Gabriele Merlini

ARTICOLO n. 33 / 2025

QUELLO CHE CI HA FATTO SECCHI

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando lultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,

come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

I Preambolo: Birmingham la mattina

Bene che, stando ad alcuni rudimenti basici di meccanica (e nello specifico ciò che ebbe a riferirci il postino al cancello con lo zaino a tracolla, ovvero per fare sì che un corpo non trasli è necessario ridurre a zero la somma di tutte le sue forze) la vasca da bagno arrugginita evitò di crollare dalla nostra terrazza sul giardino sottostante appartenente alla signora Healey la quale, forte di una prole numerosa e decisamente incline ai giochi all’aperto nelle rare giornate di sole, a naso avrebbe gradito poco. Il sottoscritto a dirigere i lavori dal pianerottolo davanti la cucina, Beavan appena sveglio a tenere in sospensione l’oggetto stringendo le fragili zampette di ghisa sul lato dello scolo e Prescott in opposizione, con i piedi al battiscopa provandoci a scongiurare una tragedia nei fatti già scritta. («Facendo coincidere la rotazione B con il punto A la reazione vincolare non produrrà alcun momento avendo braccio nullo» ci aveva in effetti detto il postino l’istante prima di accendersi una sigaretta con in pugno l’ennesima scadenza da saldare entro la fine del mese e quell’odioso sorrisetto in volto.) Il gatto del dott. Ashton sul balcone adiacente infine Henderson lungo il marciapiede coperto giusto dall’accappatoio e la logora maglietta dei Discharge; appesantito per le mani occupate dalle buste della spesa ma con le zampette – cit. al pari di ogni eroe epico – scattanti e pronte alla tenzone. Un interrogativo comprensibile («ciò per dire che non avrò più una stanza in cui dormire?») seguito dalla preventivabile risposta «sì. Ma da oggi il tuo spazio apparterrà al mondo. Alexander. E dovresti esserne felice» dopodiché la pausa teatrale a sottolineatura della chiosa. «Ché devo organizzarmi in vista del live e sicuro non vorrei perdermelo consequenzialmente alla vostra stronzissima tendenza all’igiene, quindi regolatevi con quell’aggeggio da clown borghesi» mentre veniva riaccesa la cartina e sistemata in tasca la boccetta contenente il liquido al sapore di benzina – un composto di nitrito di amile, etile o isobutile – in grado di restituire effervescenza dentro alle narici fino al cervello. Il gesto del monocolo che scivola nel the per lo sgomento dopodiché il dito medio teso ai lampioni in fase di melodico, consolatorio riscaldamento. 

«Che poi, l’avete comprata con soldi veri oppure…»
«…oppure, commissario?»
No. Niente, niente. Andiamo avanti. 

II Svolgimento: West Midlands mood

E facciamolo postulando quanto segue: se qualcuno, quarant’anni fa, mi avesse tirato fuori dal letto sostenendo che oggi sarei stato costretto a tornare su quei giorni formativi, ecco, gli avrei probabilmente riso in faccia o meglio avrei scrollato le spallucce restituendo il classico charme dell’individuo che è nato – e mediamente maturato – nel Warwickshire di inizio Ottanta prima della coltellata. Avrei pensato a una provocazione declassando l’eventualità a qualcosa in stile oscena fantasia, chance dal valore assimilabile a un rutto nella galassia oppure una scoreggia lasciata partire verso il fondale dell’oceano stante il dato (evidentissimo: a questo punto della trattazione) che quasi ogni cosa a noi è mancata ad eccezione di un solido senso poetico e una tendenza ammirevole all’astrazione aulica. Meriden, il paese che ci ha visto sbocciare vicino a Solihull, o la diocesi di Coventry per le festività religiose ma anche (per le celebrazioni laiche) l’obelisco tirato su alla fine della strada in memoria dei ciclisti deceduti in battaglia; grigiori di antica nobiltà spalmati sopra ogni m² di moquette e stasi proletaria dentro teorie di cassapanche in rovere, almeno fino all’avvento di questa ondata che seppe soffiare via tutto quel pulviscolo residuale dalle nostre vite restituendo spinte impronosticabili al movimento nervoso. Materiale inatteso ma buono per forzarci all’agitazione esasperata che sotto sotto è catarsi; la violenza da palco che è preghiera quasi eremitica e il pogo sui pavimenti più fradici del regno da intendersi non come bieco scontro tra corpi di diciannovenni ipereccitati e furibondi quanto come ritualità iniziatica. Tessera di ingresso per un club del quale ignoravamo ogni regola d’ingaggio ma al quale qualsiasi cosa – se ricordo correttamente – saremo stati pronti a sacrificare prescindendo dal prezzo che prima o poi ci avrebbero chiesto alla cassa. (West Midlands mood, eravamo usi sostenere rincasando integri e non senza una scintillante enfasi, sfilandoci le t-shirt per buttarle nei luoghi meno adatti dell’appartamento.) Chiaro? Chiaro. E adesso, per un istante, marcia indietro non evitabile a dove ci siamo lasciati. Ok?

