Francesco Bianconi

ARTICOLO n. 76 / 2024

L’IMPORTANZA DI ESSERE JOKER

Tutti odiano Joker: Folie à deux. Così leggo in giro.

Accolto in maniera tiepida alla Mostra del Cinema di Venezia, flop al botteghino negli Stati Uniti, e con un misero 33% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, il film di Todd Philips è il sequel del più fortunato Joker, premiato invece a suo tempo da pubblico e critica. Quel Joker mostrava la genesi di un “villain”, attraverso il racconto di una porzione di vita di Arthur Fleck. Ex bambino abusato e ora nullità umana, aspirante comico in una Gotham City del 1981, più sudicia che dark e pronta a esser risucchiata da spirali di violenza. Il ragazzo vive in compagnia della madre e di seri problemi psicologici; vuole essere riconosciuto come artista e come essere umano, ma nessuno si accorge di lui. Questa frattura fra sé e il mondo viene colmata dall’assunzione di un’ombra, di un riflesso cattivo, e così l’alter ego Joker prende il sopravvento su Fleck, che da timido bullizzato diventa violento bullizzatore. Finirà in macello: durante un’ospitata in televisione, Joker uccide il presentatore in diretta. Verrà rinchiuso in un manicomio criminale, mentre la città, in preda a sommosse, chiama a gran voce cattivi maestri da prendere a modello.

È da qui che Folie à deux ricomincia: Fleck è in carcere, anestetizzato dai farmaci e in attesa di un processo. In un corso di canto per detenuti a cui partecipa conosce Harley, una bionda forse più disturbata di lui. Si capisce presto che, più che da Fleck, è attratta dal Joker assopito dentro di lui. Insomma: nasce l’amore, ma nascendo risveglia il male.

La sceneggiatura, opera dello stesso Haynes e di Scott Silver, così come quella del precedente Joker ha il merito di ricreare un mondo di finzione in cui l’elemento supereroistico è compresso fino quasi a scomparire. Il cliché è ridotto a pretesto, a mero ingranaggio di accensione narrativa, a scusa buona per far dimenticare il mondo DC Comics. È ormai lontanissimo il carrozzone grottesco dei Batman di Tim Burton, così come è ampiamente superato il realismo noir di Nolan. Qui non ci sono costumi, armi speciali, lattice e gommapiuma. Allucinata forma di courtroom dramaFolie à deux non enfatizza l’azione tipica del genere: scarseggiano combattimenti e inseguimenti. C’è un solo momento in cui la macchina da presa “esce allo scoperto”, sfondando gli interni (ovvero carcere, tribunale, e studios “mentali” di Fleck), ed è la scena in cui Fleck scappa da un taxi e comincia a correre in mezzo al traffico, ripreso in campo largo frontale, mentre schiva automobili, ambulanze e ostacoli in movimento. Ecco, qui ci si può commuovere se si riconosce l’atto poetico del contravvenire a una regola, fatto con la misura e l’eleganza di un balletto o di un musical. 

Il musical, per l’appunto. Leggo commenti in rete del tipo “non andate a vederlo, non succede niente, parla solo del processo”, e “cantano di continuo, ripetendo le stesse canzoni”, oppure “è un vero e proprio musical” (in senso dispregiativo). Oltre lo sberleffo di prendere a prestito un personaggio dai fumetti e permettersi di scrollargli di dosso tutto il “fumettabile”, Haynes alza la posta e aggiunge carne al fuoco. Ha a disposizione un’attrice che è anche cantante (Lady Gaga, bravissima, anche soltanto nel non sfigurare accanto a Joaquin Phoenix) e ne sfrutta le doti canore. Ma il film non è un musical! O perlomeno non lo è classicamente. I personaggi non dialogano cantando, il modo-canzone rimane all’interno del racconto su un piano di realtà che è esclusivamente quello del sogno, quello della rappresentazione soggettiva del mondo da parte di un personaggio, ovvero il disturbato Fleck. Fleck vede la realtà – sometimes – in forma di musical, e il film ci fa mostra di questo: un uomo la cui mente “vede e pensa in modalità musical”.

Cosa non piace di Folie à deux, dunque? Il tradimento di un genere? Ci si aspettava un action ed è uscito un film d’autore, una forma informe in cui si canta troppo? Potrebbe darsi, anche se già il precedente film, con i suoi rimandi a Re per una notte e Taxi Driver, la diceva già abbastanza chiara sul dove si volesse andare stilisticamente a parare. Non piace Joaquin Phoenix, la cui interpretazione travalica, trascende o annulla quasi il film? Non credo. Sarebbe come criticare all’Everest l’altezza e ai diamanti il troppo splendore. È più probabile che dia fastidio in giro il fatto che Folie ò deux, più del suo predecessore, intendo dire più didascalicamente del suo predecessore, è un film che quasi si autodichiara chiave di decodifica del presente.

Lo è, dal mio punto di vista, a tutti gli effetti. Potrei aggiungere che è addirittura un film necessario per capire l’oggi. Si può effettivamente non essere interessati a questa chiave di lettura e ostinarsi invece a cercare qui e chiedere al genere il distacco, l’ironia, l’evasione. Perfino il divertissement o il postmoderno. “Abbiamo la guerra, il riscaldamento climatico e i ragazzi che massacrano le famiglie, lasciate che Hollywood faccia Hollywood, e i supereroi combattano senza che nessuna scheggia ci arrivi in casa. Lasciateci il piacere del nostro privato e sicuro vivere nerd”. Mi pare di leggere in questo, e mi pare di leggere in generale in giro da qualche tempo i segni di un’insofferenza, di un’intolleranza generale delle persone, nei confronti di qualsiasi fatica interpretativa, e più in generale dell’analisi dei meccanismi di produzione del senso.

Come scrive Giulio Sangiorgio su FilmTV (uno dei pochi che difende), Folie à deux è un’opera «mainstream radicale, situazionismo grand public». Ha ragione. È un film che mostra l’assassino in un tempo in cui l’assassino, quello vero, non lo vuole più conoscere nessuno. È un’opera che senza paura rivela un tratto somatico fondamentale dell’Età Spettacolarizzata: ovvero come tutti noi ci aggrappiamo oramai allo spettacolo come atto disperato. Agiamo solo tramite atti spettacolari, pensandoli come gli unici oramai possibili. Piuttosto che aprirci la testa e guardare dentro, ma anche piuttosto che indagare fuori, colmiamo con l’agire spettacolare il gap fra reale e immaginario. Per poter continuare a vivere, indossiamo una maschera dalla risata spastica.

Tanti anni fa ho avuto la fortuna di svolgere il servizio civile alla ASL di Siena. Fra le varie mansioni che dovevo svolgere nell’arco della mia giornata lavorativa, c’era quella di occuparmi di Federico. Federico faceva il secondo anno in un Istituto Tecnico ed era cieco e paralizzato alle gambe. La mia mansione era quella di andare a scuola all’ora di ricreazione e portarlo in bagno a fare i suoi bisogni. Arrivavo a scuola puntuale, e varcavo la porta della classe Terza D un secondo dopo il drin lungo della campanella; venivo accolto dal boato degli studenti, dal frastuono delle sedie spostate, dalla voglia di uscire in corridoio di tutti.

Salutavo la professoressa, schivavo le spinte di qualcuno e andavo al banco da Federico, che era l’unico, ovviamente, a essere rimasto a sedere. Lui sapeva che sarei arrivato, e appena suonava la campanella cominciava a ridere freneticamente, ad agitarsi. Un filo di bava gli usciva dalla bocca. La professoressa lo raggiungeva al banco e ogni volta, con una carezza sulla testa, cercava di calmarlo. “È arrivato l’obiettore”, gli diceva. L’obiettore, senza alcuna esperienza di tipo medico o infermieristico, e senza avere fatto alcun corso di preparazione, lo sollevava di peso e lo trascinava al bagno, attraversando un corridoio lungo una ventina di metri. L’obiettore in piedi dietro, il corpo di Federico abbracciato davanti, come un manichino appoggiato al petto. L’obiettore spingeva le proprie gambe in avanti e quelle di Federico andavano avanti con lui. Arrancavano, con fatica, passando in mezzo agli altri studenti in pausa, che facevano varco per lasciarli passare. Una piccola Via Crucis quotidiana.

Arrivati al bagno, gli tiravo giù pantaloni e mutande, lo piazzavo con non so quale forza sulla tazza del cesso e aspettavo. Poi lo rivestivo e facevo il viaggio di ritorno nella solita modalità di trascinamento di peso morto: solito lunghissimo corridoio all’indietro, e rientro in classe. Lo posizionavo sulla seggiola, e saluti. Durante questi per me disperati tragitti Federico voleva chiacchierare, era esaltato, felice come una Pasqua di parlare con me. Io respiravo male per la fatica, quindi tendevo a star zitto e lasciavo parlare lui, rispondendo con mozziconi di parole. Federico durante i trascinamenti mi parlava di voler essere Robbie Williams. Il cantante pop, in quel momento molto famoso e adorato dal pubblico. Soprattutto da quello femminile. Perché vuoi essere Robbie Williams, gli chiedevo. Perché è bello, ha donne bellissime, perché è amato. Mi raccontava che stava scrivendo dei testi per delle canzoni di un suo proprio disco personale, che anche lui un giorno avrebbe cantato. Gli chiesi un giorno il nome di questo fantomatico disco e lui senza pensarci un attimo rispose “Millennium”. Millennium era esattamente il nome del disco di Robbie Williams uscito in quel momento.

Federico con me si trasformava in Robbie. La sua ricreazione era essere un altro. La professoressa con cui ogni tanto ho scambiato qualche parola e la tizia con cui mi rapportavo alla ASL mi avevano detto che i genitori di Federico avevano deciso volontariamente di non far usare la sedia a rotelle al figlio. Perché non si sentisse discriminato, perché fosse uguale agli altri ragazzi. Chissà cosa avrà pensato lui, ogni volta che si toglieva la maschera da Spettacolare Robbie. Non potrò mai saperlo, perché con me ce l’aveva sempre su.

