ARTICOLO n. 31 / 2025
FERMARE IL PRESENTE E LASCIARLO PASSARE
La fotografia di Joel Meyerowitz
La prima cosa che colpisce di Joel Meyerowitz, in Italia per la retrospettiva A Sense of Wonder, è il suo aspetto: a 87 anni, indossa pantaloni skinny e stivali di pelle nera a punta.
È molto alto, spigolosamente magro.
Sta in piedi con una fermezza che non si può ignorare. Il viso è segnato da rughe profonde, gli occhi vigili. Nel lasciare la sala stampa cammina piano; eppure, nei suoi movimenti c’è una forza trattenuta, qualcosa che ricorda un cowboy – gentile, ma pericoloso: se volesse, potrebbe saltare sul suo cavallo al volo, senza toccare la staffa.
Anziché la pistola, porta una macchina fotografica a tracolla, sempre.
«Da quando avevo ventiquattro anni», puntualizza.
Poi ci guida all’interno della mostra. Curata da Denis Curti e ospitata al Museo di Santa Giulia di Brescia, è costruita come un racconto per immagini: ogni capitolo corrisponde a una fase distinta della carriera, segnando spostamenti, mutazioni, ritorni.
Le fotografie sono più di novanta e attraversano sei decenni; si muovono tra la congestione delle metropoli e la vastità dei paesaggi naturali, tra l’America del Vietnam e le macerie di Ground Zero, seguendo un’onda visiva in continuo movimento – un’onda che però ha un moto costante: il colore.
«Per me, il colore è un linguaggio per parlare della società», dice Meyerowitz.
Quindi, racconta come inizia tutto. Un giorno del 1962, uscendo da un set, vede Robert Frank fotografare per strada. Non è una rivelazione. Ciononostante qualcosa in lui prende vita: una necessità fisica, istintiva. Immediatamente lascia il lavoro in pubblicità e inizia a scattare. Senza scuola, senza regole.
Lo spiega come se sia la cosa più naturale del mondo. Ma lo si intuisce subito: quella decisione è radicale, poiché richiede una fiducia cieca in sé stessi, in quello sguardo che ancora oggi continua a notare la meraviglia dove gli altri non la vedono.
Le sue prime fotografie restituiscono un’epoca in cui la strada è ancora un luogo da abitare. Un palcoscenico senza quinte. Mentre la maggior parte scatta in bianco e nero, per Meyerowitz il colore è inevitabile: la città è a colori, così come i corpi, i rifiuti, le insegne, la luce che filtra tra gli edifici, il cielo stesso.
Colore, colore, colore. Ma non solo.
In una delle opere esposte, adulti e bambini sostano davanti all’ingresso di un palazzo a New York. Nessuno interagisce; nessuno si guarda. Nessuno ha fretta. Eppure c’è qualcosa che li unisce, una fiducia che attraversa la scena: si può stare fuori.
Si può stare fermi in mezzo agli altri.
Oggi, una scena simile spesso genera inquietudine. Prendiamo l’Italia: il dibattito sulla sicurezza urbana è dominato da parole ricorrenti – “degrado”, “controllo”, “baby gang”. Secondo alcuni, ogni episodio viene esasperato, trasformando la percezione del pericolo in uno strumento per misure sempre più rigide. Secondo altri, è inevitabile pretendere telecamere, pattuglie, zone rosse, e guardare con sospetto chi resta in giro senza apparenti motivi.
La vita pubblica si restringe. Lo spazio comune si riempie di terrore.
Meyerowitz ha un’opinione chiara sul tema: «Non mi interessa il giudizio. Fotografare significa capire qualcosa in più di sé e di come si sta nel mondo».
Allora, viene spontaneo chiedersi come abbia mantenuto quello sguardo, quel suo amore per la gente, per l’attesa, per gli angoli delle città in cui non si registrano eventi memorabili, ma solo presenze. La vita così com’è.