III

Sezione mediana: Birmingham un tardo pomeriggio

Ovverosia al racconto di come il sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson – restando a quanto riportano le cronache – diventammo i Primi (e Unici) spettatori del Primo (e Unico) live che tenne in zona questo gruppo nel futuro famosissimo in quanto seminale per un genere e un mondo, nonché delle modalità attraverso le quali il sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson ci preparammo all’evento durante un tardo pomeriggio scivolando a turno dentro la vasca da bagno appena sottratta alla discarica comunale di Rowley Regis. Circa i vestiti che ci mettemmo e su come muovemmo sopra al 277 barrato in direzione della sede di ogni trauma originario o potenziale redenzione cosmica. Le sentenze che davanti al portone furono ripetute dal postino («state attenti ad allagare ovunque: si chiama fluidodinamica ed è il mix di spazio, densità, pressione e temperatura ciò che potrebbe sfasciarvi il salotto») poi la conversazione che scegliemmo di avere chiudendoci dietro le spalle il cancelletto con i graffiti sghembi, gli adesivi dello Shifnal Town e qualche gomma da masticare appiccicata di troppo. 

«Ché stiamo trovandoci davanti a situazioni molto differenti. Non più un fenomeno musicale da centro urbano sviluppato quanto – è evidente – qualcosa di totalmente provinciale: l’ho letto sul NME e l’autore è stato chiaro al riguardo» tenendo al riparo da sguardi sospetti la lattina di birra. «Si tratta di zelo evangelico, imprescindibile rifiuto della commerciabilità e ossessione per l’onestà ciò che muove la band» alternando Henderson alle sentenze la propria inflessione da pargoletto di irlandesi, «e guardate c’è anche un nome per questa cosa: oikore o yokelpunk. Coppia di termini che trovo azzeccatissimi e idonei» senza naturalmente spiegarci il motivo.

«Inoltre so che in sala prove tre individui che conosco sono andati a sentirli e hanno iniziato a vederci doppio per lo stimolo al movimento.» (Will Prescott che sopra al 277 barrato annuì a sé stesso, sistemò il pisello e riprese a illuminarci.) «Più demo di esordio pochi mesi fa che penso si intitoli 1982» nell’atto di puntare la dama seduta accanto al conducente cui è severamente vietato parlare. «Ma forse sbaglio e vallo a sapere, e comunque conoscete le etichette Broken Flag eCome Organization? Credo abbiano iniziato con loro» salvo ammutolirsi subito dopo a causa della curva imboccata con eccessiva velocità e lo sbuffetto alcolico in direzione della maniglia di sicurezza.

«Ahi. Pardon.»
«Fa niente.»

«Invece» sentenziai io senza al solito essere considerato, «per quanto mi riguarda ritengo che – se ascoltati a basso volume – loro possano ricordare brani ambientali o roba del tipo Gristle» e addirittura sorrisi allungando i piedi al disegnetto sul seggiolino raffigurante un pene turgido tappezzato da venature realistiche. «Ma d’altronde gli estremi dello spettro, nella musica come nella vita, tendono a collegarsi così niente di strano» nel momento in cui il corpo di William Prescott – ex studente di biologia presso il Mason Science College – iniziò a scivolare in avanti e tremare. Bianco, umido e scomposto ma forte del più marmoreo e invidiabile tra gli spiriti di iniziativa. («Ehi, sei vivo?» poi «sicuro» rimettendosi in tasca la boccia di benzina. «Certo che sto bene ma vi scongiuro, dopo la vomitata ricordatemi di tornare sul parallelismo tra sonoro e mascolinità» allorché da fuori, oltre il finestrino opaco del pesante mezzo pubblico, di pioggia orizzontale e fulmini gialli ormai nemmeno ne sentivamo più l’eco lontana.) 