Una volta, durante un trascinamento in corridoio, si agitava particolarmente, parlando di Millennium; io ho perso l’equilibrio e siamo caduti a terra. Per evitare che si facesse male ho sbattuto prima io entrambe le ginocchia sul pavimento. Ho bestemmiato per il dolore, ma credo di aver attutito a lui l’impatto col granito. Rideva, me lo ricordo, mi pareva felice. Anche se credo capisse che non c’era la carrozzella soltanto perché ero io la sua carrozzella di carne e ossa, anche se credo capisse bene di non essere come gli altri, in quel momento era un supereroe ed era certo che Millennium sarebbe uscito presto e che prima o poi le donne le avrebbe trombate tutte lui.

ARTICOLO n. 93 / 2022

AIUTA I VECCHI

Vortex di Gaspar Noé

Stanco ed eccitato da non riuscire a dormire: così in certe occasioni mi capita di sentirmi, e così mi sono sentito una notte della settimana scorsa, quando – scanalando – sono incappato nella visione di Vortex di Gaspar Noè. Il film è uscito l’anno scorso ed è adesso disponibile su Mubi, e Noè è autore amato sia dalla critica che dai giovani cinephiles; viene spesso citato come reference, e sovente nominato nelle conversazioni (un collettivo di registi con cui ho lavorato di recente mi ha proposto per l’appunto “un’inquadratura alla Gaspar Noè”) e forse proprio per questo motivo da me snobbato. 

Ho dunque cominciato a vedere il film con molti pregiudizi, diffidente come verso le cose troppo chiacchierate o troppo di moda. 

Ho capito presto che mi sbagliavo.

La storia è quella di due anziani che vivono in una casa disordinata e zeppa di libri nella zona Nord di Parigi. Lui è un cineasta, sta scrivendo un libro sul rapporto fra cinema e sogno, lei è un medico. Nella prima scena sono a letto, dormono, l’uno accanto all’altra. Poi lei apre gli occhi, come in preda a un terrore ignoto, lui, accanto, continua a dormire. Dall’alto del frame dell’immagine una lacrima nera di nero extra-cinema comincia a colare verticalmente, lentamente, dall’alto verso il basso, fino a dividere l’inquadratura in due. Comincia così il racconto split-screen di una terrificante disgiunzione fra esseri umani. La signora non si ricorda più chi sia il marito, confonde nomi e facce, esce per far compere e si perde nel quartiere. I sintomi di una malattia oramai diffusa e nota, la patologia di quelli il cui cervello muore prima del cuore. Mi ha colpito il realismo con cui la malattia viene rappresentata, merito sicuramente di Francoise Lebrun, attrice di culto della Nouvelle Vague, qui in una prova attoriale incredibile, e di Dario Argento, bravissimo anche lui nel ruolo dell’anziano intellettuale italiano di cinema (interpreta se stesso, in fondo, verrebbe da dire, non c’è bisogno di particolare abilità; ma l’argomento è mal posto: non è in questione il fatto che interpreti se stesso quanto il coraggio di portare il se stesso reale dentro una cornice di questo genere, il coraggio di affrontare nudo, senza gli schermi dell’attore, la tempesta di dolore di una sceneggiatura siffatta). Il francese maccheronico di lui, la sua premura, il suo continuare ad amare la moglie attraverso piccoli gesti quotidiani, quelli contrari all’epica dell’innamoramento, i gesti ordinari e squallidi nelle cucine disordinate e nei bagni sporchi, l’eroismo della convivenza dentro gli spazi chiusi. Commuove, l’oscuro neorealista scrutare di immagini e dialoghi all’interno di una distruzione per logorio di due esseri umani vecchi e malati, in lenta discesa verso la morte. Commuove come il film racconti senza troppi simboli la folle innaturale volontà di auto-conservazione dell’uomo di fronte allo scorrere del tempo, rappresentata da lui che non vuole lasciare la casa, quando il figlio propone il trasferimento in una clinica, e che crede ancora in una patetica relazione extraconiugale con una collega, e incarnata dall’abbandono al vortice della morte da parte di lei, che, in un momento di lucidità, sussurra «la cosa più sensata sarebbe sopprimermi».

Non sopporto l’estetica digitale dell’immagine dei nostri tempi, la freddezza del mezzo, la grana del cinema non girato in pellicola e lasciato senza una color correction che lo riporti alla pastosità dell’analogico. Mi piace ogni forma di saturazione, filtraggio, modifica della realtà fotografica. Mi rassicura pensare che ciascuno di noi possa trasformare un’immagine fredda da telefonino, con la giusta app, in un frame di Nicholas Ray o Sergio Leone (bisognerebbe capire poi meglio il perché, a livello cognitivo, ma questo è un altro discorso). Mi rassicura che l’orrore del reale e del mondo possa essere manipolato dal cinema, mi rassicura che persino il cinema e la fotografia, due mezzi così specchio del reale, possano andare in direzione contraria alla realtà, “ridipingendo” anch’essi, come un pittore, il mondo.

Vortex ha una poetica contemporanea, avrebbe in questo senso tutti i vestiti giusti per non piacermi: è girato in digitale e si vede. Certo, la luce degli interni è molto ben studiata (c’è una palette di colori uniforme, ci sono i marroni, il grigio, il buio, l’ocra della pelle degli esseri umani, tutto tende all’ingiallimento e alla decomposizione) ma nonostante la coerenza cromatica ci si accorge della povertà, ci si accorge che nulla è stato colorato o manipolato in post. E, eccezione alla regola, questa nudità, questa verità di camera digitale presentata per quello che è, lasciata alla sua vetrosità senza pasta, senza calore, mi piace. Si tratta dello stesso tipo di sincerità rispetto al reale che poteva avere il filmino in VHS di un matrimonio degli anni ’80. Forse amo le immagini di Vortex perché anch’esse, in fondo, più che essere realistiche lo sono eccessivamente! Sono contro il mondo per iper-realismo, quindi fantastiche. 

E di diritto, dentro a una poetica del fantastico, Vortex ci entra pure per la banda nera che divide lo schermo in due. L’elemento grafico che consente l’accostamento di due punti di vista diversi della stessa scena è il motore primario dell’anti-realismo del film. Nella realtà non ci è dato vedere campo e controcampo insieme, l’occhio non coglie in contemporanea chi cerca e chi è scomparso, è impossibile far coesistere presenza e assenza. Vortex lo fa, e, a uno sguardo attento, è una elegantissima forma di fantascienza.

Il mondo che abitiamo è fatto di anziani. Anziani dalla vita sempre più lunga, ed è per questo che viviamo l’epoca della demenza. Abbiamo sempre più quotidianamente a che fare con l’Alzeheimer, come se dovessimo pagare lo scotto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Le statistiche dicono che oggi i malati di demenza sono circa 55 milioni nel mondo, e che nel 2050 saranno assai probabilmente raddoppiati. Ci sono previsioni attendibili di raddoppio di numero ogni venti anni. L’eternità, un prezzo, pare avercelo: l’obnubilamento delle nostre menti, per esempio. Si tratta di un triste paradosso: l’uomo prolunga la propria vita sulla Terra con i progressi della medicina, della tecnologia e della scienza, ma intanto la Terra si popola di vecchi che si ammalano lentamente e lentamente entrano in un vortice di oblio in cui si perde la memoria della ragione profonda per cui si è voluto sconfiggere la morte. 

Help the aged, diceva una canzone intelligente dei Pulp, «aiuta gli anziani perché son stati giovani prima di te, perché hanno sniffato colla prima di te». Bisognerebbe aggiornare aggiungendo: aiuta gli anziani, dai loro una moneta e condividi con loro un pezzo di pane, prima che i costi sociali sempre più alti della demenza (nel mondo senza giovani) ti travolgano e portino te e il tuo Paese all’impoverimento e al collasso. Aiuta gli anziani, aiuta te stesso. A qualche fanatico di governo, alla retorica del razzismo, bisognerebbe rispondere che non saranno orde di barbari a mandarci in rovina, ma il deterioramento delle cellule cerebrali nostrane.

Eugenio ebbe un ictus che lo costrinse a una vita di vegetale. Ottantaseienne, cadde una mattina di novembre mentre lavorava come ogni mattina nell’orto di casa. Lo portarono all’ospedale, dove entrò in coma. Dopo due giorni si svegliò, ma quasi completamente paralizzato (la mano sinistra aveva ancora libertà motoria, e i muscoli della faccia). Apriva la bocca per parlare, ma non riusciva a emettere suoni comprensibili, solo rantoli strozzati, grugniti bestiali. Muoveva a volte le pupille a destra e a sinistra, velocemente, e inarcava le sopracciglia folte. La moglie Dina – che insieme all’infermiere lo accudiva – capiva che in quei momenti Eugenio stava per piangere. E in effetti poi piangeva, a dirotto, con singhiozzi soffocati, come potrebbe piangere un uomo sott’acqua, senza respiro. Le lacrime scorrevano sulle rughe delle guance, sulla pelle che dopo l’ictus si era ritirata, accartocciata. La accarezzavi e sembrava di legno. Le lacrime la bagnavano e capivi quanto Eugenio in quei momenti fosse invaso da un terrore assoluto: il terrore dei sepolti vivi. Era un vivo dentro un corpo di morto.

L’infermiere mi ha raccontato che una volta Eugenio una frase riuscì a dirla. «Tanto terribile», disse l’infermiere, «che fatico a ripeterla e prego il buon Dio che me la sia sognata». Lo tartassai così tanto che me la ripeté, bianco di paura. «Le medicine. Dammi le medicine per morire».Quando Eugenio morì, calò una barra nera nel film della vita di Dina. Che era una donnina angelica, buona, intelligente. Forte come un manovale. Una barra nera la divise in due immagini: la Dina di sempre, acuta, sveglia, presente, dolce e una Dina nuova. Feroce, cattiva, senza memoria. Questa Dina nuova compariva con sempre maggiore frequenza nel film della Dina vecchia, con violenza. Urlando, bestemmiando, maledicendo il mondo. Non si ricordava chi fosse. A volte diceva di essere una bambina, e mi implorava di riportarla a casa. «Che ci faccio qui? Questa non è mica casa mia», diceva. Fino a che lo split screen della Dina vecchia non rimase un’inquadratura vuota da una parte e l’inquadratura di una Dina nuova silenziosa stesa senza vita su un letto di ospedale, neanche tre mesi dopo dalla morte del marito, dall’altra. Dina ed Eugenio erano i miei nonni, si sono amati per sessant’anni, senza separarsi mai, e io li ringrazierò per sempre per avermi insegnato come si possa con eroismo e dignità portare sulle spalle il peso dello squallore del mondo.

