ARTICOLO n. 76 / 2024
L’IMPORTANZA DI ESSERE JOKER
Tutti odiano Joker: Folie à deux. Così leggo in giro.
Accolto in maniera tiepida alla Mostra del Cinema di Venezia, flop al botteghino negli Stati Uniti, e con un misero 33% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, il film di Todd Philips è il sequel del più fortunato Joker, premiato invece a suo tempo da pubblico e critica. Quel Joker mostrava la genesi di un “villain”, attraverso il racconto di una porzione di vita di Arthur Fleck. Ex bambino abusato e ora nullità umana, aspirante comico in una Gotham City del 1981, più sudicia che dark e pronta a esser risucchiata da spirali di violenza. Il ragazzo vive in compagnia della madre e di seri problemi psicologici; vuole essere riconosciuto come artista e come essere umano, ma nessuno si accorge di lui. Questa frattura fra sé e il mondo viene colmata dall’assunzione di un’ombra, di un riflesso cattivo, e così l’alter ego Joker prende il sopravvento su Fleck, che da timido bullizzato diventa violento bullizzatore. Finirà in macello: durante un’ospitata in televisione, Joker uccide il presentatore in diretta. Verrà rinchiuso in un manicomio criminale, mentre la città, in preda a sommosse, chiama a gran voce cattivi maestri da prendere a modello.
È da qui che Folie à deux ricomincia: Fleck è in carcere, anestetizzato dai farmaci e in attesa di un processo. In un corso di canto per detenuti a cui partecipa conosce Harley, una bionda forse più disturbata di lui. Si capisce presto che, più che da Fleck, è attratta dal Joker assopito dentro di lui. Insomma: nasce l’amore, ma nascendo risveglia il male.
La sceneggiatura, opera dello stesso Haynes e di Scott Silver, così come quella del precedente Joker ha il merito di ricreare un mondo di finzione in cui l’elemento supereroistico è compresso fino quasi a scomparire. Il cliché è ridotto a pretesto, a mero ingranaggio di accensione narrativa, a scusa buona per far dimenticare il mondo DC Comics. È ormai lontanissimo il carrozzone grottesco dei Batman di Tim Burton, così come è ampiamente superato il realismo noir di Nolan. Qui non ci sono costumi, armi speciali, lattice e gommapiuma. Allucinata forma di courtroom drama, Folie à deux non enfatizza l’azione tipica del genere: scarseggiano combattimenti e inseguimenti. C’è un solo momento in cui la macchina da presa “esce allo scoperto”, sfondando gli interni (ovvero carcere, tribunale, e studios “mentali” di Fleck), ed è la scena in cui Fleck scappa da un taxi e comincia a correre in mezzo al traffico, ripreso in campo largo frontale, mentre schiva automobili, ambulanze e ostacoli in movimento. Ecco, qui ci si può commuovere se si riconosce l’atto poetico del contravvenire a una regola, fatto con la misura e l’eleganza di un balletto o di un musical.
Il musical, per l’appunto. Leggo commenti in rete del tipo “non andate a vederlo, non succede niente, parla solo del processo”, e “cantano di continuo, ripetendo le stesse canzoni”, oppure “è un vero e proprio musical” (in senso dispregiativo). Oltre lo sberleffo di prendere a prestito un personaggio dai fumetti e permettersi di scrollargli di dosso tutto il “fumettabile”, Haynes alza la posta e aggiunge carne al fuoco. Ha a disposizione un’attrice che è anche cantante (Lady Gaga, bravissima, anche soltanto nel non sfigurare accanto a Joaquin Phoenix) e ne sfrutta le doti canore. Ma il film non è un musical! O perlomeno non lo è classicamente. I personaggi non dialogano cantando, il modo-canzone rimane all’interno del racconto su un piano di realtà che è esclusivamente quello del sogno, quello della rappresentazione soggettiva del mondo da parte di un personaggio, ovvero il disturbato Fleck. Fleck vede la realtà – sometimes – in forma di musical, e il film ci fa mostra di questo: un uomo la cui mente “vede e pensa in modalità musical”.
Cosa non piace di Folie à deux, dunque? Il tradimento di un genere? Ci si aspettava un action ed è uscito un film d’autore, una forma informe in cui si canta troppo? Potrebbe darsi, anche se già il precedente film, con i suoi rimandi a Re per una notte e Taxi Driver, la diceva già abbastanza chiara sul dove si volesse andare stilisticamente a parare. Non piace Joaquin Phoenix, la cui interpretazione travalica, trascende o annulla quasi il film? Non credo. Sarebbe come criticare all’Everest l’altezza e ai diamanti il troppo splendore. È più probabile che dia fastidio in giro il fatto che Folie ò deux, più del suo predecessore, intendo dire più didascalicamente del suo predecessore, è un film che quasi si autodichiara chiave di decodifica del presente.
Lo è, dal mio punto di vista, a tutti gli effetti. Potrei aggiungere che è addirittura un film necessario per capire l’oggi. Si può effettivamente non essere interessati a questa chiave di lettura e ostinarsi invece a cercare qui e chiedere al genere il distacco, l’ironia, l’evasione. Perfino il divertissement o il postmoderno. “Abbiamo la guerra, il riscaldamento climatico e i ragazzi che massacrano le famiglie, lasciate che Hollywood faccia Hollywood, e i supereroi combattano senza che nessuna scheggia ci arrivi in casa. Lasciateci il piacere del nostro privato e sicuro vivere nerd”. Mi pare di leggere in questo, e mi pare di leggere in generale in giro da qualche tempo i segni di un’insofferenza, di un’intolleranza generale delle persone, nei confronti di qualsiasi fatica interpretativa, e più in generale dell’analisi dei meccanismi di produzione del senso.
