Giacomo Giossi

ARTICOLO n. 93 / 2024

LE OCCASIONI DELL’AMORE

La sequenza d’inizio dell’ultimo film di Stéphane Brizé ricorda l’apertura di La femme d’à côté del 1981, il penultimo film di François Truffaut, dove un’ambulanza a sirene spiegate percorre velocemente una strada di campagna nei dintorni di Grenoble. Il film inizia dalla sua fine, la tragedia è compiuta e la coppia di amanti giace l’uno a fianco all’altra senza vita. Una voce fuori campo introduce così gli spettatori in un lungo flashback. Nel caso di Hors-saison di Stephan Brizé, in Italia con il titolo, per una volta non troppo trasfigurante, de Le occasioni dell’amore, e distribuito nelle sale da IWonder dal 23 dicembre, si tratta invece di un’automobile che percorre una strada isolata. Qui non è presente alcuna voce fuori campo, al suo posto una musica, o meglio un umanissimo fischiettio tanto nostalgico quanto giocoso e leggero. Il panorama appare desolante e malinconico al limite del tragico, ma al tempo stesso il suo carattere selvaggio rivela una giornata invernale quieta, in cui la Bretagna si rivela nella pioggia e nelle sue infinite gradazioni di grigio (il vero colore nazionale della Francia secondo François Mitterrand).

Le analogie tra i due film si esauriscono dunque quasi subito, ma l’origine resta solida. Si tratta infatti per entrambe le pellicole di una storia d’amore in cui il sentimento amoroso prevale fortissimamente sulla storia passata, che pur essendosi consumata negli anni impedisce ai due amanti di lasciarsi per davvero, anzi trova i due protagonisti impreparati e sorpresi.

Hors-saison segue la trilogia del lavoro (La Loi du marché del 2015, En guerre del 2018, Un autre monde del 2021) che avuto come assoluto protagonista Vincent Lindon. Stephan Brizé muta così l’ottica con cui indaga la contemporaneità entrando totalmente nella vita privata dei suoi protagonisti. Gli effetti delle leggi del mercato e della modernità non appaiono più solo all’interno di dinamiche misurabili o esterne imposte da logiche economiche e di forza maggiore, ma anche e soprattutto in quegli spazi intimi sempre poco spiegabili, ma che determinano alla fine quasi tutto nell’esistenza degli umani.

In un’epoca in cui immediatezza e distanza si alternano in modo frenetico e non di rado rapsodico, per non dire assurdo, Brizé mostra come i sentimenti si trovino a gareggiare ridicolmente all’interno di dinamiche performative prive di alcun senso, ma inevitabilmente capaci di soggiogare e ingannare dando forma a ingarbugliate situazioni di assenza e di perdita di sé.

Guillaume Canet interpreta Matthieu, un personaggio non troppo distante da se stesso, ovvero un attore parigino di successo. Matthieu è in uno stato di crisi evidente. Uscito in maniera fallimentare da una prova teatrale per lui cruciale, ma che non ha avuto il coraggio di affrontare fino in fondo – al punto da abbandonare all’ultimo teatro e compagnia disertando la prima – Mathieu si trova in Bretagna in cerca di pace e di cure, nello specifico all’interno di un lussuoso hotel clinica per cure talassoterapiche. 

Matthieu è stretto tra la paura del proprio incombente fallimento e dal disamore per il successo ingombrante e nevrotico – per non dire ostile – della moglie giornalista, che rimasta a Parigi non è certo troppo disponibile ad accettare le insicurezze e le fragilità di un consorte che si rivela un po’ infantile e vacuo. 

Mathieu vaga totalmente perso sulla spiaggia deserta così come nell’asettico e medicale hotel di lusso, si offre per selfie di rito e tenta sport alternativi poco incoraggianti, ma come in un noir classico arriva un messaggio dalla reception che sarà la svolta del suo soggiorno in Bretagna. 

Mathieu ritrova così Alice, l’italiana conosciuta più di dieci anni prima a Parigi. Un amore passato e in parte rimosso in un dolore per lui represso, per lei lancinante, con non pochi strascichi. Si ritrovano sull’orlo di un equilibrio fragilissimo fatto di sano ordine e puntuale organizzazione. Tutto è stabilito secondo i giusti valori affettivi e relazionali dovuti: un marito per lei e una moglie per lui, una figlia per lei e un figlio per lui, tranquillità per lei e l’agognato successo come attore per lui. Un equilibrio che rivela un’inquietudine e un dolore non dichiarato.

Tutto sembra però far presumere a nulla più che un amabile ritrovarsi, magari segnato giusto un poco dalla malinconia di una giovinezza passata e di qualche desiderio lasciato cadere per strada. E così sembra andare tra una colazione e un pranzo fino a quando non intervengono le prime crepe, e la gentilezza mansueta e affettata viene sostituita da una tensione crescente e da un eros che si mischia all’odio e al rancore. Una felicità inaspettata che si scioglie così in una tristezza forse irrecuperabile.

Il grande amore esplode tra le mani dei due protagonisti che a quel punto come archeologi devono ricomporre pezzo a pezzo il senso della loro storia, numerando fatti e situazioni, catalogando i ricordi sotto il segno di una nuova seppur improbabile possibilità. Entrambi provano ad attraversare il flusso dei desideri cercando di capire cosa resta di loro due e soprattutto se davvero quello tra loro fu il grande amore della loro vita.

Stephan Brizé affronta un tema classico e replicabile all’infinito, e lo fa con la delicatezza propria di un cinema che sa ancora affidarsi alle immagini prima ancora che agli isterici movimenti di camera o peggio a una colonna sonora assordante e inutilmente ridondante. Anzi in Hors-saison tutto è mosso in levare. Tanto più la situazione si complica tanto più Brizé allontana la camera, arretra e lascia allo spettatore la possibilità di un campo largo in modo da non giudicare subito e solo i suoi protagonisti, ma di verificarne innanzitutto il contesto. 

Il film evita lo sguardo morale, tipico per esempio dei film di Éric Rohmer e che oggi sarebbe impossibile – in questo società – riproporre ex novo (anche se l’ambientazione potrebbe essere in parte letta come un piccolo omaggio al grande regista di Tulle), e sfugge così sia al genere romantico che al genere noir, inglobandone però gli ingredienti più caratterizzanti nella sua storia. Il rischio e l’imprevisto fanno infatti parte dei sentimenti e del loro movimento inquieto quanto vitale, a patto di non sfondare mai quella parete esile, ma portante, che separa la passione e la felicità; così come anche il dolore, che inevitabilmente ne fa parte, dalla volgarità di una violenza sempre priva di ogni forma di eros e di amore. 

Mathieu e Alice si fronteggiano, nudi nelle proprie esistenze, uno di fronte all’altro. A ogni improvviso e ingenuo entusiasmo e risata segue spesso e subito un dolore acuto e imprevisto che si traduce in accuse, rimpianti e repentine fughe. Al punto che anche restare – come Mathieu decide di fare – ha solo il valore dell’ennesima fuga. Che fare allora? Come muoversi? E come restare fermi? La felicità nelle sue varie declinazioni, gioia, risa o baldoria resta un oggetto vibrante e caotico che va allora moderato, anche rispetto al proprio tempo e ai propri restanti giorni. Un tempo, quello futuro che aspetta Alice e Mathieu, e nuove scelte e nuovi compromessi. Come anche quello passato, che li ha visti bruciare insieme gli anni migliori senza avvertenze, senza requie né misura. Gli anni migliori vanno sempre e solo bruciati, anche a costo della banalità, anche a costo della mediocrità.

La clemenza solidale e affettuosa di Stéphane Brizé verso i suoi protagonisti esplicita un tema che lega a doppio filo Hors-saison con tutta la sua precedente produzione: la fragilità, la libertà di scelta e anche un rifiuto dell’eroismo in cambio di una dignità che tolga dall’orizzonte impavidi eroi o tragici personaggi da epica muscolare. Stéphane Brizé ha cura e passione non solo banalmente per le persone, ma per quelle individualità anche eclettiche che hanno la capacità di comporre un popolo ancora possibile.

