Francesca Scotti

ARTICOLO n. 76 / 2021

MANGA

Istruzioni sentimentali per l'uso

1986, Milano. Giardino di una scuola d’infanzia. Intervallo.

«A cosa giochiamo?» chiede la bambina con i capelli corti. 

«Strega comanda color?» propone quella con le scarpette di vernice. 

«Giochiamo a fare le torte di sabbia? Possiamo decorarle con le margherite o con i fiori gialli» dice quella minuta con gli occhiali di plastica rosa.

«Perché non giochiamo a Occhi di gatto?» L’idea è della bambina con la coda di cavallo. 

Scarpette di vernice e occhiali rosa si entusiasmano, discutono: «Io faccio Sheila.» «No io, tu puoi fare la più piccola, Tati.» «Ma non mi piace la cintura arancione, voglio quella gialla.» «Domani portiamo tutte una sciarpa, tu portala azzurra così fai Kelly. Poi dobbiamo anche scegliere cosa rubare.»

La bambina con i capelli corti non si è ancora fatta avanti, finalmente trova il coraggio di chiedere: «Come si gioca a Occhi di gatto

Le altre bambine si scambiano sguardi interrogativi, impietositi, scocciati.

«Ah già che tu non hai la tv.» 

La tv, la bambina con i capelli corti ce l’ha ma i genitori non gliela lasciano guardare mai. Non sa niente di Kelly, fasce colorate, gatti e ladri, e le altre giocano senza di lei. 

1987, Milano. Salotto di una casa in via Ripamonti. 

La bambina con i capelli corti ha finito di pranzare dalla nonna e fra poco andrà al corso di pattinaggio sul ghiaccio. Il freddo non le piace, pattinare invece sì. Però è sempre difficile lasciare il divano caldo per la pista gelida, le maestre severe e il ghiaccio duro quando si cade. E lo è ancora di più da quando la nonna le permette – violando il divieto tv – di guardare quindici minuti di cartoni animati mentre lei si prepara. La nonna è sempre elegante, anche quando la aspetta un intero pomeriggio sugli spalti scomodi del palazzetto. 

Sullo schermo compare un treno che viaggia nella galassia, una donna vestita di nero, lunghi capelli biondi, l’aria triste, enigmatica, un ragazzino orfano e un controllore senza volto. La bambina con i capelli corti non capisce molto della trama, ma quello che sta vedendo la cattura, è un piacere strano, paura vissuta al sicuro. 

«Dai, non possiamo fare tardi» dice la nonna.

Deve spegnere. 

Ogni volta, dopo soli quindici minuti abbandona quei pianeti sinistri, mortiferi, desolati prima di sapere se e chi si salverà. Non vedrà mai una puntata dall’inizio alla fine, eppure quel tempo insieme alla donna bionda e al bambino orfano nello spazio è un piacere irrinunciabile. 

1992, Milano. Vie del centro.

La bambina con i capelli corti è quasi una ragazzina. Sta andando al cinema con il padre: ancora niente tv, ma tre pomeriggi al mese sono dedicati al grande schermo. Il padre questa volta ha scelto un cartone animato. Lei è diffidente, lo conosce, non è un tipo da Disney. E infatti quando arrivano davanti alla sala la locandina che li accoglie non ha nulla di infantile: un motociclista di spalle, vestito di rosso, si dirige verso una moto dello stesso colore. Il suolo è bianco, spaccato in un punto. Akira, il titolo, è scritto in solide lettere maiuscole. «È un film di animazione giapponese, non un cartone per bambini» le dice.

Lei è cresciuta, certo, ma forse non abbastanza: immagini di una città postatomica, guerra fra bande, ribellioni, un bambino dalla pelle azzurrognola e rugosa, ritmi primitivi, sintetizzatori, un arto meccanico, un corpo umano che si trasforma in qualcosa di mostruoso la affliggeranno nei sogni, mentre fa colazione o cammina per andare a scuola.

In Italia la diffusione della cultura pop giapponese ha avuto inizio attraverso il piccolo schermo e questi sono i miei primi tre ricordi che la riguardano: la bambina con i capelli corti sono io. Ho cominciato a osservare quel mondo di nascosto, talvolta di sfuggita, oppure fin troppo da vicino proprio negli anni in cui ha sedotto e conquistato, per la prima volta, il pubblico italiano. All’epoca in televisione erano tanti i cartoni animati giapponesi trasmessi, al contrario pochi erano gli editori che si avventuravano nella pubblicazione di manga – e infatti noi abbiamo sperimentato una dicotomia e uno sfasamento schermo-carta che non rispecchiava quanto accadeva in Giappone, dove la produzione e la distribuzione della versione cartacea precede la versione animata.