ARTICOLO n. 34 / 2022

LICORICE PIZZA & LA MIA BEATA GIOVINEZZA

«Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi» rivela con forza epigrammatica una poesia di Sandro Penna.Quando un paio di settimane fa sono uscito dalla sala del cinema Arcobaleno in viale Tunisia dopo aver visto Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, mi sono venute in mente quelle parole. Eccitato e commosso assieme, ho dovuto camminare un po’, prendere aria, respirare e guardare la realtà extra-cinematografica pian piano rigenerare la propria forma, prima di riprendermi completamente e riportare alla regolarità il battito cardiaco.

Ho guardato il manifesto del film appeso in strada all’entrata del cinema: un fotogramma che sintetizza bene lo spirito del film, con l’attrice protagonista in primo piano. L’ho toccato, per sentire quanto fosse di carta, quanto fosse per l’appunto finzione, fiction, frammento di sogno di celluloide, quanto la vita che stavo riprendendo a vivere fosse cosa altra rispetto alla messinscena per immagini a cui avevo appena assistito.

Il film è la storia di un amore fra due ragazzi nella Los Angeles del 1973. Lui, Gary Valentine, ha quindici anni, è grassottello ma per niente impacciato e goffo, anzi, è un lanciato iper-promotore di sé stesso, un imprenditore in miniatura, una baby incarnazione del mito americano del self-made man; lei si chiama Alana Kane, ha 25 anni, lavora senza troppa passione come assistente di un fotografo, vive insieme al padre, alla madre e alle sorelle (famiglia ebraica) e sembra non essere in sintonia con niente e con nessuno. Si sente fuori posto, rispetto ai coetanei, rispetto agli adulti, rispetto a chi è più giovane di lei. Se non, per l’appunto, e sorprendentemente, con questo quindicenne smargiasso brufoloso che le fa la corte in modo spudorato e che lei non può (non deve, non dovrebbe!) assolutamente filare, secondo la regola volgare ed aurea insieme che sancisce che le ragazze vanno dietro soltanto ai maschi più grandi di loro.

Una parte superficiale ma per niente banale del film è in fin dei conti la descrizione romanzata della trasgressione di questa regola: ovvero il ragazzino anti-eroe che da rospo poco attraente si rivela pian piano principe azzurro e riesce a conquistare la preda impossibile e grande, a lui culturalmente e proverbialmente proibita.

Ma questa lettura è riduttiva: tutto il cinema di Paul Thomas Anderson è denso e stratificato, impossibile da leggere in maniera univoca. Io l’ho visto in una sorta di trance, tutto d’un fiato, piangendo a dirotto a più riprese e anche scoppiando a ridere in parecchi momenti. Non mi capita più così spesso di essere rapito da qualcosa. Rapito è la parola adatta. Sono stato trascinato con violenza da uno stato a un altro. Artigliato (etimologicamente sembra che raptus abbia una radice comune con «Arpìa») e portato da una dimensione di realtà a una dimensione altra ma altrettanto densa di significato proprio perché verosimile, compatibile con il mio personale vissuto.

Ci sono momenti nel film che sono puro cinema, dal mio punto di vista, in quanto monadi in cui i vari segni che compongono il codice filmico sono così fusi assieme da risultare irriconoscibili. Quando Gary Valentine viene arrestato, portato alla stazione di polizia e poi rilasciato, dopo un breve dialogo con Alana, viene scagliata una di queste frecce di cinema assoluto: una scena in apparenza molto semplice in cui viene filmata la corsa di un adolescente. Niente di più di Gary che, riacquistata la libertà, corre col suo fisico imperfetto su una strada della San Fernando Valley degli anni Settanta, nel sole. È una scena senza dialoghi, ed è solo, per l’appunto, un ragazzo che corre. È cinema puro perché non scritto o meglio così scritto da risultare muto e potente come un’esplosione stellare. È come la corsa del piccolo Antoine Doinel ne I 400 colpi di Truffaut, come i pistoleri che si dispongono a «triello» nel balletto finale de Il buon, il brutto, il cattivo, come il giro a Ostia in Caro Diario, come l’inizio di Persona di Bergman e come centinaia di altre scene o inquadrature che non sto ovviamente qui ad elencare. Ciò che mi interessa è questa capacità che a volte il cinema ha di far perdere le tracce dei segni di cui è fabbricato: perciò segui il dialogo – se c’è – come fossero le parole della tua reale esistenza quotidiana, la musica – se è presente – non la senti o la senti così forte come se l’avessi scritta tu e coincidesse con il battito del tuo cuore o con la paura e l’emozione che stai vivendo in un momento della tua vita; la tua vita, quella cosiddetta «vera», non cinematografica. Il cinema che scorrendo passa senza lasciar intravedere traccia di sé è il più subdolo e pericoloso: lo adoro, certo, perché grazie al cielo non mi fa incagliare nella saccenza di certe sceneggiature che fanno finta di essere intelligenti e fanno sfoggio di sé, ipercinetiche, ultra-brillanti, cariche di quell’ansia da prestazione da battuta perfetta che molti moderni scrittori per il cinema e la TV tendono ormai ad avere sempre, ma allo stesso tempo lo temo perché proprio perché somiglia alla vita, e nella sua perfetta manifattura tende a fondersi con essa, sostituirvisi. E così amore si aggiunge ad amore, ma anche dolore a dolore.

Nella San Fernando Valley del 1973 tutto sembra assolato e favoloso, e anche possibile: la musica è fantastica, puoi incontrare John H. Peters, ex-parrucchiere poi playboy poi produttore poi marito di Barbara Streisand, puoi fondare un’azienda di materassi ad acqua, puoi essere una baby star del cinema; eppure tutto è anche già marcio, sembra voler dire Paul Thomas Anderson. Impercettibilmente, con misura ed eleganza, questo meraviglioso film è la storia della contrapposizione fra la purezza dei ragazzi protagonisti, della loro innocenza (sono innocenti anche quando provano a fare i grandi, sono puliti anche se sognano il mondo sporco dei soldi e del business) e lo schifo senza possibilità di salvezza del mondo degli adulti. L’America nel 1973 è diventata adulta e compromessa rispetto a quella giovane e piena di speranze degli anni Sessanta. Il sogno è finito. «It’s on America’s tortured brow / that Mickey Mouse has grown up a cow», canta David Bowie in Life on Mars sparata non a caso a tutto volume in una scena del film. La Storia, possiamo azzardare, uccide i sogni. I sogni rimangono sempre immutabili, irrealizzati e bellissimi, nel cuore dei bambini e dei ragazzini. Prima che qualcosa li sporchi. Da una parte sta il fuoco della giovinezza e dall’altra tutto ciò che può servire a spegnerlo: nel film, nello specifico, la crisi petrolifera del 1973, le manovre politiche, gli abusi di potere e le megalomanie dell’industria del cinema. Ho pianto vedendo questo film perché inevitabilmente ho pensato a me, ho pensato a mia figlia, a mia moglie e ai miei cari, ho pensato ai sogni che a volte la Storia ruba ai ragazzi prima del previsto. Ho pensato che la giovinezza, a poterla congelare in eterno, sarebbe antitetica alla corruzione, fermerebbe le cause della colpa e ogni senso di colpa assieme, coinciderebbe col Bene.

Quando sono uscito dal cinema ho guardato il cellulare e scrollando sull’homepage del New York Times ho visto foto terrificanti dell’invasione dell’Ucraina e letto titoli di stragi di civili, fra cui bambini. 

E pensare che neanche mezz’ora prima, in un’altra scena del film, guidata da un amico di Gary, ho invece rivisto la mia bicicletta di ragazzino.

Credo fosse il mio compleanno. I miei genitori, intorno al 1978 (avevo cinque anni), mi regalarono una bicicletta blu, col manubrio piegato e un sellino con lo schienale altissimo. Un chopper a pedali. Era la cosa più bella che avessi mai visto. Uno dei miei primi ricordi di essere umano sono le pedalate con quella bicicletta nelle strade sterrate intorno a casa. La sensazione del vento in faccia e fra i capelli. Ecco cosa intendo quando sostengo che Licorice Pizza in alcuni momenti si sostituisce pericolosamente alla tua vita, ai tuoi ricordi, al tuo bagaglio esperienziale. Con quella bici facevo gare di velocità coi miei amici, ovviamente, ma accompagnavo anche mio nonno a fare escursioni in campagna. Durante questi percorsi mio nonno mi raccontava la storia dei posti a cui passavamo accanto, mi mostrava le case, le località, certi alberi e certe cose che ai suoi tempi c’erano e che al nostro passaggio già non c’erano più. Mi raccontava che in quelle strade e in quei campi di grano, prima che ci venisse costruito un villaggio sopra, lui, sopra un carretto trainato da un somaro percorreva il tragitto quotidiano per andare a scuola. Io ascoltavo le storie del suo mondo perduto, come si ascolta una fiaba, bella e lontanissima. Ogni tanto raccontava le storie della guerra, della sofferenza patita, dell’aver sposato mia nonna un mattino ed essere partito per il fronte il giorno dopo. Storie che mi parevano antiche, meravigliose e distanti anni luce da me. Avevo solo sei anni, il mondo del cinema (il cinema neorealista dei racconti di mio nonno, in questo caso) con quello della mia vita non potevano ancora combaciare. 

Mio nonno era un uomo alto ed elegante, me lo ricordo un giorno fermarsi davanti a certe lamiere vicino alla Casa del Popolo dove venivano affisse le pagine de l’Unità. Si fermava sempre a leggere quei giornali appesi, e anche io diligente parcheggiavo la mia mini-Harley Davidson e aspettavo. Quel giorno invece di stare in silenzio lesse e disse: «Farabutti!», a voce alta. Il rapimento Moro, io l’ho vissuto così.

Un giorno d’estate ci fermammo sotto un olmo a fare colazione. Avevamo comprato un panino con la mortadella, l’acqua e l’aranciata in un Bar Tabacchi da qualche parte vicino al Canale Maestro della Chiana, che lui conosceva bene perché ci andava a comprare le sigarette quando nel dopoguerra prese a lavorare come stradino. Non so perché quel mattino, non so perché proprio in quel posto; chissà perché, ma mi piace pensare, nel mio rimembrare distorto, che ci fosse a quell’ora lo stesso sole di un mattino californiano.