Così come nel caso della trilogia del lavoro, anche qui i due protagonisti Mathieu e Alice compiono un lungo e duro attraversamento di quelle che erano le loro ambizioni e le loro inevitabili distorsioni, in parte congenite e in parte imposte da un contesto che a loro ha chiesto una performance e un ruolo che non coincideva con la loro forma e con la loro capacità di occupare spazio nel mondo. 

Quello che resta è una forma di comunione e di presenza, un riconoscersi reciproco dentro al quale anche gli errori vengono condonati o passano comunque in secondo piano. Resta potentemente un’idea di vita mai persa, mai gettata alle ortiche, ma che orgogliosamente ha seguito il movimento di quelle onde che ora li inseguono lungo la sterminata spiaggia di Saint-Pierre-Quiberon. 

Hors-saison è un film piccolo dai movimenti minimi, che offre però grazie all’infinito e icastico paesaggio invernale bretone – cosparso da un perenne grigio metallico – l’evidenza di un tempo imperturbabile, dentro al quale l’umanità si scioglie in un abbraccio fragile e necessario, esile, magari anche irrisolto. Ma ogni volta unico e splendente, diverso e bellissimo.

ARTICOLO n. 90 / 2024

GIAN MARIA VOLONTÉ ERA UNA COSA SEMPLICE

trent'anni senza

Se ne andava trenta anni fa, in una camera d’albergo a Florina, un paese greco al confine con l’Albania e la Macedonia del Nord mentre stava girando Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos. Un film sull’esilio e sulla guerra nel mentre del disfacimento tragico di quella che fu la Jugoslavia. La notte prima di morire Gian Maria Volonté aveva trascorso la serata festeggiando con la troupe, stando in compagnia e cantando Bella Ciao insieme agli altri. Per una sera si era concesso una festa, un’allegria lontana dalla sua immagine pubblica e dal suo umore spesso scostante, lontano da quella tristezza inquieta e liquida che traspariva dal suo volto anche nelle poche interviste che concedeva con estrema cautela. Era il 1994, dicembre, l’Italia in dieci anni era passata dalla folla dei funerali di Enrico Berlinguer a Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio. La Repubblica uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, quella dei partiti, quella dell’arco costituzionale antifascista, dei rimpasti, del pentapartito, degli accordi di programma e delle convergenze parallele era esplosa sotto i colpi dell’inchiesta di Mani Pulite.

Un mondo nuovo e a senso unico prendeva forma in un ludibrio costante della vecchia politica e delle sue regole ridotta a lacci e lacciuoli. Il paese era inebriato e attraversato da una gelida passione giustizialista al tempo stesso priva di alcuna morale ed etica. Il sogno era il medesimo miracolo di quaranta anni prima, ma sempre a costo zero. Si andava incontro a un mondo senza muri, così si diceva, per chi voleva crederci.

Un mondo che non convinceva per nulla Gian Maria Volonté, già da tempo in fuga dalla facilità di pensiero e dalle sue volgarità. Lo si rivede in alcune sequenze mai montate de Lo sguardo di Ulisse mentre fugge dai cecchini, lui Ivo Levi responsabile e custode della cineteca di Sarajevo insieme al regista interpretato da Harvey Keitel. Si vede la loro corsa e la tragica caduta. La fine di un secolo agli sgoccioli ormai consumato e privo di risorse, più che la caduta del muro e dei regimi comunisti (che pure avvenne) si avverte prima ancora la perdita della memoria e la capacità di farne buon uso. Quel conflitto freddo che si risolse con la violenza balcanica fin nel cuore dell’Europa e che ancora oggi è ben lungi dall’esaurirsi, mostrò insieme al desiderio di libertà e democrazia anche il prezzo di una scelta che si sarebbe rivelata inevitabilmente una scelta obbligata per quanto giusta. Una scelta suggerita per non dire imposta dal mondo che si vantava e si vanta ancora della propria libertà in promozione permanente. 

Diffidente dalle cose troppo appariscenti e scintillanti, dalle sicurezze convinte, Volonté prediligeva l’avventura minima e taciturna delle strade secondarie, viottoli dissestati come alternative possibili. Animato da una curiosità resistente e inadatta alle consuetudini delle verità spacciate come assolute, non era a suo agio né ai riti politici né tanto meno a quelli culturali. Come ricorda Marco Bellocchio nel bel documentario di Francesco Zippel presentato quest’anno al Festival del cinema di Venezia, Volonté. L’uomo dai mille volti, Volonté era in grado d’imporre una verità assoluta partendo dalla sua presenza sullo schermo, dalla sua voce, una verità scintillante e inappellabile, ma al tempo stesso un’idea di gioco attoriale intima feroce quanto bambinesca, come ricorda Fabrizio Gifuni. Un riferimento assoluto per qualunque interprete, ma anche un vivere contraddittorio figlio di un tempo di passaggio che vide la coda di quasi ogni utopia.

Un’inquietudine del vivere che oggi viene quasi sempre associata con banalità cinica a disadattati, falliti, tristi, malinconici. A quelle persone che durante il ventennio vennero definite disfattiste, termine che oggi potrebbe finire in bocca a tre quarti della classe politico-motivazionale mondiale. Fino a qualche anno fa ciò assumeva un senso derisorio mentre oggi, non certo in senso migliorativo, ha assunto un tono logico-medicale. La cura non come cura, ma come soluzione. C’è una categoria per ogni disadattato, una patologia per chi la sera ha preferito non uscire a festeggiare, non fare gruppo, non organizzare balli e cene. 

Per chi se ne sta in disparte la vita non è mai stata facile, ma oggi si aggiunge l’indice levato di chi accusa o peggio di chi propone una soluzione, la scelta giusta (e ovviamente sempre obbligata) da compiere perché c’è una sola strada giusta in mezzo a tutte le altre sbagliate.

In una puntata del 1983 di quell’indimenticabile contenitore televisivo che fu sulla Rete 2 della Rai, Gianni Minà intervista Gian Maria Volonté fresco vincitore del Prix d’interprétation masculine a Cannes per La morte di Mario Ricci del regista svizzero Claude Goretta. In quell’occasione Minà chiede all’attore: «Una volta non sarebbe andato Volonté a prendere un premio, dieci anni fa». La risposta è esemplare: «Ma io sono andato quando ci sono potuto andare, in altre circostanze no perché non potevo, dipende». Essere da un’altra parte quando tutto il mondo vorrebbe stare in quel posto, essere da un’altra parte in un esatto e preciso momento non è una scelta per forza sempre di resistenza o di opposizione a un luogo o a delle persone, ma più semplicemente è una forma di piacere altro, una curiosità che andrebbe indagata come tale e non ridotta e trasformata in una modalità conflittuale.

Certo Gian Maria Volonté non era solo questo, era anche romanamente un gran paraculo come ricorda Carla Gravina, sua compagna per un lungo periodo, raccontando delle sue fughe a Parigi che furono tutt’altro che legate a sbandierate motivazioni sessantottine. E proprio questo non toglie nulla, ma aggiunge e perfeziona il disegno di un’inquietudine curiosa e irresistibile di una figura che resta (fortunatamente) invalicabile non solo per la sua assoluta qualità di artista, ma anche per la complessità culturale di cui ogni suo elemento e tratto è intrisa. Un modo d’essere che dice molto di un secolo a cui Volonté appartenne interamente senza sconti alcuni. Dentro al quale le sue leggerezze e le sue inevitabili debolezze definiscono un’umanità frastagliata e spigolosa, priva di ogni gusto per un’organizzazione plastica e confortevole, il corpo per Volonté per gli uomini di quella generazione fu strumentale ai propri pensieri e alle proprie curiosità e non il fine di un’esistenza da musealizzare. Un modo di stare nel mondo senza riparo alcuno, nella vita pubblica quanto in quella privata.

Tutto ciò è qualcosa di molto difficile oggi da comprendere, là dove le categorie prevalgono ben più delle ideologie: schemi mentali forse necessari per un tempo rapido e per un’umanità sempre più in ritardo, così compressa tra destinazioni e obiettivi, liste e necessità di appagamento continuo.