IV Sezione mediana: Birmingham dopocena

Ché, se ricordo bene – ma potrei scivolare data l’età o questo splendido caminetto che frigge all’ingresso del salone – la prima line up accettabile era composta da Nicholas al basso ed alla voce. Simon alla chitarra e Miles (nel caso realmente si chiamasse Miles: ricontrollare le fonti) alla batteria. Lasso di tempo credibile: dal dicembre 1981 al gennaio 1982 quando Simon optò per abbandonare la baracca un pomeriggio di agosto e già in settembre si manifestò quel genio di Darryl. Formazione che con Graham e Finbarr durò abbastanza a garantire i primi passabili live e i manicomi annessi, anche se più acerba rispetto alle esibizioni che sarebbero arrivate nel giro di poco in compagnia dei più adulti complessi anarco-punk del paese (Amebix, Apostles o Antisect). 

E perciò loro erano solo tre o quattro la notte in cui saltarono sul palco ad Atherstone di fronte al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson e nessun’altro. Non miracolati da qualche compilation Crass – evento collocabile all’anno successivo – e con Justin B. statuario tra il pubblico invece che sulle travi a funzionare da rialzo per gli strumenti e il mixer. In una epoca definita innocente e crudelissima, di ottuso patriottismo e volontà di chiusura ma noi soli saremo stati salvati da tanta capillare fesseria in quanto baciati dalla Cura Ritmica. Da quei tizi in grado di reiventare il mondo attraverso un sistema sociale più equo e libero a forza di ruggiti, agitazione e velocità che viene dal futuro. Guardatevi attorno, il diktat. Stiamo per esplodere, il messaggio. Teneteci un posto a tavola, il vivo consiglio. 

«Hatred Surge. Ecco il titolo della canzone. La faranno?»
«Sì. La faranno.»
Minima idea.
«Poi certo, stiamo a vedere cosa succederà. No?»
Già. Stiamo a vedere.
Bene. Ulteriori dati funzionali per un’analisi complessiva dello scisma. 

V Sezione mediana: North Warwickshire in tre punti

a¹. Mid-80s: nei miei ricordi tasso di disoccupazione che raggiunge il picco di circa tre milioni e duecentomila unità e ciononostante trionfo dei conservatori sui laburisti con lo scarto in voti più ampio della storia nel contesto di una campagna elettorale teneramente omofoba e razzista. Violenta e incendiaria. Offensiva e degradante, ma non solo. 

b². Mid-80s nei miei ricordi il primo programma TV del mattino sulla BBC – it’s the Breakfast Time – e sbarco sul mercato UK di uno strano oggetto denominato compact disc, ma non solo. 

c³. Mid-80s nei miei ricordi voto nazionale indetto per giugno con aspettative di vittoria per le destre attestabile sui dodici punti percentuale e anche la nostra squadra che scende di categoria e quasi fallisce tuttavia state allegri stanotte, ragazzi: siamo qui per ascoltarvi. Per redimervi e innalzarvi allora torna la memoria al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson all’interno del locale ad Atherstone straniti e agitati come neofiti anticristi. Molteplici livelli di alienazione e sconvolgimento nei nostri corpi di diciannovenni tra i sottili raggi a filtrare dalle finestre serrate sul vicolo e il tepore emanato dall’impianto di riscaldamento sul soffitto al fine di temperare le nostre bianchissime e delicate pelli. Sulle pareti manifesti di complessi passati senza lasciare altre tracce e – sparsi ovunque – cavi elettrici non in sicurezza desiderosi giusto di ammazzarci. 

La suggestione di un temporale primaverile che detona dall’esterno e ogni singolo rumore, tra una accordatura e l’altra, a mitigarsi per annientarsi al punto tale che tutti gli adoratori sensibili  di quella nuova musica che insieme veniva dall’università e la giungla avrebbe potuto contarle; l’intesa rivedibile tra gli strumentisti dietro le quinte e il sentore salvifico di quel tacito accordo stipulato all’atto dell’ingresso cioè l’epoca della sottomissione sarebbe stata per sempre chiusa e un’altra assieme avremo aperto incentrata sull’equità e sulla persecuzione dei milionari, degli schiavisti e dei padroni. Mai più ci sarebbero stati disequilibri di classe e l’intero universo delle multinazionali sarebbe stato rimesso al proprio ovverosia nel deretano del primo capitalista di passaggio grazie a quella serie mesozoica di accordi, colpi di rullante e grida.