Però successe. Fu il mattino in cui mi raccontò della morte di suo figlio. Il fratello maggiore di mio padre morì a quindici anni per un’infezione cardiaca che al giorno d’oggi sarebbe stato una sciocchezza curare. Mi raccontò di come i dottori avessero consigliato di farlo curare da uno specialista a Roma, solo così si poteva avere la speranza di salvarlo. Bisognava però raccomandarsi a certe persone e al vescovo. Io non capivo cosa significasse raccomandarsi al vescovo e chi fosse questa congrega di persone del paese così potenti da poter decidere chi va dentro gli ospedali buoni di Roma e chi invece ci resta fuori. Mio nonno piangeva mentre raccontava e io mi preoccupai. Mi raccontò che lo convocarono in un imprecisato ufficio e quelle certe persone gli dissero che, insomma, si sapeva bene come lui la pensasse politicamente, e che quindi l’unico modo per accedere a questa via medica di alta categoria era quello di abbandonare la tessera di un certo partito e prendere quella di un altro. Mio nonno sotto l’olmo si asciugava gli occhi col fazzoletto e piangeva come un vitello, per la prima volta incurante del fatto che questo piangere così a dirotto e senza difese mi potesse turbare. Non si dimentica, un vecchio che piange. «La mia risposta fu no», mi disse, me lo ricordo, «dissi a quelle persone spinto da non so cosa che la tessera non la prendevo mica, e un mese dopo Alcide morì». 

Ho capito tutto con più precisione molti anni più tardi. E ho capito che il mondo è instabile e tende inevitabilmente alla corruzione. La giovinezza, che non si può fermare con un tasto freeze, è un’età mitica in cui ancora questa nozione è ignota, e di conseguenza si è generalmente beati. Ma questa ignoranza è poi la stessa che ci sbatte in faccia con ancora più forza la rivelazione dei virulenti processi di decomposizione. E può far molto male. 

Dobbiamo proteggere i nostri figli dalla moltiplicazione forsennata delle immagini del sangue, proteggerli dal video-massacro mediatico che la Storia quotidianamente ci offre; è compito nostro occuparci di questa nuova forma di difesa dei cuccioli dal pericolo, ed è nostro dovere addestrarli a nuove modalità di sopravvivenza. Eppure, in ugual modo sono sempre più convinto, in un una maniera nuova che ancora non sappiamo e che filosofi e psicologi dovranno cominciare a indicarci, che potremmo cominciare a togliere i ragazzi dalla campana di vetro e lasciarli vivere in un universo un po’ meno bambino-centrico. E nei limiti del possibile, insegnare loro il perdono, la pietà, il logos di Eraclito che tutto trasforma, la fisica di Aristotele e le leggi del movimento; insegnare loro quanto inevitabile sia in tutto la fine, celebrando da subito, con adeguato rito, il matrimonio della vita con la morte.

ARTICOLO n. 20 / 2022

ADDIO AL CALCIO

Ci allenavamo due volte alla settimana, noi dei Giovanissimi B, per il campionato della stagione 1980/1981. Io avevo sette anni e portavo una frangetta tagliata male. Ero il migliore della classe e masticavo chewing-gum per darmi arie da bullo, ma ero in realtà timido, effeminato e perdente. Tutto questo non impedì che entrassi nella squadra di calcio, non appena la Società Sportiva del paese si organizzò per metterne su una. I miei compagni di scuola, più atletici e fanatici di me, urlarono come scimmie quando si diffuse la notizia che ci avrebbero fornito gratis una muta professionale: maglie rosse fiammanti col numero dietro, pantaloncini immacolati bianchi, parastinchi e copri-parastinchi. Roba mai vista. Nessuno di noi aveva mai fatto parte di una squadra prima di allora. Io mi imbarcai nell’avventura soprattutto perché Marco, Michele, Gianni e gli altri thugs che frequentavo avevano detto sì; e perché all’epoca, in quel contesto di villaggio di provincia, semplicemente non ti potevi rifiutare, pena l’esclusione da tutto, l’isolamento sociale. A Badia si rischiava la derisione, la denuncia, il manicomio, la galera, a non seguire quello che facevano tutti: sia che si trattasse della decisione di non ricevere i sacramenti cristiani sia di quella di astenersi dal calcio. 

Era un misto di desiderio e di terrore; un incrocio fra il sentirsi inadeguati, non dotati, non atleticamente giusti, e l’essere sopraffatti da una irrefrenabile passione, da un raptus. Sentivamo che quella era l’occasione per superare una forma di giovanile vergogna, per dimostrare che non era peccato mettersi in mostra: il campo di calcio, lo avrei capito soltanto dopo, è prima di tutto un palcoscenico. Coi miei amici lo affrontavo a testa alta, e la paura bisognava farla passare. Perché di paura ce n’era eccome: il campo sportivo pareva sterminato e totalmente sproporzionato alle nostre coscine di rana. Il rettangolo di gioco incuteva terrore sempre, perfino il martedì e il giovedì, quando, senza né gli avversari né gli spettatori, a calpestarne l’erba eravamo soltanto noi e il Mister. 

Dante M. accettò con entusiasmo l’incarico di allenare noi ragazzini, perché era un ex calciatore dilettante, ma soprattutto perché quella per lui era una fantastica (e forse ultima) occasione di sogno e di evasione dalla realtà. Alto due metri, pesante cento chili, capello lungo biondo e baffo folto alla Roberto Pruzzo, fumava due pacchetti di Nazionali al giorno e beveva parecchi Campari, anche di mattina. Dante M. era un orango, uno yeti, un visigoto. Sempre sopra le righe, in maniera violenta e disperata cercava qualsiasi cosa che gli impedisse anche temporaneamente di lavorare. Eppure era un bravo cristo, una delle persone più pure e sincere che mi sia mai capitato di incontrare. In paese era un personaggio: gran frequentatore di bar, grande attore, eroe geniale della goliardia, della zingarata, della barzelletta volgare. Molto spesso gli capitava di fare a cazzotti con qualcuno, e noialtri, per questa sua fama di picchiatore, lo temevamo. Comunista, cacciatore, pescatore, tiratore al piattello, politicamente assai scorretto, ci chiamava «finocchi» con gusto sadico, faceva battute volgari sulle nostre mamme quando non ci impegnavamo nella corsa, dava del grassone al mio compagno di banco Bobo che era effettivamente sovrappeso. «Avanti Zeus, Dio della Braciola!» gli urlava. Ma in campo, con quel fischietto e i pantaloncini inamidati, sembrava un danzatore, mentre noi, ammaliati, zitti, lo guardavamo danzare. Come si guarda una divinità. Dante si scrollava di dosso in un colpo solo i cazzotti, il fumo, il bere, le donne, sua moglie, i debiti, i soldi, il governo, Craxi, Andreotti e Fanfani; si scrollava di dosso la fuliggine della vita e danzava per noi in quella pianura d’erba rigata di gesso. Quel pezzetto di terra era il cielo in cui lui, albatro liberato, splendido di bellezza volava. 

Ricordo bene il primo gol segnato in partita, una domenica mattina a Piancastagnaio, e la prima gomitata nelle costole data al centravanti del Pienza. Quanta paura, prima di entrare in campo, e al contempo che determinazione di esserci, di dimostrare. Ma che cosa avremmo mai voluto dimostrare? Me lo chiedo adesso. Forse che anche noi potevamo essere degli eroi. Come Maradona, Paolo Rossi, Platini, Zico, Socrates, Antognoni. Valorosi soldatini dentro qualcosa di più sicuro e più a portata di mano di una guerra. 

Ho visto su Mubi l’altro giorno un bel film di Céline Sciamma che si chiama Tomboy. La storia di una ragazzina che si trasferisce con la famiglia in un nuovo quartiere e decide di fingersi maschio. Il film racconta bene il rapporto tra natura e cultura chiamando in causa l’arbitrarietà della dicotomia maschile/femminile e delle pratiche che ne assicurano la perpetuazione. Il calcio, ad esempio. Nel film la piccola Laure, maschiaccio preadolescente, gioca partite di pallone al campetto insieme ai nuovi compagni; gioca bene, si mette in mostra, e alla fine riesce a segnare un gol. La camera segue i ragazzi da vicino, senza virtuosismi; tutto è semplice e tutto è naturale, sembra volerci dire. Quasi non c’è regia, non c’è spettacolo. È una partita a pallone fra ragazzini, innanzitutto: una faccenda elementare, semplice, naturale come la giovinezza. Ma lo sguardo della Sciamma, lo si capisce solo in un secondo momento, riesce ad aggiunge a questa naturalezza un elemento in più. Non lo si coglie da subito, ma poi arriva, precisa e implacabile, la sensazione che dentro quella innocente partitella di provincia sia contento un sacro rito. Un rito sacro al cui interno c’è un infedele. Un infiltrato, una spia: la femmina che non può (non potrebbe) giocare al gioco dei maschi e che quindi, con uno stratagemma, gioca.

Questa scena della partita mi ha toccato il cuore. Forse proprio perché mi ha ricordato quanto anche io, ai tempi eroici della squadra di calcio, fossi in fondo nient’altro che una maldestra pecora nera dipinta di bianco.

Qualcosa, nell’organizzazione del Mondo, e del calcio nel 1981 per l’appunto, mi costringeva a non essere me stesso. Mi costringeva a essere un me che non volevo essere; per vivere, per sopravvivere. Eppure, proprio non ci riesco a condannare, a imputare di colpevolezza. Non riesco a essere cattivo col calcio. Mi rendo conto di quanto esso sia indifendibile: un classico smoking gun case. Sono convinto, certo, della responsabilità di una certa cultura machista e performativa del gioco del pallone, in un momento storico come questo di giusta presa di coscienza delle tematiche relative al genere e alla sessualità. Eppure, maledizione, la scena di Tomboy non mi ha emozionato soltanto perché mi ha ricordato di tutte le volte che mi sono sentito femmina potenziale inespressa o repressa. No, sarebbe tutto troppo facile.

Dopo aver visto il film, prima di andare a dormire, ho tirato fuori dallo scaffale Addio al calcio di Valerio Magrelli, e anche la sua ultima raccolta fresca di stampa dal titolo Exfanzia.