E così mentre Lady Oscar creava valorose adepte fra le mie amiche e Georgie le faceva piangere, nelle camerette si giocava all’Incantevole Creamy con bacchette improvvisate e recitando paripampum molto convinti. Tutte con lo stesso desiderio di essere magiche, di potersi trasformare in una cantante-illusionista amatissima, di diventare una pallavolista capace di ovalizzare i palloni, di scoprirsi un prodigio della ginnastica ritmica, di avere una vita normale e una incredibile. E poi – anzi prima, durante e dopo – c’erano i robottoni: Goldrake, Mazinga, Jeeg per citarne giusto tre. Nonostante i prodotti non raggiungessero sempre in purezza (traduzione, tagli, riduzioni) il mercato nostrano, e nonostante fosse ancora radicato il pensiero «sono cartoni animati quindi sono per bambini» – ma come esistono libri di narrativa per bambini e per adulti, allo stesso modo anche i manga sono destinati a un pubblico diverso a seconda delle tematiche e dei contenuti – quel linguaggio funzionava. A prescindere dal merchandising che sarebbe diventato consistente negli anni e avrebbe funzionato da amplificatore, le qualità seduttive di quel prodotto culturale esistevano soprattutto in virtù delle sue potenzialità narrative, delle sue ambientazioni, della sua estetica, della profondità emotiva. L’anime-manga è stato quindi capace di coinvolgere e incuriosire anche un pubblico che aveva tutt’altre matrici culturali rispetto a quelle del paese che lo aveva creato e dove la sua industria era solida e sfavillante da tempo grazie al successo di mercato. 

La prima esposizione all’immaginario visivo giapponese avviene quindi in Italia negli anni settanta e ottanta, e crea una generazione di appassionati. Spettatori diventati poi lettori e che, in alcuni casi, hanno visto i loro interessi trasformarsi in culti, territori di studio, ricerca, collezionismo. 

Quanto a me, per una decina di anni non ricordo di essermi più curata molto dei manga – ho letto appassionatamente Black Jack e Nana – e i graffi dell’infanzia si sono trasformati in quiete cicatrici.

Finché nel 2007 sono capitata in Giappone dove, pochi mesi dopo, ho scelto di vivere. Una decisione semplice, spontanea – per quanto possibile. Guardando ora a quel tempo, ho la sensazione che parte del desiderio di abitare il Paese mi abitasse dagli anni della frustrazione per Occhi di Gatto, del treno spaziale Galaxy 999 e dall’apocalisse di Akira. Una sorta di malìa, che ha potuto perfezionarsi nel momento dell’incontro fisico e reale con la capitale. Quando sono arrivata a Tokyo ero nuova e senza aspettative: eppure il fascino si è dispiegato in tutta la sua forza, e ha fatto divampare l’interesse. Ben presto ho iniziato a colmare le lacune, ho completato letture e visioni e ne ho aggiunte di più attuali – Death Note è per me il titolo della consapevolezza. 

Ma, al netto della produzione ineguagliabile e della storia profondamente radicata, dov’era possibile incontrare i segni tangibili e immediati di questa forte presenza? Sono entrata in libreria, un punto vendita di grandi dimensioni parte di una catena: era molto lo spazio destinato ai manga – serie di culto, edizioni speciali, ultime uscite, diversissimi per tematiche, ambientazioni, generi, formati, pubblico di riferimento. Anche nei konbini – minimarket aperti 24h che vendono poche cose di immediata necessità – i manga occupavano almeno qualche scaffale. 

Il volume di denaro che riescono a muovere è da tempo una fetta importantissima dell’intero comparto editoriale del paese – oggi, secondo le indagini della società di ricerche di mercato Statista, questo volume ammonta a 612.000 miliardi di yen, poco meno di metà del totale. 