«Mi segui?»
«Sì, ti seguo» nell’istante in cui gli ex Civil Defence, Undead Hatred, Evasion o Sonic Noise si presentarono davanti al sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson. I neonati – e per questo già splendidamente urlanti – conterranei Napalm Death. 

VI Sezione quasi terminale: West Midlands di notte

Però è vero: nel volgere di un lustro o poco più tutto quel carrozzone di suggestioni avrebbe perso in traino e in esuberanza sminuzzandosi in una infinità di sottogeneri meno immediati e coinvolgenti (nonché talvolta addirittura accidentalmente superflui) tuttavia sarebbe stato per il sottoscritto, per Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson impossibile da capire dentro al locale di Atherstone quella notte e il feeling che provammo sembrò qualcosa di eterno fatta per la gloria indistruttibile (aspetto intrigante: fui io lo spettatore maggiormente ammaliato dalla esibizione ma anche il primo a scocciarsene con l’assestarsi dei 90s optando per donare cuore e l’anima alla scena rave. All’happy hardcore e alla gabber, padre nostro di ogni tuta in acetato.) La convinzione – infantile perciò essenziale – che qualsiasi barriera tra esseri umani si sarebbe rivelata per ciò che davvero è – vale a dire una bestemmia – infine il suono. Un muro melodico talmente denso, ripetitivo e asfissiante da condizionare finanche alcune tra le scelte che avremo compiuto nel giro di poco. Una dimensione oscura e caotica, esecuzioni più torbide del torbido e l’idea ovunque di una farneticamente ma imprescindibile veemenza. Peter Beavan a ripetermi davanti la cassa quanto avessi avuto ragione a bordo del 277 barrato circa il fatto che il volume altissimo e bassissimo alla fine tendano a mescolarsi generando pattern sovrapponibili – cosa che però mai ebbi il buongusto di dire – o Prescott a blaterare sul valore della chitarra suonata «in quel modo lì» (cioè accordata due tonalità e mezzo sotto, avremo scoperto.) Un cane dietro al bar a mordere vecchie scarpe per finire con il sottoscritto rintontito vicino ad Henderson che, primordiale e gutturale, nel giro di poco avrebbe preso a spintonare il fonico che, oltre la palese innocenza per il momentaneo calo di rotondità del basso, si sarebbe rivelato un lontano cugino da parte di madre. 

«Ad ogni modo è fantastico, non trovi. Essere qui adesso
«Adesso?»

«Sì, adesso» per la musica roboante e mordace e la vicinanza anche se – in continuità con ogni Bildungsroman che si rispetti – è stata quella notte di quasi quarant’anni fa la prima nella quale le strade del sottoscritto, Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson si separarono senza poi sapersi ritrovare e credo sarebbe saggio interrogarsi sulle ragioni più ragionevoli a distanza di millenni dato che bisogna scriverne: come mai? (A seguire, prima degli inevitabili saluti e in assenza di repliche, una contestualizzazione estemporanea ma onesta anche se troppo, troppo misticheggiante. Miei giovani Amoghasiddhi alla ricerca di eterna, cosmica redenzione.) 

VII Sezione terminale: Chamberlain Square ieri

In quanto, mi è stato fatto notare, se nasci dalle nostre parti un live dei Napalm Death mica ti cambia poi troppo l’esistenza poiché quel genere di antagonismo – e scanzonatezza o tendenza bonaria all’agitazione sociale – te la porti dentro dalla nascita e vai a sapere il perché. Ma mica dobbiamo sottovalutare l’importanza di qualcosa che sappia canalizzare questa rabbia, donarle una forma riconoscibile e forse si tratta di personale suggestione la correlazione tra il concerto e quanto ne seguì – una proiezione sciocca e infantile – ma continuo a ritenerla affascinante e come minimo riproponibile nelle vesti di conclusione narrativa. 