Esporre se stessi richiede infatti una certa forma di cura e non di coraggio, richiede quella voglia insensata di correre nudi in mezzo a un prato perché è bello, punto, non per altro. Sprecare e rischiare, perdere tempo e apparire ridicoli. Ma cosa distingue quindi Gian Maria Volonté da una forma di narcisismo maschile oggi così diffuso? Sostanzialmente il fatto di essere Gian Maria Volonté, non nella sua accezione banale di celebrità o di figura storica, ma di appartenenza e totale aderenza al suo tempo. In questo si vuole intendere precisamente la grazia del movimento, la capacità di solidarizzare con l’altro e il diverso non solo e non principalmente in maniera conscia ed esplicita. Attraversare insieme all’altro la strada, entrare in un bar, girare il cucchiaio nella tazzina, obbligare il bottone della camicia nella sua asola, sospirare fumando sotto il cornicione di un palazzo in un giorno di pioggia. Movimenti intimi compiuti anche in pubblico ma non sotto l’occhio registrante e catalogatori di lenti che impongono un’apparenza continua. Una schiavitù che ormai come una forma di auto censura ci obbliga a una performance obbligata, non nostra, che ci riduce – oltre a lasciarci estenuati e nevrotici – a mediocri conformisti o in alternativa a vanesi saltimbanchi privi di ogni arte, ma solo colmi di ridicolo. La trahison des images, o ceci n’est pas une pipe.

L’incrinatura iniziale si avverte a partire dagli anni Ottanta, che possono essere identificati da una serie di fattori, dal liberismo dei complementari Ronald Reagan e Margaret Thatcher, l’hollywoodiano e la piccolo borghese, fino all’apparire della tv a colori che insieme a una disponibilità economica più facile e diffusa degli anni precedenti genera una pressione sociale che riduce anno dopo anno ogni individuo a strenuo spettatore di se stesso e non più semplice protagonista del proprio sé. Al punto che è quasi impossibile capire se Donald Trump e Giorgia Meloni (al netto dell’irrilevanza dell’Italia rispetto al Regno Unito) siano la versione 2.0 di Reagan&Tatcher o la loro parodia o, peggio ancora, la loro triste nemesi, con il cavalcante populismo di cui si fanno interpreti.

Non c’è alcuna differenza evidente tra Yves Montand che interpreta un piccolo imprenditore meccanico (in Vincent, François, Paul… et les autres di Claude Sautet) da chi imprenditore meccanico lo era davvero negli anni Settanta. Non c’è differenza nei modi spicci, nel portare i vestiti, nel mangiare frettolosamente, nelle mani che avevano per i maschi di allora un’origine comune un po’ selvaggia, un po’ rude e figlia di molta lotta. Ma al tempo stesso nulla distingue un medico o un architetto del tempo dai modi nevrotici e affettati di Michel Piccoli (in L’invitée di Vittorio De Seta) e non si tratta solo di una straordinaria capacità interpretativa, ma anche e soprattutto di un’aderenza storica a quel tempo che oggi si è in qualche modo rarefatta in una fluidità tanto evidente quanto fortemente inconcludente (e faticosissima). Perché il medesimo gioco lo si può replicare con Enrico Berlinguer a cui per esempio Elio Germano assomiglia poco o per nulla, rispetto ai visi e ai corpi di chi per esempio si accalcava a San Giovanni durante il funerale di Berlinguer come si vede nel bel documentario Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer di Samuele Rossi.

Del resto chi oggi potrebbe intuire, vedendone il passaggio su un marciapiede, le professioni delle persone? O anche solo la loro classe o ruolo sociale? Non è una questione di eleganza o di cultura, lo è anche, ma principalmente è una questione di una postura e di stare in un tempo estraneo che coinvolge chiunque, oggi. Si tratta di naturalezza dei movimenti, di aderenza emotiva alla terra come al cielo. 

Oggi tendiamo a vivere come ospiti non graditi, e questo tracima non solo nelle ansie e nelle tragedie del cambiamento climatico, ma nel nostro stesso modo di essere umani. Qualcosa, prima ancora che questi temi si schematizzassero (spesso ridicolmente) ha provato a dirlo una parte del cinema italiano degli anni Ottanta che fu parte in causa della medesima mutazione, ma che fu anche capace di produrre una denuncia utilizzando in chiave diversa e nuova dal cinema degli anni precedenti troppo ancorato a modalità ideologiche che ormai funzionavano poco per il tempo a cui si stava andando incontro. 

Perché se Mario Monicelli aveva ragione su tutto nel dibattere con Nanni Moretti davanti ad Alberto Arbasino a Match (sempre sulla vivacissima Rete 2 Rai di quegli anni), di certo Un borghese piccolo piccolo era tutto meno che un film ben riuscito. 

E allora da Nanni Moretti a Massimo Troisi, da Carlo Verdone a Francesco Nuti si provò con coraggio e spregiudicatezza a raccogliere tutta l’allegria dei Settanta, quella leggerezza utopica che qualcosa aveva smosso e non poco nella società italiana, per utilizzarla – con la sensibilità artistica propria di ognuno – come chiave per rivelare l’inganno a cui si stava andando incontro. Non si trattava di dinamiche politiche o economiche (quelle erano le conseguenze) e ancor meno si trattava di complotti e di grandi vecchi, di CIA e di Kissinger, c’erano anche quelli, come sempre, ma anche loro non erano che la triste conseguenza di un flusso inesorabile che stava portando tutti in alto mare. 

Non si possono non cogliere nelle sequenze di Bianca come di Palombella rossa, di Scusate il ritardo come di Le vie del Signore sono finite, di Un sacco bello come di Compagni di scuola, di Tutta colpa del paradisocome di Willy Signori e vengo da lontano un dolore intimo e struggente che affiora dal carattere stilistico di ognuno di questi registi e attori. Un dolore che fino ad allora venne considerato indicibile in quanto banale (forse per l’appunto disfattista, benché figlio di tutt’altra militanza) o vacuo e che invece loro seppero trasformare in una denuncia di non appartenenza a un mondo nel momento stesso in cui lo si va a rappresentare. Una capacità agrodolce di dare forma a se stessi anche nell’inevitabilità di essere parti integranti e si direbbe di successo di quel mondo a cui comunque seppero opporsi, riuscendo cosi di appartenere al proprio tempo senza tradirlo, ma denunciandone l’orribile movimento, l’inquietante degrado in corso. 

Gian Maria Volonté fu un osso duro, ma la sua lezione come quella di altri come lui prese forma prima di trasformarsi in icona iconica. Le sue prove d’attore lasciano a bocca aperta, non offrono margine alcuno alla riduzione e tanto meno alla mistificazione. È la differenza che corre fortissima tra il non fare le cose per rifiuto e il farne altre invece per infinito piacere. La differenza tra fuggire e rivelare se stessi prima di tutto proprio a se stessi. Era la bellezza seminale di Volonté che fu anche la sua grandezza artistica. Volonté in fondo era una cosa molto semplice, era un uomo bello e anche felice, poi certo c’era il mondo – faticosissimo – in cui stare, ma in cui lui voleva stare strenuamente e senza alcuna mediazione, sempre e solo a modo suo.

ARTICOLO n. 41 / 2024

SALVARSI IN TEMPI OSTILI

Antonio donghi a palazzo merulana

Prima di raggiungere Palazzo Merulana, andrebbe attraversata per quasi tutta la sua lunghezza l’omonima via nel cuore dell’Esquilino. Partendo dal teatro Brancaccio giù verso piazza San Giovanni, via Merulana appare infatti come una strada autenticamente romana, ma al tempo stesso profondamente distante da ogni forma di retorica romanità. Al centro di un’infinita aneddotica storico-artistica, via Merulana è un chiassoso e confuso viale dentro al quale i destini dei suoi abitanti e di chi la attraversa s’incastrano di continuo, in un movimento fatto di ritmi diversissimi: facile inciampare l’uno nell’altro. 