I protagonisti dei manga sono eroi popolari, conosciuti e amati in tutto il Giappone, e quindi ottimi testimonial pubblicitari o portavoce di messaggi importanti: dalle campagne informative del governo al food marketing, dalla promozione del turismo locale alle norme di comportamento in metropolitana. La principessa Zaffiro e Astroboy di Osamu Tezuka spiegano come non causare incendi all’aperto, mentre Simbad e Black Jack danno buoni consigli su come evitare gli incidenti domestici generati da stufe elettriche, fuoriuscite di gas o fiamme libere. Duke Togo, il sicario protagonista di Golgo 13, la serie manga più longeva tuttora in corso (il primo numero è stato pubblicato nel 1968) insegna alle piccole e medie imprese come tutelarsi all’estero. A Oreimo, una delle protagoniste della serie Oreimo – My Little Sister Can’t Be This Cute, si sono affidati nel 2015 per spiegare le conseguenze dell’abbassamento dell’età di voto da 20 a 18 anni (in Giappone la maggiore età è 20 anni). Miss Dronio (la supercattiva di Yattaman) e Black Jack si mostrano insieme – una passeggiata sotto la neve, una romantica gita in barca – sul manifesto pubblicitario di un’agenzia matrimoniale: lei è iraconda e determinata, lui cupo e misterioso, sarà amore? 

E quando non sono i personaggi più noti a essere in prima linea, spesso lo è lo stile manga: l’immagine veicola il messaggio con maggior semplicità rispetto a un testo, e quindi più rapidamente. Ho visto manga educational per spiegare la Costituzione. Ogni istituto costituzionale è incarnato da un personaggio femminile. La bionda è Saibansho-chan la signorina tribunale, quella blu è Kokkai-chan la signorina parlamento, e la mora è Naikaku chan la signorina Consiglio dei ministri. Per spiegare come funziona la Convenzione dell’Aia sulla sottrazione internazionale di minori, un argomento dibattuto e controverso nel paese, di nuovo è stato scelto di utilizzare un manga.

Ma anche nella quotidianità, in una giornata qualsiasi è facile incontrare un fumetto che spieghi come fare la raccolta differenziata, o che promuova un’iniziativa benefica.  

L’anno scorso, il successo travolgente di Demon Slayer – Demon Slayer: Kimetsu no Yaiba dal novembre 2019 al novembre 2020 ha venduto in Giappone più di 82 milioni di copie – gli ha garantito sponsorizzazioni di ogni tipo, dai cup ramen agli snack, dalle mascherine ai rasoi da uomo, dalle compagnie telefoniche a quelle aeree, dall’abbigliamento agli occhiali da vista.

Intanto, in Italia, negli anni successivi al primo boom, il manga ha raccolto sempre più attenzione, si è liberato di alcuni pregiudizi, è stato riconosciuto come prodotto di grande qualità e letterario (anche se non sempre e non da tutti) ed è stato pubblicato da editori sempre più sensibili, seri, consapevoli che gli hanno assegnato risorse e strumenti specifici. E certamente ha giocato un ruolo importante anche la distribuzione: dalle edicole e dai negozi specializzati o per appassionati, i manga si sono diffusi nelle librerie, e sono sempre più spesso fruiti anche online e in forma digitale. Tutto ciò ha dato i suoi risultati e nel 2021 i manga, finalmente ammessi nelle rilevazioni ufficiali dei libri più venduti, hanno raggiunto i primi posti delle classifiche. Il pubblico italiano ha riconfermato la propria passione (vecchie serie, riscoperte, novità) e questa volta ha trovato il suo interesse sostenuto anche da una struttura – librerie, editoria, comunicazione – che lo ha nutrito con sapienza e attenzione. Ma cosa ha reso l’Italia un terreno così fertile? 

«Italia e Francia sono tra i primi paesi al mondo a importare anime giapponesi negli anni settanta, molto prima del mondo anglofono dove manga e anime rimangono un fenomeno di nicchia e da nerd fino più o meno al nuovo millennio, quando nascono distributori come Tokyopop. Altro elemento che facilita la diffusione del manga in Italia (e un discorso simile vale per la Francia) è la presenza di una forte tradizione locale di fumetti narrativi, molto diversi dal fumetto nordamericano di supereroi, e più vicini all’estetica e alle tematiche del manga. Altra cosa interessante è che proprio per questa storia relativamente lunga di interesse per il manga tra i lettori italiani, negli ultimi anni sta crescendo abbastanza il fenomeno del gaijin manga, fumetti in stile manga ma scritti in lingue diverse dal giapponese, autori come Vincenzo Filosa (Viaggio a Tokyo, Figlio Unico), che creano fumetti in stile manga, alcuni ambientati in Giappone altri ambientati in Italia o in mondi immaginari. Un altro esempio interessante è Giuseppe Durato che si è formato in Giappone come assistente della mangaka Keiko Nishi, e ha poi pubblicato una sua serie sulla rivista Big Comics Spirits, Mingo: Itariajin ga minna moteru to omounayo, poi ripubblicata in volume e ora tradotta anche in italiano, facendo il giro completo.» Mi dice Rebecca Suter, Direttrice del programma di studi giapponesi all’Università di Sydney, alla quale ho chiesto un parere autorevole sull’argomento. 