I poeti son prodigiosi come i santi: riescono a evocare mondi lontanissimi nel tempo e nello spazio e li fanno collidere con oggetti, segni, tracce, sentimenti più noti e quotidiani. Addio al calcio ordina in novanta brevi capitoletti (il numero dei minuti di una partita) i ricordi calcistici di Magrelli, il suo rapporto col figlio, la sua relazione con il mondo del calcio. C’è un tono ironico, garbato, che permea il continuo flusso di comparazione fra ciò che è stato e ciò che adesso è, fra ciò che eravamo e quello che siamo diventati: è un inventario lirico di ciò che abbiamo perduto, per sempre, nello srotolarsi agonistico dell’esistere. Nell’appena uscito Exfanzia, che guarda caso si apre con una poesia che si chiama Una variazione da Addio al calcio, Magrelli dipana illuminazioni che hanno come scintilla di partenza, come da titolo, l’infanzia e la preadolescenza dell’uomo, viste dalla prospettiva dell’uomo che da quelle fasi biologiche è ormai lontano. L’exfanzia è illuminante per l’exfante proprio perché quadro da contemplare per rendere forse più beata l’attesa della morte; non c’è più niente da capire: a una certa età forse si raggiunge per forza una pace (una inquietante pace, nei casi peggiori) in cui i ricordi di giovinezza non costituiscono più indizi / inizi di autoanalisi. È sicuro: appartengo anch’io alla categoria di chi riesce a guardare il passato remoto rimanendo in questa sorta di pace anti-psicanalitica, proprio perché cosciente che in quel passato non c’è più niente da capire. In quel lontano quadretto di squadra di provincia, c’era un calcio che oggi non c’è più, c’era un ragazzo che oggi non c’è più; eppure, e a maggior ragione, di qual quadro colgo adesso la bellezza. Come fossi al cinema o in un museo, mi godo il suo incanto di mondo perduto (o meglio trasfigurato, divenuto fantastico, irreale).

Ecco perché ho pianto vedendo i ragazzini di Tomboy.

Poi passa il tram fuori dalla finestra, nonostante sia notte fonda qualcuno impreca per strada, e la magia si perde. Cerco di riacciuffarla ma non ci riesco. Mi si inchioda con decisione in testa un altro quadro: quello del presente, ancora non esposto al museo. Il quadro del calcio di oggi.

Viene per forza da chiedersi quanto il gioco del calcio continui a esercitare il suo potere incantatore, quanto continui a essere costruttore di sogni, trasversale e interclassista (com’era il calcio delle origini e com’è il calcio dell’exfanzia). Quanto rimanga oggi di questo suo potere ultraterreno, adesso che – lo sappiamo tutti – il gioco è cambiato, i calciatori son tutti troppo uniformemente muscolosi, la velocità è aumentata, il giro di affari è centuplicato, le partite si giocano tutti i giorni ma in televisione e andarle a vedere allo stadio è superfluo, eccetera eccetera. 

Durante i Mondiali dell’82, ci fabbricammo delle bandiere: oggi nessuno si costruirebbe più, da solo, una bandiera. Nessun ragazzino, né in città né in campagna. Quanto tempo è passato da quell’estinto atto? Quante vite? Quali altri modelli di vita il gioco del calcio ha accompagnato nel corso di questi quarant’anni? 

Tomboy e i due libri di Magrelli mi hanno fatto ricordare che il bastone lo facemmo con una canna di bambù che tagliammo al fosso che scorreva dietro casa di Jimmy, e che alla parte in stoffa ci pensò la nonna di qualcuno che aveva la macchina da cucire da sarta. 

Mi ha fatto pensare all’ultima volta che sono stato a vedere il Milan a San Siro, esattamente dieci anni fa, all’esperienza acustica dei tifosi sugli spalti in coro. E a fine partita, io e quei tifosi, a testa bassa, ancora tutti un po’ in trance, che camminiamo per raggiungere i mezzi, le macchine e i motorini, prima di far ritorno a casa, prima di tornare umani. 

Se non ricordo male dieci anni fa il fuoco sacro, a momenti, pareva ancora acceso.

Braci fioche spuntavano ancora sotto strati densi di cenere.

Dante M. è morto quindici anni fa. Pare di cirrosi epatica, solo e disperato. Alla fine degli anni Ottanta era persino riuscito a partecipare a due puntate del Maurizio Costanzo Show: diceva di avere un superpotere, saper riconoscere gli extraterrestri a fiuto.

A noi ha sempre voluto bene, penso spesso a lui e a tutto quello che ha fatto per noi ragazzini dell’U.S. Abbadia, categoria Giovanissimi B. Penso che sia stata quella una stagione magica, perché per incanto, tramite gioco del calcio, una comunione di felicità ebbe luogo. Come i miracoli, avvenne. Nell’Era dell’Ego, e a maggior ragione in questi terribili giorni di violenza, guerra e separazione, mi sono ricordato del potere che ha avuto il calcio nella mia vita: rendermi per la prima volta felice in mezzo agli altri.

Sì, viviamo giorni duri, eppure bisogna resistere. 

Come dice Magrelli: «non c’è pallone che non si sia perso o forato, e forse tutto questo vorrà dire qualcosa».

ARTICOLO n. 12 / 2022

IL MONDO DISCONNESSO

Se non si ha qualche separazione, non si ha neppure più né soggetto né oggetto di conoscenza;
non si ha più né utilità interna di conoscere né realtà esterna da conoscere.
Edgar Morin, La conoscenza della conoscenza

Il gioco del destino e della fantasia (2021) di Rysuke Hamaguchi è un film così astuto da mostrarsi leggero mentre maschera la propria profondità, così perfetto nel saper cancellare sotto un velo di minimale manifattura un vortice di interpretazioni. Nell’ultimo dei tre episodi di cui è composto, intitolato «Ancora una volta», si racconta di Natsuko, una giovane donna che partecipa a una rimpatriata di compagni di scuola con la speranza di rincontrare la vecchia fiamma dell’università. Non la trova, ma incontra invece su una scala mobile Ayo, casalinga frustrata con figlio che lei scambia per il suo antico amore. Comincia così un malinteso che porterà Ayo ad ospitare Natsuko a casa propria, fino al disvelamento dell’errore e alla messa in scena di un gioco di ruolo toccante (e disperato), nel quale entrambe le donne giocano a impersonare il ruolo del reciproco oggetto del desiderio.

Tutta costruita su lunghi e ipnotici dialoghi rohmeriani, questa storia mi ha lasciato l’amaro in bocca e scatenato parecchie riflessioni. Mentre i due precedenti capitoli del film sono ambientati nel presente, “Ancora una volta” si apre con un cartello che informa che la vicenda ha luogo in un tempo in cui un virus informatico ha provocato la diffusione dei dati informatici, causandone la perdita. Il mondo è tornato quindi pre-digitale e pre-informatico; le uniche forme di comunicazione rimaste sono la posta e il telegrafo.

Nel film però questo setting distopico quasi non si avverte; è tenuto con eleganza in sottofondo. La casalinga Ayo ordina per posta pacchi di blu-ray per il figlio perché i servizi di streaming sono fuori uso, ed è costretta a ricordare a memoria le mail private del marito (che flirta con un’altra) che il virus generatore di caos ha indirizzato a lei. Oltre a ciò, nella sceneggiatura non ci sono altre manifestazioni della catastrofe tecnica che è accaduta. Sembra quasi non avere importanza. Mi sono reso conto solo al momento dello scorrere dei titoli di coda di quanto quella che sembrava solo una cornice sia in realtà il vero motore del dramma.

Mi sono chiesto: che aspetto avrebbe davvero il Mondo Iperconnesso in cui viviamo se di colpo, per un guasto, un inconveniente o un attacco hacker, venisse di colpo a cessare per essere sostituito con il modello preesistente?

Non lo sappiamo per certo ma è sicuro che al momento l’iperconnessione ci garantisce una forma di conoscenza diversa da quella che l’uomo ha esperito fino a soltanto cinquant’anni fa. La rete e poi di conseguenza i social network hanno messo in connessione gli uomini e le informazioni degli uomini secondo modalità nuove. Ogni relazione è possibile, tutto è potenzialmente conosciuto. Tutto è totale.

Tutto è collegato, metaforicamente «in orizzontale», per lo meno, a scapito della verticalità e della profondità. Profondità che è comunque possibile: perché potenziale resta l’approfondimento, certo, ma inevitabilmente secondario, messo di fronte al godimento che l’orgasmo gnoseologico orizzontale ogni secondo ci dona.

Insomma, d’improvviso ci siamo conosciuti tutti, ci conosciamo tutti, le distanze geografiche si sono annullate, i segreti sono stati tutti rivelati, i templi profanati e aperti ai mercanti. Questo stato di chiarimento dell’oscurità e dell’ignoto e della sua sostituzione con una forma (per quanto parziale, veloce, approssimativa) di “noto”, ha appagato gli uomini come forse era mai successo prima nella Storia e gli ha ridisegnato attorno una nuova casa. Ci sentiamo così tutti quanti immersi in una sorta di nuova sicurezza, e ci pare di agire sempre dentro una grande bolla protettiva, buona e giusta. La democratizzazione delle tecnologie, il fatto che tutti possiamo permetterci uno smartphone che ci connette con il Mondo sempre, ci dà l’illusione di essere forti e completi; una completezza che arriva per l’appunto dalla sensazione di assoluto che la conoscenza dà. La tecnologia che iperconnette ha modificato la struttura dei nostri cervelli, i nostri brainframes, e ci sentiamo persi ogni volta che qualcosa mette in crisi o sospende per un attimo la nostra relazione totale col Mondo. Le patologie da perdita di connessione le conosciamo già abbastanza bene, sono già tutte qui, pronte ad accoglierci. L’acronimo F.O.M.O, ad esempio, viene dall’inglese «Fear of missing out» ovvero «paura di essere tagliati fuori», e indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto col cyber-mondo per paura di rimanere esclusi da qualsiasi avvenimento che ci offra un’opportunità di interazione sociale. La Nomofobia (dalla contrazione di «No-mobile phobia») si riferisce invece al terrore di rimanere senza telefono o senza connessione a internet. È considerata una dipendenza comportamentale: secondo il professore di psichiatria David Greenfield dell’Università del Connecticut l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Il livello di dopamina sale quindi ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare: ogni volta pensiamo che ci sia in serbo per noi qualcosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualcosa di piacevole, così si avrà l’impulso di controllare di continuo. È, dicono, lo stesso meccanismo che si attiva nel gioco d’azzardo.

