilmente ridondante. Anzi in Hors-saison tutto è mosso in levare. Tanto più la situazione si complica tanto più Brizé allontana la camera, arretra e lascia allo spettatore la possibilità di un campo largo in modo da non giudicare subito e solo i suoi protagonisti, ma di verificarne innanzitutto il contesto.
Il film evita lo sguardo morale, tipico per esempio dei film di Éric Rohmer e che oggi sarebbe impossibile – in questo società – riproporre ex novo (anche se l’ambientazione potrebbe essere in parte letta come un piccolo omaggio al grande regista di Tulle), e sfugge così sia al genere romantico che al genere noir, inglobandone però gli ingredienti più caratterizzanti nella sua storia. Il rischio e l’imprevisto fanno infatti parte dei sentimenti e del loro movimento inquieto quanto vitale, a patto di non sfondare mai quella parete esile, ma portante, che separa la passione e la felicità; così come anche il dolore, che inevitabilmente ne fa parte, dalla volgarità di una violenza sempre priva di ogni forma di eros e di amore.
Mathieu e Alice si fronteggiano, nudi nelle proprie esistenze, uno di fronte all’altro. A ogni improvviso e ingenuo entusiasmo e risata segue spesso e subito un dolore acuto e imprevisto che si traduce in accuse, rimpianti e repentine fughe. Al punto che anche restare – come Mathieu decide di fare – ha solo il valore dell’ennesima fuga. Che fare allora? Come muoversi? E come restare fermi? La felicità nelle sue varie declinazioni, gioia, risa o baldoria resta un oggetto vibrante e caotico che va allora moderato, anche rispetto al proprio tempo e ai propri restanti giorni. Un tempo, quello futuro che aspetta Alice e Mathieu, e nuove scelte e nuovi compromessi. Come anche quello passato, che li ha visti bruciare insieme gli anni migliori senza avvertenze, senza requie né misura. Gli anni migliori vanno sempre e solo bruciati, anche a costo della banalità, anche a costo della mediocrità.
La clemenza solidale e affettuosa di Stéphane Brizé verso i suoi protagonisti esplicita un tema che lega a doppio filo Hors-saison con tutta la sua precedente produzione: la fragilità, la libertà di scelta e anche un rifiuto dell’eroismo in cambio di una dignità che tolga dall’orizzonte impavidi eroi o tragici personaggi da epica muscolare. Stéphane Brizé ha cura e passione non solo banalmente per le persone, ma per quelle individualità anche eclettiche che hanno la capacità di comporre un popolo ancora possibile.
Così come nel caso della trilogia del lavoro, anche qui i due protagonisti Mathieu e Alice compiono un lungo e duro attraversamento di quelle che erano le loro ambizioni e le loro inevitabili distorsioni, in parte congenite e in parte imposte da un contesto che a loro ha chiesto una performance e un ruolo che non coincideva con la loro forma e con la loro capacità di occupare spazio nel mondo.
Quello che resta è una forma di comunione e di presenza, un riconoscersi reciproco dentro al quale anche gli errori vengono condonati o passano comunque in secondo piano. Resta potentemente un’idea di vita mai persa, mai gettata alle ortiche, ma che orgogliosamente ha seguito il movimento di quelle onde che ora li inseguono lungo la sterminata spiaggia di Saint-Pierre-Quiberon.
Hors-saison è un film piccolo dai movimenti minimi, che offre però grazie all’infinito e icastico paesaggio invernale bretone – cosparso da un perenne grigio metallico – l’evidenza di un tempo imperturbabile, dentro al quale l’umanità si scioglie in un abbraccio fragile e necessario, esile, magari anche irrisolto. Ma ogni volta unico e splendente, diverso e bellissimo.