Rivoluzione culturale? Fuga dall’Occidente? Probabilmente entrambe le cose e credo che la risposta abbia una componente personale oltre che una sociale. 

Arte, profondità, trasversalità, scrittura accurata, letteratura, punti di vista alternativi, domande cosmiche, risposte cosmiche, domande quotidiane, risposte quotidiane, visioni future, conoscenza, invenzione, personaggi indimenticabili, distorsioni e riallineamenti, distruzione e ricostruzione, compagnia, partecipazione, commozione: questo è solo un frammento della sequenza, anzi della successione disordinata di termini che associo al manga, un flusso che ha origine nei ricordi e porta con sé le impressioni di un mondo tanto reale quanto inimmaginabile, un flusso capace di generare continua curiosità tra sguardo e pensiero.

2014, Nagoya, zona di Endoji.

La bambina con i capelli corti è adulta e da qualche anno vive in Giappone. Da poco ha cambiato città, abita in un condominio di pochi piani, in una zona di case tradizionali e silenziose. Non è facile integrarsi nel nuovo quartiere. Quando esce per fare una passeggiata al tramonto incontra spesso una vicina, una donna giapponese, che deve avere solo qualche anno più di lei – o almeno così sembra. La donna porta a spasso il suo cane, un piccolo shiba inu dall’espressione sorridente. Anche se il cane si mostra incuriosito dalla ragazza, la donna lo strattona e non lascia che si fermi. Alla ragazza dispiace, vorrebbe fargli almeno una carezza. 

È un pomeriggio d’inverno, nevica fitto. La ragazza esce lo stesso, e anche la vicina con il cane. Come sempre si incontrano, come sempre il cane si mostra affettuoso, come sempre la donna sta per portarlo via. 

«Come si chiama?» chiede la ragazza, mentre i fiocchi riempiono lo spazio, tengono la giusta distanza.

«Nana-chan» dice la vicina. 

Il cane scodinzola sentendo il suo nome. 

«Nana, come il manga?» chiede la ragazza.

La vicina cambia espressione, per la prima volta il loro sguardo si incontra. 

«Sì. Lo conosci anche tu?»

La ragazza annuisce: «La storia inizia in una giornata di neve…»

ARTICOLO n. 39 / 2021

FANTASMI

ESTATE IN GIAPPONE

Nagoya, Giappone centrale. Primo mattino.

Il caldo aumenta attimo dopo attimo e la luce che oltrepassa i vetri è intensa: il sole sorge presto da questa parte del mondo. Ogni cosa che tocco è già tiepida, il piano di acciaio della cucina, la caraffa di vetro, il miscelatore del lavandino e persino l’acqua che apro fredda. Esco sul balcone per annaffiare le piante e Ōtake san, il mio vicino di casa, sta facendo lo stesso. Ci salutiamo attraverso l’intreccio di gelsomino che ci separa. Lui sta per andare a dormire dopo aver trascorso la notte a suonare malinconiche melodie blues alla chitarra e ad accendere molte sigarette. Il suo locale, un piccolo bar notturno frequentato prevalentemente da musicisti, è chiuso a causa dello stato di emergenza, il più severo dall’inizio di questa pandemia. Dichiarato a Nagoya a partire dal 12 maggio 2021, si aggiunge a una serie di disposizioni che hanno interessato il Paese nel tentativo di limitare la diffusione del contagio. Il Giappone non ha mai previsto veri e propri lockdown, preferendo per lo più misure che si basano sulla cooperazione dei cittadini e delle attività. Ci sono però alcune restrizioni imposte che riguardano in particolare ristoranti e locali, come nel caso di Ōtake san. Nonostante il riposo obbligato, il suo bioritmo resta uguale, mentre la mia giornata inizia ora: voglio andare al mercato che allestiscono nello spazio del santuario a fare un po’ di spesa. Mentre mi preparo, realizzo che questo è il primo anno – dei nove trascorsi qui – in cui ho presenziato a tutti gli appuntamenti ortofrutticoli mensili: la pandemia ha reso la dimensione del quartiere la mia dimensione. E se da un lato ha ridotto il mio raggio di esplorazione dall’altro mi ha fornito una sorta di lente, capace di ingrandire dettagli finora ignorati.