Tra attraversamenti impavidi, frenate improvvise, sirene che sembrano casuali e prive dell’urgenza di un malessere reale, prende corpo metro dopo metro l’idea di un rumore ossessivo e impossibile da arginare. Un caos naturale che vive in uno spazio ampio e ventoso come solo certe strade in discesa fatte di corsa sembrano poter presagire. Una regolarità topografica, un viale alberato elegante che non stride però con il confuso flusso vitale che con rassicurante placidità viene invece affettuosamente accolto. 

Un rumore e un’ampiezza che si esauriscono una volta all’interno della piccola e intima esposizione dedicata, al secondo piano di Palazzo Merulana, ad Antonio Donghi. Poco più di trenta opere, un silenzio icastico rotto solo da un gruppo in gita che subito però si muta, colto alla sprovvista dagli sguardi insistiti dei personaggi donghiani, ma anche dalle richieste di un paio di puntuali custodi. Antonio Donghi. La magia del silenzio curata da Fabio Benzi è un’occasione rarissima e preziosa per poter ammirare il grande artista romano che fu tra i più apprezzati della sua epoca, quando i suoi quadri, esposti a New York alla fine degli anni Venti, venivano contesi nelle aste americane e appesi nei salotti dei più illustri collezionisti d’oltreoceano. 

Priva di ogni forma di solerte nostalgia, la mostra è una riflessione attorno alla forza di quel realismo magico che vide Donghi tra i più brillanti esponenti della corrente pittorica. Una tensione fortemente attraversata da ironia, come si può cogliere nell’emblematico dipinto Mussolini a cavallo del 1937, in cui a vincere, più che l’imperio, è il ridicolo di un dittatore dal pretenzioso profilo statuario. Lo spazio del museo è a tratti claustrofobico, si passa a pochi centimetri dalle opere. E questo, invece che predisporre al caos, offre una possibilità inedita di cura e attenzione. Ci si guarda rapidamente negli occhi con gli altri visitatori, si porge il passo per restare poi attoniti davanti alla grazia e all’insistenza degli occhi che, bucando le tele di Donghi, dagli anni Trenta arrivano fino a noi. Figure che rivelano un sentimento di malcelato abbandono, lo stesso che coglie evidentemente noi e loro in un tempo per quanto ormai post, eternamente moderno e quindi infinitamente tecnico e sfuggevole. La modernità di Antonio Donghi sta proprio nell’inganno di prodursi in una ricca ritrattistica del popolare: lavori umili, semplici, che rivelano però l’attenzione per uno stato psichico inedito. 

Siamo nel pieno splendore di una rivoluzione industriale compiuta, ma solo ora la tecnologia sta mutando da mero strumento a elemento portante dell’umano. E l’ironia dello sguardo, e il suo imbarazzo, sembrano così far dialogare a distanza di circa cento anni generazioni diverse, nipoti e trisavoli. Uno sguardo difficile, peraltro, da sostenere. In questo aiuta la misura della mostra, i suoi spazi raccolti e il desiderio compulsivo che si genera di tornare e ritornare sulle opere. Vedere e poi rivedere ancora, ricercare nei particolari un motivo, una possibile scusa per salvarsi, noi con loro, in un tempo così profondamente ostile. 

Le opportunità si confondono con i pericoli, allora come oggi, quasi un unico tableau vivant in cui rispecchiarsi a figura intera, trattenendo il respiro. Gli oggetti sono quelli d’uso comune, un paio di forbici abbandonate, una canna da pesca, un vaso di fiori e un cilindro, tutto è ben disposto come a disposizione di un’indagine. Anche i bellissimi dipinti di paesaggi infatti offrono una prospettiva precisa ed elegante, che va al di là di un’esigenza di composizione e che diviene vero e proprio strumento d’analisi di ciò che resta negli occhi dopo tanto obbligato silenzio. 

Così avviene in uno dei più famosi dipinti di Donghi, Il giocoliere del 1936, che ferma lo sguardo in perenne sospensione. Il giocoliere è ritratto di profilo, in surplace mentre sostiene un cappello a cilindro con una canna serrata tra le labbra. Il palmo della mano, totalmente aperto al centro del quadro, diviene il punto focale oltre che d’equilibrio di un gesto che permane, offrendo forse la parte più erotica e umana in perfetta simmetria con la forma affusolata di un vaso di fiori. Una specie di doppia natura morta, in cui solo la mano tesa sembra poter decidere l’equilibrio finale o il suo possibile ribaltamento. Si vorrebbe non smettere di fissare, per raggiungere possibilmente quell’istante perenne che sembra offrire un’immortalità sicura. 

Anche le figure femminili appaiono ferme e stabilissime: puntano gli occhi sui visitatori invece impacciati, se non imbarazzati. Stupende le Lavandaie del 1922, così come le due donne ritratte in Gita in barca del 1934. In entrambi i casi colpisce l’assolutezza degli occhi, la consapevolezza acquisita, segno di un’emancipazione che contiene in nuce un’idea matriarcale avvolgente e inclusiva. Si resta spogliati da se stessi, in una visione che incanta e al tempo stesso addolora, parentesi tra la ferocia che richiede protezione e armamenti e un silenzio che vorrebbe solo un lungo e delicato abbandono. 

Nato a Roma negli ultimi scampoli dell’Ottocento e morto sempre a Roma nel 1963, quando il mondo occidentale si gode gli anni Sessanta e l’Italia vive il boom economico sotto forma di misticheggiante miracolo dalla cui retorica probabilmente mai si riavrà, Antonio Donghi resta forse il primo tra gli artisti italiani contemporanei a vivere una fama internazionale, restando però al tempo stesso confinato negli anni precedenti la Repubblica. Non tanto e non solo per la sua equivoca convivenza con il regime fascista, ma per una convinzione appartata della pittura e dell’arte, che poco si adatta alle esigenze sociali e culturali del secondo dopoguerra. 

Una qualità estetica capace di cogliere l’umano nella sua discreta e a volte anche mediocre intimità: il tinello, un lavoro umile, una gita fuori porta. Gesti quotidiani che, isolati dal rumore che ritorna prepotentemente una volta tornati lungo i marciapiedi di via Merulana, rivelano il loro infinito valore: quello del tempo vissuto, dei gesti compiuti, magari all’ombra di un pensiero distratto, ma che restano fortemente nei palmi di una mano ancor più che nelle convinzioni di una testa. Sempre più troppo distratta, e abbandonata al pensiero (impossibile) di un rassicurante presente.

ARTICOLO n. 45 / 2023

NANNI MORETTI IN FUGA

Il sol dell'avvenire

L’immagine è quella di un uomo di quarant’anni, capelli lunghi e ondulati, fisionomia sottile. Quest’uomo vaga lungo un viale con gli occhi arrossati dalle lacrime, cammina senza pace. È ottobre, è Parigi e quel viale è Boulevard Raspail che quel giorno di ottobre del 1984 apparirà ancora più grigio di come già non sia solitamente. Un viale che è un lungo vuoto che scava non poca angoscia nel mezzo di Montparnasse. Quell’uomo è Jean-Pierre Léaud e ha saputo da poco che François Truffaut è morto. L’uomo che lo ha cresciuto e formato proprio come un padre è morto all’assurda età di cinquantadue anni. Léaud non si dà pace e forse non si darà pace mai più. Siamo nel mezzo degli Anni Ottanta, ma i francesi ancora non lo sanno. François Mitterrand è presidente già da tre anni, molti sono delusi, ma in qualche modo Ronald Reagan e Margaret Thatcher appaiono ancora lontani e con loro appaiono lontane le facce orribili di anni che si pretendono leggeri e spensierati e che non saranno altro che il primo volgare rigurgito di una mostruosità antropologica che oggi i nostri anni accolgono invece con assurda ovvietà. 