Appena rischia di diventare prigioniero di un genere, la street photography, Meyerowitz se ne allontana quanto basta. Lo fa senza fratture, senza dichiarazioni esplicite. Negli anni Ottanta, il suo sguardo si allarga, prende fiato, e si rivolge ai grandi paesaggi: Cape Cod, la campagna, la costa, la luce marina. Ma anche lì, dove la figura umana è spesso assente, qualcosa continua a parlarne. La traccia resta.
«Inquadrare», dice davanti a un’immagine del New Jersey del 1978, «riguarda l’apparizione delle cose».
In questa scena, lungo un viale alberato di notte, una drogheria ha l’insegna accesa. L’asfalto riflette il verde di un lampione; qualche auto è parcheggiata, le finestre quasi tutte spente.
Non succede nulla. Malgrado ciò, l’atmosfera è intrisa di storie da raccontare.
«Le immagini ci aiutano a capire il mistero del presente. Come siamo arrivati fino a qui».
E guardando quella strada del New Jersey, un ricordo fisico potrebbe tornare anche a noi: per esempio le serate estive passate fuori, da bambini, senza orologi né telefoni, a giocare attorno alle panchine, a fare le gare sui marciapiedi, il nascondino tra i bidoni. I confini erano chiari, condivisi. Bastava una sola voce che gridava “macchina” per fermare tutto e poi riprendere.
Oggi, anche nei paesi piccoli, è raro vedere un bambino da solo all’aperto. Non succede più. È considerato pericoloso. Si parla di pirati della strada, di rapimenti, di risse con il machete. E così si preferiscono le attività sorvegliate, i cortili chiusi, i parchi recintati; la libertà – quella vera, spontanea, disordinata – si misura in metri quadrati.
Meyerowitz, con queste fotografie misteriose, ci restituisce uno spazio mentale. Uno spazio in cui si può tornare, senza paura. Dove non c’è nostalgia, ma consapevolezza. La stessa che, nel 2001, gli permette di essere l’unico fotografo ad accedere a Ground Zero. Entra pochi giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle e ci va per mesi, con la stessa attitudine degli esordi in strada: osservare, attendere, capire.
Questa volta, però, è diverso.
«Per prima cosa, bisogna trovare la distanza rispetto a un evento – soprattutto se tragico», dice nell’introdurre la sezione della mostra che rappresenta il cuore distrutto di New York. L’Occidente ridotto a schegge.
Meyerowitz fa una lunga pausa, poi racconta che, mentre si trova lì, circondato dalla morte, nota dei raggi di luce filtrare attraverso il fumo e la polvere. In quel momento accade qualcosa, una sensazione imprevista: nonostante tutto, si sente felice. Grato di essere vivo.
E dunque si chiede: è lecito provare una forma di felicità dove sono scomparse migliaia di persone?
Sì. Lo è. Perché la bellezza, anche minima, anche improvvisa, non è mai una colpa. È una via d’uscita dall’orrore. Così, capisce che il suo compito è trasmettere la meraviglia e consegnarla a chi verrà dopo nella forma migliore possibile.
Un’esperienza simile può essere accaduta quasi vent’anni dopo, durante il secondo lockdown. Mentre le strade erano vuote e gli ospedali al limite, e le informazioni sulla pandemia scorrevano a ciclo continuo, in alcune case, dove le persone erano in salute, per la prima volta c’era tempo. Tempo vero. E, dentro la pausa forzata, dentro la tragedia globale, di nuovo poteva affiorare quella sensazione imprevista. Una forma di pace. Di benessere personale.
Non a caso, una delle fotografie più intime e inattese di A Sense of Wonder ci giunge proprio dal 2020. Meyerowitz è in cucina con sua moglie, la stringe da dietro; lei tiene le mani sulle sue e accenna un sorriso. In quei mesi di isolamento trascorsi in Toscana, Meyerowitz inizia a fotografarsi ogni giorno. Un gesto regolare, rigoroso, in fondo non tanto diverso dai suoi primi scatti di strada: anche qui c’è uno spazio condiviso, dei corpi che coesistono senza bisogno di dimostrare nulla. Solo la loro presenza. «Tutto ciò che serve per fermare il presente e lasciarlo passare».