Varcato il grande torii di legno, mi accoglie la bandiera delle buone pratiche in fase di pandemia: oltre ai classici «distanziamento», «indossare la mascherina», «parlare a bassa voce», il divieto di mangiare in loco è sancito dal pittogramma di un omino con un onigiri nella mano destra, uno spiedino nella sinistra e la bocca spalancata, il tutto barrato da una diagonale stentorea. In effetti, rispetto alla consueta moltitudine – soprattutto nella stagione estiva – di banchi dedicati allo street food come yakisoba, dango, taiyaki, e rinfrescanti cetrioli crudi sullo stecchino (!) ce n’è solo uno di takoyaki che non ha nemmeno acceso le piastre. Se fosse un normale mese di giugno non solo le mandibole dei visitatori sarebbero già in azione, ma tra il verde brillante degli aceri vedrei i giochi dedicati ai bambini, come la pesca di pesci rossi o di piccoli palloncini che galleggiano sull’acqua, accerchiati da un mattiniero e nutrito pubblico.

La venditrice del banco delle verdure per un attimo dimentica la consueta compostezza, si sbraccia, vuole che mi affretti perché sono rimasti gli ultimi germogli di bambù. Oltre che buoni, i germogli di bambù freschi, hanno una sinistra bellezza: sembrano corni di un qualche animale fantastico. «L’anno prossimo vieni con noi a raccoglierli,» mi dice lei, nascosta da un cappello di paglia e da una mascherina con motivi floreali. «È un po’ faticoso ma dà molta soddisfazione, vedrai. Speravamo di poterti invitare già questa volta, ma con il covid…» reclina la testa e stringe gli occhi in segno di vero rammarico.

Io sorrido, sperando che lo capisca dal mio sguardo.

I germogli di bambù si raccolgono tra aprile e maggio, periodo in cui il Giappone ha vissuto una delle fasi peggiori per la diffusione del virus COVID-19. I contagi giornalieri, che dopo un incremento acuto a gennaio erano andati scemando grazie alle restrizioni, sono aumentati in modo lento e inesorabile in marzo e aprile, costringendo il governo a intervenire nuovamente: il 16 maggio si è raggiunto il picco di casi attivi nel Paese. Imprudente quindi organizzare uscite di gruppo nelle foreste di bambù per raccogliere e degustare germogli grigliati. Nonostante la pandemia in Giappone non abbia mai raggiunto i numeri spaventosi di Europa, Stati Uniti, o di altri Paesi del mondo, la situazione, in un alternarsi di restrizioni e riaperture che si susseguono ormai da più di un anno, non è mai stata davvero sotto controllo. Anche in questo principio d’estate, a causa del numero dei contagi, della pressione sul sistema ospedaliero, dei vaccini iniziati con serio ritardo, non è possibile dimenticare l’emergenza e provare il tanto atteso sollievo.

Carica di mele, germogli e radici, attraverso il santuario e raggiungo il parchetto adiacente: aiuole curate, una tigre da cavalcare, una sfera di esagoni su cui arrampicarsi, il saliscendi, la sabbiera. Una donna vestita d’azzurro spinge la sua bambina sull’altalena: visto l’orario e lo sguardo assonnato di entrambe più che un gioco sembra un modo per cullarsi al fresco delle canfore. La panchina accanto a loro è occupata da una bottiglia vuota: è una rarità incontrare immondizia abbandonata e attira la mia attenzione. Mi avvicino, è una ramune, bevanda gassata al sentore di limone, oggetto iconico e simbolo dell’estate giapponese. Creata in Giappone nel 1884 da un medico-farmacista scozzese, venne in origine promossa per la sua capacità prevenire il colera. Credo che la sua imperitura popolarità sia dovuta più che al gusto al design particolare della bottiglia in vetro. Brevemente: a sigillare l’imboccatura c’è una biglia; per aprirla bisogna usare un aggeggio apposito che spinge all’interno la biglia e lascia uscire il gas; al termine della bevuta la biglia rimane nel collo della bottiglia (grazie a una doppia strozzatura) trasformandola in un simpatico sonaglio. Lì, vuota e sola sulla panchina, è così bella che decido di fotografarla. E appena riguardo lo scatto l’effetto reverie si attiva: se ai mercati si è soliti mangiare passeggiando, durante le sere estive, soprattutto dopo un matsuri – celebrazione tradizionale che coinvolge la popolazione con feste, rituali e cortei –, la ramune rappresenta un classico rinfrescante e tintinnante. Ma neanche quest’estate con tutta probabilità ci saranno matsuri, se non in versione ridotta. E si sentirà – di nuovo – la mancanza di questi eventi solenni, conviviali, danzanti, affollati, talvolta selvaggi e sempre ricchi di fascino. Ricordo ancora, durante il mio primo anno a Kyoto, la grandiosa sfilata dei carri e dei palanchini sacri del Gion matsuri, uno dei più importanti del Paese, iniziato nell’869 come evento propiziatorio per scacciare le epidemie. Era il mese di luglio, le vie colme di persone, colori, simboli, flauti e percussioni. Un’umanità che si ritrovava nella celebrazione di un mondo per me ancora indecifrabile ma la cui vitalità dirompente riusciva a coinvolgermi in profondità. Lo scorso anno è stato il primo da parecchio tempo senza i grandi festeggiamenti, e anche in questo luglio 2021 la manifestazione si terrà in forma molto limitata.