Uno studio degli psicologi Shari P. Walsh e Katherine M. White intitolato Over-connected? A qualitative exploration of the relationship between Australian youth and their mobile phones già qualche anno fa cercava di indagare sull’attaccamento estremo al cellulare e sui relativi sintomi di dipendenza comportamentale. Sintomi quali salienza cognitiva, euforia, ma anche impotenza, cioè il sentirsi incapaci di fare determinate cose senza l’ausilio del proprio smartphone. La maggior parte dei ragazzi australiani aderenti allo studio riferiva di percepire, non potendo usare il cellulare, livelli di disagio personale elevati e di sentirsi «disconnessi dalle altre persone».

Abbiamo forse, nell’Era della Iperconnessione, di fatto amplificato e drogato un nostro naturale bisogno, quello di essere amati. Ci stiamo allontanando, in questo contesto di conoscenza totale dei dati e di collegamento a tutti e a tutto, dal concetto cristiano «ama il prossimo tuo». Lo abbiamo, pare, temporaneamente sostituito con un più approssimativo «cerca di essere amato». In un romanzo italiano poco conosciuto, Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria, racconta di notti di insonnia collettiva che tutti vogliono dimenticare e esseri giganteschi e mostruosi che si aggirano per la città. In questa Torino anni Settanta, come al solito grigia ed esoterica, De Maria però butta lì con nonchalance, dimostrando doti di veggente e anticipando il concetto di social network, l’esistenza di una biblioteca in cui non si trovano libri editi ma segretissimi diari dei cittadini, resi consultabili, disponibili per chiunque vi acceda, e voglia entrare così in contatto col privato degli altri.

In quei giorni in cui faceva paura uscire di casa e succedevano cose mostruose e innominabili gli autori dei privati diari sentirono il bisogno di entrare in contatto gli uni con gli altri – sembra volersi chiedere De Maria – perché non era più possibile sostenere la pesantezza del proprio esistere? Sostenerla in privato, senza poterla condividere? In altre parole, non era più possibile amarsi, sentirsi amati?

Il Mondo (non più) Iperconnesso evocato nell’episodio del film mi fa pensare anche al tempo. Penso ai social, dove tutto è conosciuto e conoscibile sempre, in una sorta di sospeso, superficiale eterno presente. Conoscendo i dati personali di tutti, divento amico di tutti, divento amico del mondo, e lo divento forever. Scrollo, swappo, e, questione di nanosecondi, sono aggiornato. Partecipo all’evoluzione del mondo, live, senza scatti, senza interruzioni. Non lo vedo invecchiare, invecchio semmai insieme a lui, ma non me ne rendo conto. C’è una canzone di Guccini che amo molto che si chiama «Ti ricordi quei giorni», in cui l’io cantante si rivolge a un amore di gioventù (forse il primo amore); questa persona viene chiamata in causa direttamente; il primo verso, rivolto a lei, è proprio «ti ricordi quei giorni?». Una domanda: ti ricordi quel determinato e ormai lontano periodo in cui abbiamo avuto un’esperienza insieme? L’io cantante, man mano che la canzone si dipana, non si ricorda la faccia o la voce di quella ragazza perduta nel tempo. Nel “mondo non social” in cui la canzone è scritta, Guccini non ricorda la faccia e la voce della fidanzata di tanto tempo prima, o ne ha un ricordo parziale, o assai poco compiuto, e di conseguenza trasfigura quell’esperienza. Ricostruisce, aggiunge. Viene attuato un passaggio dall’oggettività del reale a una sfera di sua soggettiva rappresentazione. E in questo caso, come nelle canzoni ben fatte, o nell’arte che passa alla Storia, si guadagna in potenziale patemico, densità lirica.

Nel Mondo non social di una volta, il tempo procedeva a scatti, e nel presente si riusciva a cogliere il senso del passato e quello del futuro. Il Mondo social di oggi presuppone un tempo indeclinabile, un’eternità, un presente bloccato.

È un po’ quello che Mihály Csíkszentmihályi definisce «stato di flow». Quando si è in questo stato, la persona si trova totalmente assorta in un’attività di suo gradimento in cui il tempo vola e azioni, pensieri e movimenti si succedono l’un l’altro senza fermarsi. Col flow siamo totalmente coinvolti nell’attività che stiamo realizzando e manteniamo un livello di concentrazione assoluto. Tuttavia, tale livello di assorbimento induce a uno stato di mancanza di autocoscienza in cui viene annullata la concezione egocentrica di sé come attore. Come effetto collaterale, lo stato di flow porta per l’appunto a una alterazione del tempo: passano le ore e non ce ne rendiamo conto.

Saremo mai in grado di gestire questo appagamento da iperconnessione, amministrare le nuove forme di conoscenza del mondo, governare l’incoscienza del tempo che passa, senza contraccolpi?

Tanti anni fa una ragazza, mentre ci stavamo lasciando, mi guardò terrorizzata negli occhi e con voce rotta mi disse: «non voglio perderti».

Mi abbracciò e poi scoppiò a piangere.

Più recentemente invece, per questioni di lavoro, ho fatto una ricerca su internet. Volevo capire che fine avesse fatto un ragazzo americano la cui famiglia mi aveva ospitato nel 1987 in occasione di uno scambio culturale organizzato dal mio liceo. Ero stato a casa sua in Virginia per circa un mese, e lui aveva fatto lo stesso a casa dei miei in Toscana. Nel mio ricordo, in un mondo non social, Charles Waters era un sedicenne allampanato, alto, secco come un chiodo, con l’apparecchio per i denti, la camicia di flanella e i capelli lunghi. Allegro, chiassoso, appassionato di Tom Petty, Van Halen e Steve Miller Band.

In rete ho ovviamente trovato decine di Charles Waters, ma all’inizio nulla che corrispondesse a quello che era il mio ricordo di lui. Poi, all’improvviso, su Linkedin, tombola. Non ci ho creduto subito, ma poi sì, «è lui» mi sono detto, «ho trovato il mio uomo». Ho scoperto che Charles vive adesso in Florida, ha fatto il college, e poi ha tentato la carriera militare. Platoon leader in Iraq, poi è tornato a casa ed è finito a fare prima il police officer a Tulsa e poi la guardia del corpo privata; adesso è capo del servizio di sicurezza di una ditta informatica a Miami. La foto sullo schermo ritrae un signore grasso, in giacca e cravatta, che sorride in maniera poco convinta. È completamente calvo o rasato a zero, non si capisce bene.

Ho cercato più di trent’anni dopo Charles Waters e l’ho trovato. Ma in un certo senso non è lui. Avrei forse dovuto invecchiare con lui, sarei dovuto rimanere in contatto con lui, avessimo avuto a disposizione nel 1987 un mondo social invece del primo disco dei Guns n’ Roses; avrei dovuto tenerlo sempre sott’occhio, rendere noto il suo ignoto, e così lui di me. Avremmo annullato la geografia, disintegrato il tempo. Io avrei capito quanto Charles i suoi genitori liberal li odiasse, e che il nonno, che mi parse subito un ignorante guerrafondaio repubblicano, fosse invece il suo idolo da sempre. Avrei capito che più che l’hard rock e il sesso gli interessasse fare a botte e sparare.

Oppure semplicemente, dovrei ricordare a me e insegnare a mia figlia che bisogna avere il coraggio di perdere, chiudere, lasciarsi alle spalle. Il coraggio di non trattenere per forza tutto quanto. E vivere anche nel dolore e nella morte, ebbene sì, e nel mistero che essi generano.

ARTICOLO n. 4 / 2022

LA FINE DI UN MONDO

Strange days have found us
Strange days have tracked us down
They’re going to destroy
Our casual joys
We shall go on playing or find a new town
Yeah!

JIM MORRISON

Viviamo tempi apocalittici. Passeggiando per le strade della mia città alle prese con l’emergenza sanitaria, la paura del contagio, la corsa alle vaccinazioni, sento risuonare in petto la tensione del far convivere lo scorrere della vita ordinaria con lo spettro aleggiante (ma mai così in carne) della morte. Sento mancarmi il respiro e alzo gli occhi al cielo. Nello spazio affissioni vicino al ponte fra via Melchiorre Gioia e il parco Bam svetta la gigantografia di Don’t look up, il film di Adam McKay di cui parlano tutti e che pochi giorni fa ho divorato anche io.

Dal mio punto di vista di europeo di mezza età appassionato di cinema ci ho trovato il difetto delle commedie cerebrali americane moderne: esageratamente ammiccante, la sceneggiatura per tutta la durata del film si sforza di mostrarsi intelligente e mostrare sé stessa più che essere funzionale alla narrazione. Terminata la visione, per capire sé stessi sbagliando nel formulare il mio giudizio, ho dovuto rivedere The fortune cookie del 1961, una black comedy scritta da Billy Wilder e I. A. L. Diamond, perché la ricordavo anch’essa densa di dialoghi feroci, e quasi barocca nello sciorinare ipercinetico battute scoppiettanti, e ho capito che no, non mi sbagliavo affatto. 

Don’t look up è figlio dei nostri tempi, della voglia di chi scrive (il cinema, ma in generale tutto) di scrivere come se si stesse partecipando a un concorso, a un talent. Si procede per ammasso, si accumula, tendendo alla saturazione, come se si dovesse lanciare un detersivo, corrompere una giuria o impressionare col mostro il pubblico del circo. Per cui se scelgo di raccontare l’Apocalisse, bulimicamente infilo nel copione tutte le battute possibili. I film di Billy Wilder, ma anche la screwball comedy americana degli anni Trenta, o persino Hitchcock, possono essere anch’essi film molto parlati, ma sanno fermarsi, lasciare spazio all’immagine, sanno respirare. Hanno sceneggiature scritte ancora in funzione della storia da raccontare.

Il cinema commerciale contemporaneo, non tutto ovviamente, è scritto come se si dovesse tirare un sasso gigantesco nello stagno e far sì che gli anelli derivanti scavalchino lo stagno della storia (cinematografica). Si scrive cinema (o serie tv, ancora meglio) un po’ come se si stesse facendo uno scoop giornalistico, un saggio di danza, uno spettacolo di stand up comedian in cui conquistare tutti e far ridere sempre, pena la fucilazione.