Dunque è complicato non ricondurre all’impressionante esplosività dei pezzi che i nostri eseguirono sul palco quella notte – se ricordo bene Instinct Of Survival ed Abbatoir poi So Sad – la scelta inattesa di Peter Beavan di scolarsi la quinta birra e scomparire senza proferire verbo, consapevole del fatto che l’unica mossa in grado di redimerlo sarebbe stata fare ritorno a casa a piedi e scalzo (grazie a Google sto ricalcolando adesso la tratta che conduce da Atherstone fino Birmingham: circa trenta chilometri nel buio più totale via Coleshill Road, davanti l’adorabile chiesa di Baxterley e Merevale) al fine di accettare senza ulteriori dubbi la proposta di impiego nei servizi sociali avanzatagli da quella signorina (attuale consorte: Kelly Beavan) che lavorava al centralino dell’ospedale. La stessa anima santa che dimostrò il buon cuore di prenderselo in cura nel retro del proprio appartamento quando i tifosi del Rushall gli ruppero una panchina in legno tra coccige e gluteo e che lo faceva ridere all’atto di cambiare le garze insanguinate. 

Un movimento terminale sotto il palco, i suoi occhi che da rossastri divengono del più classico tra i verdi britannici e l’inizio della peregrinazione rivelatrice in solitaria con le scarpe gettate nel primo bidone disponibile. 

«Scusatemi ma devo dirvelo…ho capito tutto grazie a quanto sta accadendo qui. Lo stimolo al risveglio. L’antagonismo e la rivolta: tutto».
«Eh?»
«Questi colpi tra grancassa e rullante superiori ai 200 bpm» data la sua indiscussa propensione al calcolo, «con le mani alternate ai piedi. Sedicesimi e quartine rivelatrici» in qualche modo – a posteriori – anticipando l’hyper blast, il traditional blast, l’hammer blast e il bomb blast della batteria metal, «per spingermi al movimento e la decisione seguendo la via tracciata da piatto e grancassa» piccola pausa, «in battere. No? Tutto».
«Tutto?»
«Già. Amico mio: tutto».

Al pari, la trasparenza con cui sarebbe impossibile non associare gli abbozzi di pezzi eseguiti dalla band a ciò che Will Prescott si sentì in dovere di confessarmi davanti agli amplificatori urlando come un maniaco cioè che avrebbe dovuto mollare al più presto il ruolo di commesso nel negozio di elettronica di Moor Pool per dedicarsi a quello che intimamente lo ammaliava dall’atto del concepimento ovverosia la pittura con il corpo e la video arte (Will che non sento da trent’anni ma di cui seguo gli aggiornamenti sul Guardian, lui che dovrebbe in questi giorni trovarsi in Québec a inaugurare una personale di sangue e acqua marina in un’abbazia gotica o roba del genere) fuggendo anch’egli senza avvertire salvo dimostrare il buonsenso di chiamare un taxi e pagarlo con una somma di denaro di cui ancora ignoro la provenienza (le mie tasche? Probabile.) 

«Ma stai tranquillo. È una visione sanissima: la rabbia. La creatività. Il futuro che sarà migliore grazie al feedback e la distorsione.»
«Eh?»
«Questo ridurre all’elementarità ogni elemento, la sensazione di auto-flagellazione che è in realtà redenzione…il minimalismo cacofonico della insoddisfazione: nella musica qui attorno, tutto, no?»
«Tutto?»
«Già. Amico mio: tutto

Per finire con Alex Henderson che sulle note di ciò che sarebbe poi diventato Human Garbage volle cimentarsi con il primo stage diving della sua esistenza planando dalle assi del palco sul piccolo tavolo in plastica per fracassarlo, avvertendo al tempo stesso pure quell’inatteso dolore intercostale che lo avrebbe fatto secco in un pomeriggio autunnale dell’anno successivo mentre se ne stava sul divano della casa dei nonni a Trá an Dóilín in Irlanda con in mano (vai a sapere l’origine della scelta) una carota e alcune pillole per la pressione. 

«Già. Amico mio: tutto» a ridosso del salto. L’ultima notte che ci concedemmo in compagnia l’uno dell’altro – forse fisicamente. Certo a livello emotivo – o forse così ho piacere soltanto io a credere ora che mi appresto a concludere il memoriale e davanti al camino di questo salone con calma e rassegnazione valuto alcune cose prima di separarmi (senza eccessivi rimorsi e ripensamenti, ma con eccellenti armonie di batteria) dal mio personalissimo tutto. No?