La fine della storia non riguardava la storia in sé, i cicli economici e di potere, ma avrebbe riguardato invece le nostre stupide facce intrise di espressioni sempre più prive di memoria. La morte di Truffaut segna in un certo senso un passaggio, illuminato ancor di più durante le sue esequie dall’icastico viso atrocemente bello e straziante di Fanny Ardant. Appariva in quel giorno di lutto sui volti dei presenti la grana spessa del tempo e della memoria. Le storie erano ancora visibili come tatuaggi fissati nel pensiero di chi le aveva vissute e ben percepibili da chi ancora allora sapeva leggere nel prossimo. Gli occhiali scuri erano indossati per non esibire il proprio dolore: quanto stridore con gli occhiali scuri di oggi, inforcati invece solo per evidenziarlo durante funerali assordati dagli applausi. Il gesto è il medesimo, ma l’effetto è decisamente di verso opposto. 

François Truffaut lottò fino all’ultimo, non tanto con la malattia, ma con la propria meraviglia che aveva la forma del fare cinema, e non derogò mai alla propria arte come al proprio desiderio. Quello che allora aveva assunto la forza di un’utopia del possibile oggi, nella migliore delle ipotesi, è solo una pericolante perdita di controllo, un fare cinema ridotto ai minimi termini e sovrastato da apparenza mista a paura, angoscia e panico da sala vuota.

E allora bisognerebbe tornare a Jean-Pierre Léaud, alla sua mano. La immaginiamo mentre scorre sottile tra i capelli per fermarli dietro all’orecchio prima che ricaschino oltre, mossi dal vento e dallo sconforto di quell’ottobre. Torniamo a un attore fragilissimo come dovrebbero essere forse sempre gli attori. Un artista cui va conquistata la fiducia perché si possa fidare e affidare, perché possa essere controllato facendosi guidare fino al punto di offrirsi al proprio pubblico libero e vivo per sé e per gli altri. E vivo per sé e per gli altri Léaud lo è stato in maniera assoluta e splendida. 

Un piacere per gli occhi, un dono raro. Ed è di questa forma di controllo, che seppe offrire Truffaut, e di questa forma di fiducia che seppe offrire Léaud che oggi latita sempre più un’arte cinematografica decadente e a tratti moribonda, in parte nei suoi contenuti, quasi sempre nella sua fruizione. Un cinema che da sala è diventato da cameretta, una forma di fruizione ridotta che non riguarda ormai più il popolare, ma quella che si dice una sua nicchia; che sia ceto medio, più o meno riflessivo conta ormai ben poco.

E attorno a questa forma insieme di riduzione e di mancanza sembra parlare il cappio che sta al centro della scena de Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Cappio con cui dovrebbe impiccarsi il protagonista del film di Giovanni, Silvio Orlando, ma che al tempo stesso sembra destinato proprio a Giovanni. Un regista, quello interpretato da Nanni Moretti, non esplicitamente depresso o privo di idee, perché molti film ha ancora in mente di fare, ma rinchiuso in una gabbia critica e soprattutto autocritica, ormai incapace di cogliere la realtà e il suo senso.

Un suicidio, una morte che aleggia attorno a tutto il film di Nanni Moretti come al film che Giovanni pretende insistentemente come politico. Una morte quasi desiderata, una fragilità esposta eppure inedita al punto da capovolgere il ruolo e il compito di un regista che pare ormai in balia degli eventi (Giovanni) e privo di una poetica che da sempre lo ha caratterizzato (Nanni Moretti). 

Nanni Moretti, in anni in cui il cinema italiano declinava pericolosamente riducendosi a pochi autori (e ancor più a pochi spettatori) e a una produzione di bassa qualità, ha – con Sogni d’oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1985) mostrato un’idea del cinema netta e anche divisiva. Un regista che ha sempre imposto un controllo ossessivo nella regia, nel controllo del set e nella caratterizzazione dei suoi personaggi. Moretti ha rappresentato un cinema innovativo, ma fortemente classico nella visione generale, segnato da un tentativo di controllo a tratti assoluto che ha in qualche modo reso impraticabile uno sguardo permeabile, ampio e curioso su una società e su una realtà che il regista romano non sembra più in grado di leggere, prima ancora che di rappresentare. Se nel 1984 Michele Apicella in Bianca uccideva i suoi amici perché non poteva controllarne le storie, oggi Giovanni preferirebbe fare da sé uccidendosi e lasciando perdere tutto il resto. È come se la fragilità dell’attore – quella di Jean-Pierre Léaud sperso lungo Boulevard Raspail – si fosse trasferita ad un regista diventato lui stesso il fulcro e il centro della scena, ma al tempo stesso la sua negazione: perché senza di lui – «mi viene da dirgli: spostati un po’ e fammi vedere il film» disse Dino Risi, non resta più nulla, non c’è nessuna scena, nessun film. Un regista che non controlla, un regista che non decide si trasforma in un film che non può esistere.

Un film su se stesso e per se stesso? Forse, ma anche un film su un regista senza alcuna possibilità di controllo, su un regista che ha perso il controllo di ogni cosa. Un regista che diviene totalmente attore esponendo una fragilità però non curabile. Nessuno dietro la camera può più guidare lui e la scena. Gli attori provano a fare da sé, a darsi un ruolo per conto proprio, ma tutto questo non può funzionare a lungo e infatti non funziona, né nel film nel film e ancor meno nel film stesso. Il funzionare è basilare per ogni macchina perché significa senso e ragione e tutto questo Il sol dell’avvenire non lo ha, restando per altro comunque lontano dall’ambizione di una utopica macchina celibe. E il continuo incespicare in citazioni e autocitazioni – divertenti per chi segue Moretti da quaranta anni – offrono il ritratto di una passione triste che sembra volere per principio oppure ciò che è stato (e non è più ripetibile) a ciò che potrebbe funzionare e forse pure meravigliare.

Un regista può essere sordo (sempre François Truffaut in La nuit américaine) oppure cieco (Woody Allen in Hollywood Ending), ma non può essere fragile, soprattutto se la fragilità va a determinare una totale perdita di controllo, o meglio una voluta perdita di controllo. Il sol dell’avvenire mostra il corpo di un regista che non può – ovviamente – essere il regista di quaranta anni fa, ma al tempo stesso non offre una possibilità diversa di sguardo al possibile regista di oggi e così anche allo spettatore (salvo che per gli spettatori groupie di quaranta o venti anni fa). 

È un garbuglio, un nodo scorsoio pericoloso che rivela una debolezza che non sta solo in Nanni Moretti, ma che probabilmente il regista romano tende a riflettere da una società che della nostalgia ha fatto una mitologia, senza accorgersi però che i reperti vanno maneggiati con cura e non utilizzati come vettovaglie buone per tutti i giorni. Una tensione che resta priva di dramma e colma di stanchezza.

Una stanchezza reale eppure vacua, perché incapace di offrire un’utopia, o anche solo una possibile forma di resistenza. Il controllo è una forma di equilibrio oltre il quale tutto diviene ingestibile, ma è anche una forma di adattamento continuo capace di aggirare la stanchezza. Per raggiungere il quale non basta citare “la storia”, ma occorre mettere in discussione ciò che è stato per individuare una nuova strada, quella più adatta, dare in sostanza un equilibrio (sempre mobile) alla storia e alla sua morfologia.

Mettersi in discussione non appartiene proprio a Il sol dell’avvenire che gioca sì con la storia, immaginandola con i sé, ma con l’unico obiettivo di confermare un’idea precisa e già data. Dare forma a una certezza non dovrebbe appartenere al cinema e alla sua capacità di creare nuovi immaginari. In questo falso movimento che appartiene sempre più all’ultimo Moretti, sicuramente da Tre piani in poi, si avverte una perdita comune del ruolo del regista, di quel mestiere oscuro che lo stesso Ettore Scola faticava a spiegare ai suoi genitori (Silvia Scola, Paola Scola, Chiamiamo il babbo), ma che si palesava in un saper fare dentro al quale ogni elemento della troupe acquistava pienamente senso. 

Ne Il sol dell’avvenire si avverte un liberi tutti, una resa al cambiamento e un assoluto disinteresse per come questo cambiamento possa essere interpretato. Una pretesa di centralità che trasforma la voce di Moretti intesa come sguardo, intuizione e intelligenza in una parodia di se stesso.