Peccato perché la storia è semplice ma azzeccata: una coppia di scienziati scopre che una cometa è diretta verso la Terra e che nel giro di sei mesi la distruggerà. Ma il mondo non prende sul serio la notizia, perché troppo indaffarato in altre questioni. Anzi, in un certo senso la accoglie ma solo per inglobarla e piegarla al processo di spettacolarizzazione mediatica che ben conosciamo. 

Oddìo, siamo davvero così sicuri di conoscerlo bene? In questo senso bisogna ringraziare Adam McKay, perché ha scritto una storia che pone esplicitamente delle domande e sottolinea fenomeni che forse davamo per scontati oppure che no, non conoscevamo affatto. Siamo sicuri di essere a conoscenza della nostra tecno-tossicodipendenza? Di aver letto sul foglietto gli effetti collaterali? Siamo sicuri di essere pienamente coscienti di vagare ormai come dannati nella spirale digitale dell’ostensione del nostro ego? Siamo davvero sicuri di non ritrovarci in fondo disperati e soli, nel mondo che tutto comunica e interconnette?

Disperati e soli gli esseri umani lo sono da sempre. Eppure, mentre scelgo il petto di pollo al supermercato, ho la sensazione che mai come in questo momento storico da questa parte del mondo si faccia finta di non rendercene conto. Ci illudiamo di essere belli, eterni, connessi, sempre disposti alla cosa più importante da fare: scrollare, taggare, filtrare, levigare la nostra immagine per metterla in piazza, fino alla disintegrazione del corpo, alla mortificazione della carne.

In questo senso Don’t look up è un bel film, o più che bello è un film necessario. Pedagogico addirittura, didascalico come il cinema popolare italiano degli anni Cinquanta, quello non engagé: la commedia, il melodramma, il bellico e persino il comico. Cinema barocco, grottesco, semplificato, rispetto a quello degli autori, che si dava in pasto alle masse assetate di intrattenimento e fungeva bene da chiave interpretativa dei tempi e della Storia. Perciò Don’t look up, con i suoi errori, il suo sovraffollamento nevrotico di temi trattati, dalla satira contro Trump al ruolo dei media, è per come sintetizza la nostra epoca nuovo cinema popolare, cinema che sono molto felice che gli americani producano in questo periodo. È un prodotto che ha il coraggio di mettere nero su bianco che la fine del mondo non avverrà con scoppi e cataclismi. Neanche con asteroidi, pestilenze, guerre mondiali, virus, terremoti. La fine del mondo innanzitutto non avverrà. Sta già accadendo. Il mondo (o una parte del mondo, e poi a seguire tutto quanto) finirà senza effetti speciali, senza clamori. Finirà nello squallore. La solitudine ci seppellirà. Non saranno gli alieni, non sarà il meteorite imprevisto. Saremo noi a non saper governare il presente in selvaggio mutamento con un’idea di futuro e una visione adeguate. 

Saremo noi a guardare sugli schermi dei telefonini la famiglia nucleare morire. 

L’Annuario Istat dice che soltanto qui da noi in Italia il numero delle famiglie monoparentali (cioè composte da un solo elemento) negli ultimi quarant’anni è cresciuto tanto che, solo nell’ultimo ventennio è passato dal 21,5% del 1997-98 al 33% nel 2017-2018, fino a rappresentare un terzo del totale.

Fanno parte della categoria giovani e vecchi: giovani che si staccano dal nido (perché a quanto pare non siamo più neanche tanto mammoni, neppure quello, dato che lasciamo casa dei genitori solo leggermente in ritardo rispetto alla media europea, che è di 26), anziani rimasti soli magari dopo la morte del marito o della moglie, giovani che vivono lontani dalla famiglia di origine per motivi di studio o per scelta ma che non sono economicamente autosufficienti, i single economicamente autosufficienti, i divorziati o separati, i vedovi, e gli stranieri che, arrivati in territorio italiano, vivono soli.

Le cause della parcellizzazione familiare sono tante. C’è l’invecchiamento sempre più evidente della popolazione, e come dicono ormai tutti i docenti di demografia intervistati dai giornali, ci sono le trasformazioni sociali e i modi di formazione della famiglia: anche a voler stare con un’altra persona, lo si rimanda, ci si sposa sempre più tardi. Perché si invecchia sì, inesorabilmente, ma non si muore e si rimane in scena strombazzando quanto sia giusto rimanere fanciulli in eterno, in nome di Peter Pan e del mito dell’innocenza. A ingrossare le file dell’esercito degli isolati c’è poi ovviamente la donna, che, finalmente slegata dal ruolo obbligato di moglie e madre a cui è stata per secoli culturalmente assegnata, secondo i dettami della società patriarcale, si rende autonoma e indipendente economicamente e sceglie di vivere da sola. C’è un ancora misterioso e inspiegabile, per il piccolo mondo antico che abitiamo, 5% di donne che per scelta non vogliono procreare (come scrive in un bell’articolo Simonetta Sciandivasci uscito su La Stampa). E infine ci sono i fallimenti dei progetti d’amore, i separati e i divorziati tutti, anche loro, nuclei monoparentali. Li incontro ogni giorno al supermercato o al parco al mattino portare il cane a pisciare. Popolo di non anuptafobici, abbiamo vinto le guerre di indipendenza e soli regniamo sovrani.

Ma non per forza, e non ancora, felici. Dobbiamo ancora imparare. Monoparentalmente si è infatti più esposti al rischio di povertà, visto che ad esempio non si possono condividere affitti e bollette con qualcun altro. È di sicuro il problema economico quello più rilevante, ma a questo ne vanno aggiunti altri, di altro carattere, come il fatto di non poter contare su una rete di sicurezza familiare, rappresentata dai genitori o dai fratelli, quantomeno nell’immediato. Ci sono anche alcuni studi che rileverebbero conseguenze psicofisiche: il 14% di chi vive da solo, nel momento in cui gli è stato chiesto come si sentisse, ha risposto: «molto male».

Abbiamo tutte queste persone sole, ancora in coda all’hub vaccinale, che aspettano pazienti scrollando le schermate dei social; tutte queste persone sempre più giovani e sempre più vecchie che postano davanti alla Posta, per distrarsi, in coda alla Fine di un Mondo. Giovani e vecchi soli che consumano e inquinano il pianeta più di quanto farebbero in famiglia; solitudini che costano care agli Stati, esseri umani che non moriranno ma si ammaleranno e che di conseguenza comporteranno costi, assistenze sanitarie e sociali che nessun bilancio riuscirà più a sostenere se ci ostineremo a vivere con la rivoluzione tecnologica nuova in mano e sistemi di pensiero vecchi in testa, sistemi mai rimpiazzati da una nuova visione. Avremo allora superato e risolto antichi familiar-borghesi problemi (il patriarcato, il maschilismo), fatto conquiste di eguaglianza sessuale, ma senza le regole nuove queste conquiste rimarranno sterili, o buone per i rotocalchi o i videosalotti di un mondo inaridito. Un mondo di persone sole, così perdute a toccare schermi da non accorgersi che la fila è già cominciata: quella per la grande adunata nella Valle di Giosafat, obbligatoriamente in presenza.

ARTICOLO n. 8 / 2021

Esercizi di solitudine. Tornare a scoprire noi stessi

Isolato dal mondo, più che mai a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, cerco di scrivere nuove canzoni e rileggo la prima stesura di un libro a cui sto lavorando. Fuori dalla finestra la primavera comincia a dare segnali di sé, annunciata da un maestrale sferzante che fa sbattere le persiane del condominio. I contagi sono in aumento, così come i ricoveri nelle terapie intensive e i morti. Sono avvezzo ormai da un anno a rimanere arroccato nel mio studio, questi quaranta metri quadrati in cui sono ammassati libri, strumenti musicali, oggetti utili o inutili, feticci accumulati nel tempo. Mi sono abituato da un anno a vivere passando più tempo dentro le mura di casa che altrove, avendo dovuto oltretutto rinunciare alla parte sociale e itinerante del mio mestiere di musicista rock, mestiere che è fatto anche di viaggi e cambi di scenario frequenti. In opposizione a questo stile di vita a cui la professione mi costringeva, mi viene da pensare che forse la mia indole è sempre stata quella di adorare più la stasi del movimento, di provare piacere soprattutto nei momenti in cui potevo fermarmi e concedermi il lusso di rinchiudermi nel mio home studio. Non a caso l’isolamento nella turris eburnea è sempre stato creativo. I miei occhi, attraverso le finestre della mia stanza di lavoro, non hanno certo accesso a panorami da cartolina: vedo da qui muri grigi di altri palazzi, e altre finestre affacciate su un cortile. Non ho distrazioni: riesco così a concentrarmi sulla scrittura, musicale o meno, a essere produttivo. Durante il primo lockdown, con la prima brusca interruzione della vita sociale, per la prima volta il soggiorno nello studio ha assunto carattere coercitivo e qualcosa, come per incanto, è cambiato: mi trovavo in fin dei conti a stare nel mio posto preferito, ma il fatto stesso che ci dovessi stare come Napoleone a Sant’Elena ha avuto come risultato un totale blocco creativo. Non sono riuscito a scrivere niente: né una canzone, né una poesia, un raccontino scemo o un aforisma. Non avevo voglia neanche di suonare. Trovavo ripugnante l’idea di organizzare degli streaming casalinghi, cosa che tanti miei colleghi hanno fatto. Io non ci sono riuscito: chiuso dentro queste mura mi sono chiuso anche dentro la mia testa, in silenzio.

Il virus, la pandemia, si diceva. Si dà la colpa al virus. La «vita prima del virus», «come saremo dopo tutto questo», ci si interroga su come sarà il mondo che verrà. Il problema non è il virus, è proprio il mondo. Non era forse mio piacere massimo, prima che esplodesse tutto questo, creare nella mia testa un teatro di apocalisse da cui prendere riparo, e sfruttare questo rifugio di fiction come motore per il mio lavoro creativo? Non ho forse sempre dovuto inventarmi una mia privata pandemia, una peste, una guerra termonucleare globale da cui ripararmi a fini di scrittura? Non ho forse mai fatto altro che inscenare miei Decameron mentali? Non sono mai riuscito a scrivere del mondo standoci dentro, questa è la verità. Ho sempre dovuto distaccarmene, per poterne scrivere.