Come scrive Giulio Sangiorgio su FilmTV (uno dei pochi che difende), Folie à deux è un’opera «mainstream radicale, situazionismo grand public». Ha ragione. È un film che mostra l’assassino in un tempo in cui l’assassino, quello vero, non lo vuole più conoscere nessuno. È un’opera che senza paura rivela un tratto somatico fondamentale dell’Età Spettacolarizzata: ovvero come tutti noi ci aggrappiamo oramai allo spettacolo come atto disperato. Agiamo solo tramite atti spettacolari, pensandoli come gli unici oramai possibili. Piuttosto che aprirci la testa e guardare dentro, ma anche piuttosto che indagare fuori, colmiamo con l’agire spettacolare il gap fra reale e immaginario. Per poter continuare a vivere, indossiamo una maschera dalla risata spastica.
Tanti anni fa ho avuto la fortuna di svolgere il servizio civile alla ASL di Siena. Fra le varie mansioni che dovevo svolgere nell’arco della mia giornata lavorativa, c’era quella di occuparmi di Federico. Federico faceva il secondo anno in un Istituto Tecnico ed era cieco e paralizzato alle gambe. La mia mansione era quella di andare a scuola all’ora di ricreazione e portarlo in bagno a fare i suoi bisogni. Arrivavo a scuola puntuale, e varcavo la porta della classe Terza D un secondo dopo il drin lungo della campanella; venivo accolto dal boato degli studenti, dal frastuono delle sedie spostate, dalla voglia di uscire in corridoio di tutti.
Salutavo la professoressa, schivavo le spinte di qualcuno e andavo al banco da Federico, che era l’unico, ovviamente, a essere rimasto a sedere. Lui sapeva che sarei arrivato, e appena suonava la campanella cominciava a ridere freneticamente, ad agitarsi. Un filo di bava gli usciva dalla bocca. La professoressa lo raggiungeva al banco e ogni volta, con una carezza sulla testa, cercava di calmarlo. “È arrivato l’obiettore”, gli diceva. L’obiettore, senza alcuna esperienza di tipo medico o infermieristico, e senza avere fatto alcun corso di preparazione, lo sollevava di peso e lo trascinava al bagno, attraversando un corridoio lungo una ventina di metri. L’obiettore in piedi dietro, il corpo di Federico abbracciato davanti, come un manichino appoggiato al petto. L’obiettore spingeva le proprie gambe in avanti e quelle di Federico andavano avanti con lui. Arrancavano, con fatica, passando in mezzo agli altri studenti in pausa, che facevano varco per lasciarli passare. Una piccola Via Crucis quotidiana.
Arrivati al bagno, gli tiravo giù pantaloni e mutande, lo piazzavo con non so quale forza sulla tazza del cesso e aspettavo. Poi lo rivestivo e facevo il viaggio di ritorno nella solita modalità di trascinamento di peso morto: solito lunghissimo corridoio all’indietro, e rientro in classe. Lo posizionavo sulla seggiola, e saluti. Durante questi per me disperati tragitti Federico voleva chiacchierare, era esaltato, felice come una Pasqua di parlare con me. Io respiravo male per la fatica, quindi tendevo a star zitto e lasciavo parlare lui, rispondendo con mozziconi di parole. Federico durante i trascinamenti mi parlava di voler essere Robbie Williams. Il cantante pop, in quel momento molto famoso e adorato dal pubblico. Soprattutto da quello femminile. Perché vuoi essere Robbie Williams, gli chiedevo. Perché è bello, ha donne bellissime, perché è amato. Mi raccontava che stava scrivendo dei testi per delle canzoni di un suo proprio disco personale, che anche lui un giorno avrebbe cantato. Gli chiesi un giorno il nome di questo fantomatico disco e lui senza pensarci un attimo rispose “Millennium”. Millennium era esattamente il nome del disco di Robbie Williams uscito in quel momento.
Federico con me si trasformava in Robbie. La sua ricreazione era essere un altro. La professoressa con cui ogni tanto ho scambiato qualche parola e la tizia con cui mi rapportavo alla ASL mi avevano detto che i genitori di Federico avevano deciso volontariamente di non far usare la sedia a rotelle al figlio. Perché non si sentisse discriminato, perché fosse uguale agli altri ragazzi. Chissà cosa avrà pensato lui, ogni volta che si toglieva la maschera da Spettacolare Robbie. Non potrò mai saperlo, perché con me ce l’aveva sempre su.
Una volta, durante un trascinamento in corridoio, si agitava particolarmente, parlando di Millennium; io ho perso l’equilibrio e siamo caduti a terra. Per evitare che si facesse male ho sbattuto prima io entrambe le ginocchia sul pavimento. Ho bestemmiato per il dolore, ma credo di aver attutito a lui l’impatto col granito. Rideva, me lo ricordo, mi pareva felice. Anche se credo capisse che non c’era la carrozzella soltanto perché ero io la sua carrozzella di carne e ossa, anche se credo capisse bene di non essere come gli altri, in quel momento era un supereroe ed era certo che Millennium sarebbe uscito presto e che prima o poi le donne le avrebbe trombate tutte lui.