Mentre Marco Bellocchio che esordì nel 1965 ancora sembra divertirsi come un pazzo giocando su più piani e con più forme di cinema, Nanni Moretti abbandona il campo chiedendo ai propri attori di fare da sé in un finale celebrativo di un passato che si vorrebbe come una scatola ermeticamente chiusa, ma che rischia solo di dare forma a un presente inadeguato, mentre il mondo vive tensioni inedite e mutazioni radicali. Forse queste attrici e questi attori sapranno fare meglio da soli, alcuni già stanno da altre e in altre parti, ma abdicare al ruolo di guida per un regista come Nanni Moretti assume il segno grave di una sottovalutazione del dolore (proprio e altrui) in nome di una sopravvalutazione di se stessi. Tornando a quell’ottobre del 1984, non si può non vedere come le foto dei funerali di François Truffaut mostrino una forza cinematografica che certamente riguarda solo in parte il grande regista francese. Tra gli scatti si può cogliere a fianco di Fanny Ardant l’interprete dell’uomo misterioso, quello che avvicinandosi alla coppia Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) e Christine Darbon (Claude Jade) in Baisers volés avverte Christine del proprio amore per lei, un amore definitivo e assoluto al punto da dirsi pronto ad attenderla quando lei avrà deciso di “abbandonare il mondo del provvisorio” per unirsi a lui. Chiaro, quello era un tempo in cui non era necessario cercare “il cinematografico” perché tutto per certi versi lo era già, ma credere nel cinema e nella sua funzione vuol dire anche saper creare un immaginario al di là di se stessi e che vale sempre più di se stessi.

ARTICOLO n. 54 / 2022

MADONNA CHE SILENZIO C’È STASERA

Francesco Nuti quaranta anni dopo

Dopo il successo di Ad Ovest di Paperino, il 1982 è l’anno del primo vero debutto di Francesco Nuti da solista anche se non ancora regista. Non più all’interno del trio de I Giancattivi – che aveva alimentato e fatto germogliare le sue qualità – Nuti dà libero sfogo in Madonna che silenzio c’è stasera a una comicità pervasa dall’ironia cattivissima e tutta toscana unita a un surrealismo delicato e dolce che rappresenterà sempre la sua cifra anche nei momenti più opachi della sua carriera. 

Sono passati quarant’anni da quell’esordio che portò Francesco Nuti al centro del cinema italiano che, seppur con tutte le differenze e varianti, pareva interpretare in maniera finalmente innovativa e compatta gli anni Ottanta con tutto quello che avrebbero preannunciato. Insieme a Nuti, ovviamente Roberto Benigni, Carlo Verdone, ma anche Massimo Troisi e non si può certo escludere Nanni Moretti. 

Ognuno di loro è forte di una vena comica e al tempo stesso di uno sguardo critico e ognuno è fortemente e ossessivamente individualista, nonostante tutto e nonostante le visioni politiche più o meno coerenti che volenti o nolenti rappresentano. Tuttavia Francesco Nuti raffigura forse il caso più estremo: una genialità impura che nasce dalla provincia strapaesana e al tempo stesso industriale toscana. Nell’estate del 1982 va ricordato che Prato è il centro d’Italia e i suoi figli migliori sono Francesco Nuti e Paolo Rossi: sguardi dolci fatti di guizzi rapidi e da furfanti, spalle strette e tanto fiato. 

Allora l’Italia non era ancora solo Milano e Roma o quasi solo Milano come è oggi, ma era un mondo ancora attraversato da guizzanti differenze. Firenze era la capitale della moda, il centro di una New Wave che avrebbe alimentato le menti di una generazione. Erano anni in cui, come ricorda Bruno Casini in New Wave a Firenze Anni in movimento (Zona Music Books), andare a dormire era quasi impossibile. Gli anni dei locali jazz (indimenticabile Luca Flores) e delle notti infinite di una generazione di trentenni che tornava alla vita dopo aver lasciato alle spalle anni fin troppo tetri. Ma era anche il tempo in cui Benigni abbandonava la stalla di Onda libera per esordire alla regia con un David di Donatello come miglior regista esordiente per Tu mi turbi

Non solo tutto era possibile, ma ora era possibile fare tutto da sé, solo che l’autarchico non usciva dai teatri cantina, ma dalla televisione. Stand-up comedian ante litteram come Troisi, Verdone, ma anche i milanesi Abatantuono, Teocoli e Boldi lasciati i locali alla nostalgia della mala che fu, si proiettavano – spesso grazie all’intuito felino di Renzo Arbore che con Il pap’occhio aprì davvero un decennio – dalla TV al cinema con record di incassi che il nostro cinema da allora non ha mai più visto (e anche solo immaginato). 

Francesco Nuti è il punto di equilibrio in una ricerca a tratti ossessiva di un originario comico che sfocia spesso nel burlesco come nella tragedia. Subito campione d’incassi sembra essere quello più in grado di reggere il tempo. I suoi film sono ricchissimi di soluzioni comiche, ma anche la sua regia non sembra mia accontentarsi, provando soluzioni spesso estremamente originali. 

In tal senso Madonna che silenzio c’è stasera sembra addensare nella sua storia l’insieme delle possibili variazioni del cinema di Nuti, non ancora regista, ma già sceneggiatore e interprete totale. Ambientato a Prato, il film è il racconto di una giornata nella vita di Francesco e come spesso accade in chi ha un forte senso del comico è il nulla ad attrarre il riso e a far girare la narrazione: Larry David e Jerry Seinfeld lo hanno palesato al mondo, però c’è da dire, molti anni dopo. 

Nuti interpreta come molti allora, pensiamo a Troisi, Verdone e Moretti su tutti, l’estate come momento massimo di sospensione, ma anche come ritorno inevitabile all’io, a se stessi, a un’individualità che negli anni Ottanta diviene sempre più incontenibile. Le nevrosi diventano chiaramente il centro di tutto, la psicanalisi la soluzione che non dà mai soluzioni, mentre i rapporti con le donne sono sempre più problematici e al tempo stesso stanchi, quasi annoiati. 

Tutto questo tuttavia si paleserà con forza più avanti, a metà degli Ottanta, e solo Carlo Verdone sarà in grado di trattenere più a lungo una forma di leggero disincanto che invece è ancora splendente e vivacissimo in Madonna che silenzio c’è stasera

Il film, oggi un vero e proprio cult, vede sbocciare il talento di Nuti che esce dall’ombra mimetica di Roberto Benigni per palesare, seppur ancora di velluto vestito, la propria assoluta capacità seduttiva. L’intransigenza e la radicalità diviene qui una forma di derisione, la cattiveria un atto di crudele divertimento. Il limite è spinto sempre un poco più in là, ma non per un gusto di rompere gli schemi, o peggio per opporsi ad un presunto conformismo, ma perché è semplicemente nelle cose. E le cose le stabilisce in questo caso l’autore e interprete sulla base di un impulso caratteriale, tanto più efficace se immotivato.

Attorno nel film tutto pare invecchiato, la fabbrica tessile come la Casa del Popolo, ma tutto al tempo stesso è amato con tenerezza. Nuti ha 27 anni e l’infanzia non è ancora una nostalgia, ma un preteso dato di fatto. Del resto non si abbandona mai l’infanzia per davvero fino a quando si sta a casa della mamma o nella città dove si è nati, e allora tanto vale non fingere, non giocare agli adulti e vivere liberamente proprio come dei bambini. 

Oggi si parla molto di competenze, come una qualità e una forma di emancipazione, ma spesso non si considera l’aridità del concetto. Madonna che silenzio c’è stasera ha non a caso la luce dei macchiaioli toscani, ma non aveva certo bisogno di questa competenza il direttore della fotografia Carlo Cerchio per darle forma, bastava la luce di Prato, l’ovvietà di un’origine naturale. Così i movimenti e le espressioni di Francesco Nuti, non sono gesti appresi, ma elementi ricondotti e guidati: qui non è il sapere in sé il centro, qui è ancora la capacità di interpretare la propria epoca – in questo caso gli anni Ottanta – annusando sì l’aria, ma con la consapevolezza della propria storia e della propria infanzia. 