Bisogna avere il coraggio di ammettere che il mondo è orribile, indipendentemente dalle pandemie, dalle catastrofi naturali, e persino dalle sciagure create per mano dell’uomo. Credo che ci sia un’energia, una forza irrazionale e distruttrice che guida la vita nel mondo; la pulsione vitale in sé è così incatenata alla logica della sopravvivenza da implicare, più o meno in absentia, la morte e l’autodistruzione. Il mondo, la vita nel mondo, l’uomo, gli animali, i vegetali, tutto è animato dal volere, dice il protagonista di Memorie dal Sottosuolo; ciò che guida il mondo è il volere, che è un voler vivere e sopravvivere ma anche, per l’appunto, un volere a tutti i costi, anche a costo di sospendere la razionalità e autodistruggersi. Non si spiegherebbero la seconda guerra dello Schleswig, quella di Secessione americana e altri irrazionali distruttivi accadimenti, dice in quel racconto Dostoevskij, se non col trionfo della volontà individuale sopra ogni altra cosa. Ecco perché il voler vivere della vita è anche un voler morire.

Se assumiamo che il mondo fa schifo, cerchiamo di farci almeno tornare utile questo concetto. Ad esempio l’insensato e orribile funzionamento del mondo, gettando nell’angoscia esistenziale tante vite umane, ha creato da sempre, nella Storia, visioni e produzione di linguaggi non convenzionali.

Credo che si possa affermare senza problemi una correlazione fra presa di coscienza della repulsione verso il mondo e instaurazione di codici espressivi originali. Non è una novità che questa presa di coscienza può certo generare isolamento, depressione, volontà di uscire di scena volontariamente praticando il suicidio, ma anche febbrile produzione artistica. Ciò che chiamiamo «arte», semioticamente parlando invenzione di codici (o, come succede già da un po’ sul Pianeta Terra, semplice rimescolamento dei preesistenti), ha sempre a che vedere con una individuale illuminazione del mondo, e molto spesso questa illuminazione scaturisce da una presa di distanza fra il rappresentante e il rappresentato.

La pittura è stata per secoli realistica e figurativa, ma è sempre stata altresì segno di una volontà individuale di rappresentazione. È difficile tenere nascosto l’autore in ogni tipo di quadro, anche in quelli di maggior realismo. Anche i dipinti che ci sembrano «solari» e ci danno un bel senso di pace per come rappresentano un volto di dama o un paesaggio di campagna non sono altro che la volontà di qualcuno di rapportarsi al mondo. Qualcuno ha scelto, invece, di vivere quel prato verde o quella donna, di mettersi alla debita distanza e ritrarlo. C’è sempre un allontanamento, anche nelle migliori intenzioni.

Si allontanavano i religiosi, praticando l’ascetismo, secoli orsono, in Oriente e in Occidente. Prendevano le distanze dal mondo gli Stoici e i Cinici, e in fondo tutta la filosofia greca dell’età classica era un’istigazione alla fuga e al disprezzo delle cose terrene. Ma ci si allontana dal mondo per andare dove? Qual è la destinazione? La cima di una colonna, come gli stiliti? La botte di Diogene? La casa al numero 918 della Trentacinquesima Strada Ovest di New York, dalla quale si controlla tutto via telefono e via Archie Goodwin come Nero Wolfe? Il deserto, un eremo? È più probabile pensare che la destinazione, l’unica possibile, perché dal mondo materialmente non si fugge, sia un luogo mentale. Dentro la mente allora, tutto si compie: è lì che il bodhisattva cerca il vuoto, è lì che Giacomo Leopardi trovò l’infinito, è lì che Sri Aurobindo, chiuso in una stanza dal 24 novembre 1926 al 5 dicembre 1950 – giorno della sua morte – incontrò Dio («Non è contro il governo britannico che ora devo battermi, questo chiunque può farlo, ma contro l’intera Natura universale!», disse).

Si crea in questi casi volontariamente e inevitabilmente uno stato di solitudine.

Ma la solitudine portata dall’isolamento artistico porta vantaggi. È un isolamento che ridiviene sociale, genera visioni che poi vengono comunicate a un destinatario di qualche tipo, qualcuno che è altro dal loro creatore; vengono reinserite nel mondo, a lui restituite perché diventino di tutti, e da tutti interpretabili. Lo stato di solitudine artistica genera il fenomeno che chiamiamo «ispirazione», quello che secondo alcuni piove magicamente «dall’alto» e che invece non è altro che il risultato di viaggi-vacanze tematici, di percorsi guidati all’interno delle nostre autostrade sinaptiche. L’ispirazione è una grande fuga dal mondo che ha per meta il grande deposito di detriti di mondo (ricordi, psico-fotografie, sogni, impressioni, materiale d’archivio del Magazzino Inconscio) e genera sempre proficue raccolte. Nel viaggio ispirato si collezionano sassolini, funghi, briciole, frammenti, fossili, tessere di mosaico, figurine sfuse, ritagli di universo, e li si fanno scontrare secondo logiche combinatorie non convenzionali: in poche parole, si fanno invenzioni. Si creano altri mondi.

Isolandosi, l’artista pratica una sorta di working solitude. La sua solitudine diventa una fabbrica che produce e fa rumore.

Deve aver fatto parecchio baccano la solitudine di Georges Bataille, che notoriamente fu antisociale e scontroso a livelli estremi. A un ricevimento mondano organizzato da Gallimard, tutti gli scrittori presenti col cocktail in mano si voltarono di scatto verso di lui (che vi era stato trascinato a forza) non appena lo videro entrare, ammutoliti come se avessero visto il diavolo.

Hanno sicuramente fatto rumore le solitudini di Salinger e Lucio Battisti, scomparsi in casa propria dopo aver lasciato il mondo a emozionarsi con Il giovane Holden e con una manciata di dischi indecifrabili, oltre che col mito stesso della loro scomparsa.

H.P. Lovecraft si isolava e volontariamente inventava universi fantastici perché, come diceva lui: «il mondo è banale». Anche la sua solitudine fu produttiva: odiando il mondo perché già noto e conosciuto nel dettaglio, ripudiò la letteratura del reale per rifugiarsi nel  fantastico. Finì per costruire mondi di orrore irreale che erano più reali della realtà: mondi paralleli abitati da esseri disgustosi, fetidi, dementi. Chi ha fatto la conoscenza delle sue creature scalpiccianti e melmose sa bene quanto esse tornino volentieri a tormentare gli uomini nelle notti insonni, a libro già chiuso.

È importante tenere in considerazione però che dare una voce alla solitudine, una voce che sia produttiva e pura, non è impresa facile. Persino i grandi possono fallire.

Rimbaud scrisse tutto ciò che doveva scrivere a proposito del e contro il mondo nei suoi primi diciannove anni di vita. Dopodiché il mondo lo riarruolò. L’isolamento mentale creativo cessò, dalla poesia passò all’avventura, e oscenamente (come tutte le cose del Regno del Reale) si fece negriero e mercante d’armi.

D’altronde anche Salgari si suicidò disperato facendo harakiri perché il mondo lo riportava continuamente a sé: i debiti da pagare, le cartelle da consegnare all’editore senza neanche poter rileggere, la moglie finita in manicomio, la vita grama e squallida nella casetta di Corso Casale. Il mondo lo riportava alla realtà, e quei pirati e quelle giungle immaginate divennero un lusso da non potersi più permettere. Mompracem diventò soltanto una fatica insopportabile.

La pandemia che stiamo vivendo non è altro che un evidenziatore fosforescente dell’orrore del mondo. L’artista, oggi più che mai, può approfittare della condizione di isolamento forzato per tuffarsi dentro di sé e affrontare i propri demoni.

Gli esseri umani dell’Occidente da almeno due secoli hanno esacerbato una contraddizione: hanno vissuto in funzione del fuori, cercato il fuori per imporre sul fuori il proprio potere, il proprio dominio. Si sono dedicati alla conquista del mondo, con l’illusione di sottometterlo, o renderlo meraviglioso e conforme ai propri criteri etici ed estetici.

Questo grave errore ha generato una deprecabile Età dell’Individualismo, un’epoca popolata di cultori del sé, ma dal punto di vista del solo «guscio esterno». Gli uomini si sono dedicati alla pratica dell’ossessiva ed esclusiva comunicazione di questo guscio. La conseguenza, come denuncia il filosofo Byung-Chul Han nel suo La salvezza del bello è una estetizzazione diffusa, dovuta alla veloce proliferazione di immagini levigate da consegnare al consumo. Tutto è levigato. I corpi sono forzatamente resi sani, muscolosi, puliti e piatti per poter durare in eterno nel mondo del fuori. In questa chiesa della forma, in questa spiaggia assolata cosparsa di gusci smerigliati però nulla più accade, nulla più ci tocca nel profondo.

Siamo finiti a curare troppo il nostro fuori per vivere per sempre, nel fuori, dimenticando il dentro.

È giunta l’ora della riconquista del dentro.

L’arte nuova, sconvolgente, il segno che travolge e cambia la vita verrà da chi avrà il coraggio di chiudersi in sé stesso, vivere nel film dell’orrore della propria psiche.

D’ora in poi, quando ci relazioneremo col mondo, sarà necessario imparare a tralasciare l’Ego, che è un po’ il nostro psico-amministratore e gestore degli apparati di difesa e comunicazione, e abbandonarvisi piuttosto in quei momenti in cui lui stesso si abbandona al delirio dell’Es. Dovremo non governare l’inconscio, ma esserne governati.

L’artista pandemico e post-pandemico dovrà affinare questa capacità e renderla insegnamento.

Non si potrà più permettere di essere soltanto razionale, e di agire solo in superficie, calcolando semplicemente i vantaggi e gli svantaggi del proprio agire come fosse un agente di commercio. Non basterà più.

E così, una volta riconquistato il nostro proprio dentro saremo forse capaci di proiettarlo all’esterno per migliorare il fuori.

Nella riconquista del dentro qualcuno si farà male, ma è il prezzo che va pagato. Ogni atto eroico porta con sé il rischio del sangue.