«Sì. Tutto.» 
«Ok, allora davvero finiamola qui. Compagni.»

VIII Epilogo: Birmingham la mattina

E fortuna che, stando ad alcuni rudimenti basici di meccanica (e nello specifico ciò che ebbe a riferirci il postino al cancello con lo zaino a tracolla, ovvero per fare sì che un corpo non trasli è necessario ridurre a zero la somma di tutte le sue forze) la vasca da bagno arrugginita evitò di crollare dalla nostra terrazza sul giardino sottostante appartenente alla signora Healey la quale, forte di una prole numerosa e decisamente incline ai giochi all’aperto nelle rare giornate di sole, a naso avrebbe gradito poco. Fortuna che saltammo sul 277 barrato per raggiungere in tempo il live di Atherstone e fortuna che – a quanto sembra – proprio in quel contesto sapemmo aprire gli occhi scegliendo, grazie alla rivoluzione sonora e morale cui avremo assistito, le migliori modalità con cui affrontare i rispettivi futuri cioè scomparendo. 

«Mai sentito niente di simile. Sai?»
«Dici?»
«Già. Dico.»

(E del resto mi è stato assicurato che nei mesi successivi a quella esibizione furono gli stessi N. D. i primi a stupirsi del crescente successo, del consenso diffuso e del primo album che sarebbe stato capace di fissare nuovi standard artistici in termini di estremismo e brevità. L’opportunità di tour più seri per finire con la patetica e offensiva mole di articoli o retrospettive stucchevoli a tema nonché troppo inclini alla mitizzazione.)

«Già».

Oltre i generi e oltre le generazioni – ebbi il fegato di ribadire io una sera durante la stronza presentazione di un altrettanto stronzo magazine musicale – una band che è stata punto fermo di etica e buonsenso prima di sfruttare addirittura il termine continuum cacofonico conscio del fatto che qualcuno, per molto meno, nel passato sia stato bruciato vivo in una pubblica piazza. («Il valore» avrebbe gridato il vecchio Bullen «della libertà delle persone sempre più limitata, anche se non nell’ottica destrorsa di potere dire tutto quello che ci pare» e annuisco afferrando adesso quanto sia banalmente l’interezza di ciò in cui credo e ancora sono, cioè un rancoroso e astioso, cistifellico e vendicativo autore di secondo piano al netto di un cuore – e un sarcasmo abbastanza inutile – grande così).

E per questo, se torno a quella notte, lo faccio con grandi rimpianti e rimorsi specie adesso che con passo cadenzato e qualche eccessivo dolore mi sollevo dalla grande poltrona della sala per dirigermi verso la cucina dove tengo le pillole del sonno. Io che apro il frigorifero, che scarto il fogliettino e ne ingoio il contenuto attendendo speranzoso gli effetti. In silenzio o mettendo su un’ultima volta l’LP nel giradischi poi fissando nella durata d’un fulmineo You Suffer il soffitto a cassettoni che meriterebbe una terminale verniciata. 

«Ci sei?» la voce da lontano e «sì. Ci sono» la risposta che do prima dell’inevitabile «ok, allora vieni con me» e la mano tremolante tesa verso il corridoio scuro. 

The multinational corporation.
Takes its profits from the starving nations.
Another product for you to buy.
You’ll keep paying, until you die.

Tre cari amici che ho perso di vista una volta mi fecero sapere che tutto quello che facciamo in vita altro non è che spostarci da un pezzetto di Terreno Sacro all’altro. Peter Beavan, Will Prescott e Alex Henderson che per motivi insoliti se ne sono andati e mi mancano, così come manca il sottoscritto ora che chiudo gli occhi e – in fretta e lentamente – ci provo ad inspirare senza spasmi tra costole e polmoni. A scuotere i capelli al vento delle casse poi, con antica classe, lasciarmi cadere da questo smisurato e solido palco per provare a non risalirci stavolta davvero, davvero più. (Qualcuno di molto sapiente un tempo ha chiamato grindcore quello che ci ha fatto secchi, ma onestamente potrei sbagliarmi e tutto sommato non importa più granché).