L’infanzia non manca mai in quegli anni, e ancora Verdone e ancora Troisi e ovviamente Nanni Moretti: «Non torneranno più le merendine di quando ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più». Reggere una battuta con uno sguardo e poi rifarlo reggendo un film e poi una carriera, è certamente un segno di narcisismo e anche di egocentrismo, ma come si dice, bisogna saperlo fare. Solo che anche quando si è capaci di farlo, il peso, soprattutto se parliamo di una carriera tanto trionfale come quella di Nuti, può diventare insostenibile, perché l’eccesso di sé ad un certo punto rende irriconoscibile anche lo specchio. 

Inutile ora addentrarsi nelle sfortune di un uomo che ha dato tanto al suo pubblico e al suo mestiere, di certo Nuti in quel 1982 dava contemporaneamente avvio e addio a una carriera, apriva e chiudeva la propria unica giornata con allegria quanto con malinconica ribalderia. 

Chiaro, il vero successo sarebbe arrivato dopo e anche i suoi film migliori, ma in quella ripetuta esclamazione “madonna che silenzio c’è stasera”, come nell’irriverente e azzardata, Puppe a pera, c’è già tutto. Il resto sarà arte, arte pura, non mestiere, della ripetizione. Come un riflesso condizionato dato dall’era della televisione che si stava imponendo anche grazie alle sue infinite repliche, trasformando ancor di più i comici in macchine, spesso ottuse, da tormentone. 

Madonna che silenzio c’è stasera racconta così dell’unica giornata che abbiamo a disposizione per restare bambini e per imparare, per giocare e per amare in assoluta e irrequieta libertà. Francesco Nuti invece ci ha raccontato cosa significa ripetere variando, calibrando ed elaborando quella giornata fino a trasformarla in una vita intera. Ed è ancora più assurdo che proprio in quel replicarsi che avrebbe dovuto essere maieutico si sia scatenata la critica e il rancore, là dove Nuti indicava una possibilità in un tempo stretto sempre e solo al presente, il pubblico lo abbandonava in un reciproco fraintendimento. Invece è proprio nella replica come performance che dovremmo cogliere lo spazio possibile in assenza di futuro come di un passato riconoscibile. Solo la ripetizione concede ancora uno spazio possibile di tempo per pensare e al tempo stesso la clemenza del perdono, fino alla successiva variazione. 

Quarant’anni di carriera sono passati da quel 1982, ma chiamarla carriera fa soltanto ridere rispetto alla forma che più fortemente ed esplicitamente gli anni Ottanta hanno maturato. Ovvero è possibile parlare credibilmente di una carriera fatta quasi ossessivamente solo da se stessi? Quel tempo trascorso, quei 40 anni sono più semplicemente una vita. In quarant’anni si inventa una volta soltanto e poi il resto sono serate più o meno ben pagate, repliche che hanno il senso di un’utopica stagione che resti infinita seppur aperta a ogni possibile variazione. Bisognerebbe sempre credere ai comici proprio perché ci fanno ridere, riconoscere il loro mestiere che può essere quello di attori, registi o scrittori e non abbandonarli mai, pena quella di abbandonare se stessi e la propria giornata migliore. Guarda un c’era mai stato un silenzio come stasera. Zit zit zit…. Muaadonna che silenzio c’è stasera. Io Chiaramonti ‘unnhò mai avuto paura del silenzio, ma stasera c’è un silenzio…

ARTICOLO n. 41 / 2021

GUERRA

ESTATE A VENEZIA

Sei arrivato a Venezia che faceva già caldo, era inizio giugno. Venivi da Milano che non ti rispondeva più al telefono, venivi da quella piatta e desolata città priva di sentimenti dove nulla accade e nulla si muove, ma l’avevi imparato troppo tardi. Milano è ferma, statica, perenne nella sua immobilità, l’unico modo per darle vita è agitarsi, muoversi, avanti e indietro in continuazione, dentro e fuori in continuazione, come un massaggio cardiaco, l’unico modo possibile per darle vita, un cuore. Te l’eri immaginata come Parigi dove è possibile stare fermi e guardare, dove è possibile vedere il mondo che invecchia mentre tu nemmeno te ne rendi conto. I caffè a Parigi servono a quello, a guardare cosa succede, dimenticandosi finalmente di se stessi, ma lasciando se stessi sopra al palco.

Sei venuto a Venezia che l’estate già si palesava nell’umidità ossessiva che non ti abbandona mai, nemmeno quando sembra che una leggera brezza possa salvarti la camicia. Prima, poco prima, venivi da Roma. Caterina ti parlava a voce bassa e sorriso sempre aperto e dolce, avevi amato il suo tono di voce, elegante e accogliente. Quella sera nel trambusto del Perù lei parlava con quel movimento tranquillo delle labbra e tu invece ti domandavi se i suoi genitori l’avevano chiamata così per quella canzone, quella di De Gregori, l’età dei suoi corrispondeva, pensavi e intanto non l’ascoltavi più.

A Venezia è impossibile mettere a fuoco, ma è obbligatorio guardare, mai come lì osservare e capire corrispondono, mai come a Venezia nulla è mai del tutto comprensibile, tutto è sempre aperto e passibile di correzione e cambio di rotta. Dipende dal tempo, dalla marea, dal fatto che qui tutto si muove, tutto è vivo e in mutazione. Faceva caldo e tu avevi trovato un posto dove stare, una casa dove vivere. La città verso sera tornava vuota e il bacino di San Marco all’imbrunire ti ricordava una natura morta di Giorgio Morandi, nessun contorno definito, solo oggetti sospesi. Pensavi di sentirti libero, ma sapevi di aver scelto un posto dove terraferma e campagna, Mirano e New York sono sinonimi. Per sentirti libero quell’estate avevi scelto di essere esterno e altro, solo con gli occhi.

A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza. Lo avevi capito dopo pochi giorni, giravi e giravi, ma giravi troppo, tanto che sempre in quelle quattro calli finivi, ma senza mai capirne il senso. E così stremato dal caldo che da sempre ti ammazza, tu uomo di montagna (negato per la montagna) ti sei seduto e sei tornato da dove eri partito, lontano da chiese e da musei, lontano dalle persone se possibile. Già perché non capivi nulla di quello che ti dicevano. A Venezia il dialetto è lingua, è corpo puro. E prima di arrivare alla lingua la strada è lunga e passa quasi sempre per le mani.

Ti sei seduto in un posto perché era vuoto, non che i turisti non ci fossero, ma se inizi ad abitare a Venezia scompaiono come umani e restano come ingombri, fastidiosi come i piccioni. Elementi di una guerra in corso che non lascia tregua. D’estate Venezia diventa una città in perenne resistenza, non che i turisti siano gli invasori, ma ricordano molto i sacchi di sabbia alla finestra, il segnale più evidente di una lotta che vada come vada farà più male che bene.

Ti sei seduto e non hai capito più niente, hai smesso per una volta nella vita di lottare contro i mulini a vento che girano come pazzi in vestaglia nella tua mente. Pensavi di bere acqua e hai bevuto vino, pensavi di mangiare insalata e hai mangiato pesce, pensavi di non prendere nessun dolce e lo hai preso. Ti sei imposto per avere il caffè e hanno riso come fosse uno scoppio e te lo hanno offerto. Ma sei restato, hai provato a non badare a tutta questa confusione a non confondere l’accoglienza con l’ostilità. E hai imparato a guardare le mani che a Venezia sono legni grossi, di quelli che si trovano alla deriva sulle spiagge, legni contorti, ma buoni per fare barche. Erano mani grosse che avevano movimenti leggeri, buone per accarezzare, per cucinare e offrire, per darti improvvisamente – non richiesto, ma ben compreso – rifugio, che sia per mezz’ora che sia per la notte.

Sei stato fermo e hai iniziato a capire che dovevi mettere distanza per mettere un po’ a fuoco prima che il movimento ti sorprendesse nuovamente e ti lasciasse ancora una volta perduto. Avevi capito che non dovevi inseguire che dovevi lasciar scorrere perché a fissare le cose, a dargli un nome e una casella rischiavi solo di costruirti schemi e pregiudizi, e a Venezia in calle chi ha pregiudizi poi cammina solo.

Poi un giorno è arrivata Eleonora, non la vedevi da mesi, ti è sempre piaciuto il suo sorriso. Non tanto quando ride e subito chiunque capisce che è di Roma, ma quando sta come sul tram e la linea della sua bocca diventa irregolare come quella che Schulz disegna come bocca ai suoi Peanuts. Di solito quando Eleonora è così o si è dimenticata qualcosa o qualcosa la sorprende. Subito ti ha fatto l’elenco delle cose che avevi visto in oltre un anno che eri lì, ma tu non avevi visto nulla e giusto per non incorrere nella classica domanda, «Ma allora cosa hai fatto?», hai finto e anche se lei probabilmente se ne è accorta ha fatto finta di niente e ti ha trascinato alla Scuola Grande di San Rocco.

Era passato un anno dal tuo arrivo, e ora la pandemia iniziava a mollare un poco la presa, ma la città restava straordinariamente deserta e i piccioni con cui avevi ingaggiato – secondo te – una relazione emotiva e sensoriale erano sempre più affamati e aggressivi. La Scuola Grande era vuota, ci eravate solo tu, Eleonora e pochi altri. Tu vagavi, lei sembrava più sistematica, a te piacevano le sedie rosse.

Vi siete trovati entrambi a fissare il pavimento e avreste voluto attraversarlo a quattro zampe, almeno tu avresti voluto, come quando d’estate a casa giocavi sul pavimento di marmo freddo e liscio al giro d’Italia con dei piccoli ciclisti in plastica e un paio di dadi. Attraversavi dalla sala alla cucina, dalla camera da letto alla lavanderia e sudavi fino a scivolare e a restare stremato a «fine tappa» con il caldo addosso e tutto madido di sudore.

Siete usciti, lei ti ha parlato e tu l’hai ascoltata, ma fino a quando non siete entrati in una vecchia bottega di carte marmorizzate non è che hai capito molto, tuo solito. Di fronte alle carte ebru Eleonora ha iniziato a perdere la testa, il signore, l’artigiano che le faceva era elegante e affilato, le parlava con un tono di voce lento e accarezzava con delicatezza i fogli. Le ha mostrato dei quaderni rilegati e anche delle cornici. Non le diceva più di quanto fosse necessario e lei sembrava essere in apnea, mentre tu iniziavi a capire cosa lei ti aveva tentato di dire per tutto il giorno, ma hai deciso comunque di tacere. Eleonora ha comprato due quaderni e una piccola cornice, era felice come una bambina e si vedeva. «Mi chiamo Alberto», ha detto il signore, tu gli hai stretto la mano, Eleonora ha detto «Mi chiamo Eleonora» e gli ha baciato la guancia come fosse in un tempo eterno.

I nomi a Venezia sono sempre i nomi propri così che anche i cognomi, se proprio servono diventano nomi propri. I nomi a Venezia resistono e pesano, si riconoscono subito e si sa subito a chi appartengono. Non ci possono essere dubbi. E non perché siano nomi strani o particolarmente originali, ma perché in mezzo alla laguna il suono di un nome diventa subito anima. Anche qui ci è voluto tempo, ma poi hai capito.

Hai capito con il tuo passo lento che inciampa comunque, con la tua espressione ottusa che concede sempre così poco all’allegria. E allora Agnese che è Agnesetta, Alberto, Alberta e poi Albertina, Gigi e Toni, Giorgio e Carlo e poi certo Franca e Franco e poi ancora una volta come se non ti fosse bastato Enrica ed Enrico. Hai lasciato a santa marghe Eleonora che partiva. La stazione non ti piace, in stazione non ci vai, Venezia è in mezzo alla laguna e di vie di fuga non ne vuoi più sapere.

I nomi quindi, quelli che ti hanno fatto ridere come quando eri bambino: Aldo Strasse, Denti d’oro. Bisogna stare attenti con il passato a Venezia perché è ineluttabile quanto il futuro, qui tutto è in equilibrio non si parteggia per una parte o per l’altra se no si finisce in acqua. E il passato è numeroso a Venezia e procura quel sottile e irresistibile piacere che non è altro che annegamento, il piacere sottile che arriva poco prima del soffocamento totale.

E tu che sei venuto a Venezia per non farti corrodere dall’euforia di futuri fatti di parole e di corpi vecchi, hai iniziato a giocare pericolosamente con il passato, fino ad innamorarti delle schiene: un uomo alto che ti precedeva tutte le mattine a comprare i giornali e che seguivi lungo le calli, un ponte e poi un altro.

Lo riconoscevi dall’odore del fumo della sua sigaretta, lo sentivi arrivare fino a te e stranamente non ti infastidiva. Non hai mai avuto la curiosità di guardarlo in faccia, ma ti piacevano le sue camicie ampie e a scacchi e il rumore dei suoi passi: un giorno siete andati a tempo con i piedi e hai temuto che si voltasse, non l’ha fatto e hai avuto l’impressione che anche lui fosse del gioco.

E poi la schiena di bambino che avevi visto neonato e poi crescere inseguendolo per farlo ridere, prima i suoi passi incerti poi sempre più veloce. E poi hai smesso, non sai perché, ma hai smesso. 

Se hai mai abbandonato qualcuno, quelli sono stati sempre i figli non tuoi: li hai visti crescere o in alcuni casi li hai fatti crescere con pazienza e parole inusuali per il tuo carattere, ma poi arriva sempre un punto che diventi estraneo e li lasci. Lo hai già fatto troppe volte e lo hai fatto anche a Venezia dove ti salva giusto la luce, dove è sempre possibile coltivare una distanza ottica accettabile, sai che non lo perderai di vista anche se hai perso il suo affetto. Chiedi di lui in continuazione come fosse un parente lontano mentre corre a qualche centinaia di metri da te lungo le Zattere, esagitato ed euforico come ricordi di essere stato tu alla sua età. E questo ti fa nuovamente paura.

Altro che Parigi, Venezia sì che non finisce mai e hai imparato cosa è il Lido, cosa sono le isole e cosa è quel lungo viaggio lento che è stare in barca in mezzo alla laguna. Hai imparato come impari tu: addormentandoti mentre altri remano, coprendoti quando c’è il sole e scoprendoti quando tutti sanno che pioverà. Hai capito, hai capito male, ma qualcosa in testa ha iniziato a suturare e poi piano piano le cicatrici si sono levigate fino a lasciarti solo un’ombra sul corpo. Quando hai iniziato a comprendere che non è sempre necessario ferirsi per capire qualcosa, sei arrivato in piazza San Marco, avevi bisogno dello stupore, avevi bisogno di vederla come per caso. L’hai lasciata per ultima pur sapendo che ci sarà sempre altro ancora, ma intanto sei arrivato come si arriva al desiderio, con concitata noncuranza. Ci sei arrivato e per te è stato come tornare a casa, senza bisogno di ribadire a te stesso chi sei perché tutto è lì da vedere. Che è anche l’unico modo possibile per stare in mezzo ad una piazza senza occuparne lo spazio, diventando tu stesso quella pietra o quel coppo, quella porta o quella maniglia. Eccola lì piazza San Marco con la sua bottiglia dal collo lungo, con la brocca panciuta e l’anfora con le curve sinuose, la tazzina senza manico davanti a tutto. Ecco la linea del mare su cui si stagliano tutti questi oggetti, slegati da te, dalla tua storia e dalle tue ridicole noie quotidiane. Vorresti un kipferl come ti ha spiegato in un vecchio documentario Goffredo Parise che forse in maniera un po’ troppo compiaciuta, ma divertente se ne mangia più d’uno tra i piccioni e l’orchestrina in una giornata di fine anni Settanta. Vorresti capire come si fa a restare senza ingombrare, ad amare senza opprimere, a domandare senza pretendere una risposta. Guardi l’orizzonte, ascolti i rumori e tutto riconduce all’acqua, anche il caldo che proprio ora sembra darti un po’ di tregua. Chiudi gli occhi e li riapri, sei a Venezia e non hai visto nulla, puoi esserne felice.