Nonostante sia appesantita dalle borse e accaldata, decido di allungare di poco la strada per passare davanti a una delle case tradizionali che preferisco: ha delle bellissime ortensie blu appena fiorite, un albero di cachi e una lanterna di pietra. La proprietaria è l’anziana signora Ikeda, e non esce spesso. L’ultima volta che ci siamo incontrate era appena passato il Capodanno, lei era sul marciapiede, intenta a sistemare il suo sacchetto della spazzatura per il ritiro settimanale: conteneva una manciata di resti, quasi vivesse di nulla. Faceva molto freddo e, rimanendo distanti, ci siamo scambiate gli auguri e poche parole – i suoi famigliari, giustamente prudenti, non erano venuti a trovarla dalla capitale per le celebrazioni di hatsumode, ma le avevano comprato un cellulare con lo schermo grande. Ogni volta che raggiungo l’ingresso con i bassi gradini di muschio, mi fermo e do uno sguardo al giardino della signora Ikeda – le piante, le ombre, la parete tutta finestre. E ogni volta immagino la casa come poteva essere un tempo, abitata da una giovane famiglia – padre, madre e due bambini – che si riunisce sulla veranda a guardare le stagioni cambiare. Nel rovente pomeriggio estivo i due bambini sono seduti con le gambe penzoloni e mangiano spicchi di costosa anguria. Appena cala il buio accendono stelline scintillanti, candele magiche che rendono ampi e luminosi i loro sorrisi. E poi, insieme ai genitori, si avventurano al porto per lasciarsi incantare dai fuochi d’artificio.

Il forte rumore pneumatico e metallico che sento prima di svoltare l’angolo dovrebbe allertarmi e invece no, avanzo spensierata con il blu delle ortensie già negli occhi.

Ecco, qualcosa che questa pandemia non ha per nulla rallentato in città è il moto distruzione-ricostruzione: vecchie case per nuove case o vecchie case per terra in vendita o vecchie case per parcheggi. Nel quartiere sono diverse le dimore addormentate, chiuse, inghiottite dai rampicanti, coperte dalla polvere e consumate dalla ruggine. Qualcuna è abitata da persone sole, anziane, spesso invisibili, qualcuna è abbandonata. La loro presenza non è una prerogativa del tempo della pandemia ma credo che ultimamente le cose stiano andando un po’ troppo veloci. Solo negli ultimi due mesi ho assistito alla demolizione di un ryokan, di uno storico ristorante di udon, di un complesso di mini appartamenti, di due case signorili, di un barbiere vintage ma ancora in attività, di una pasticceria e di una grande villa con un vecchio ciliegio. Al ciliegio hanno concesso un’ultima fioritura fra le macerie, ma poi è sparito anche lui.

La casa delle ortensie, dell’albero di cachi e della lanterna di pietra è sventrata, posso vedere le piastrelle bianche del bagno, il wc sradicato, i tatami per metà sospesi nel vuoto. Distolgo lo sguardo il più rapidamente possibile e accelero il passo: è un’intimità rivelata con troppa crudezza. E la signora Ikeda? Ad agosto in Giappone si festeggia Obon – occasione in cui le famiglie si riuniscono per onorare gli spiriti degli antenati che tornano fra i vivi – e voglio pensare che i suoi figli abbiano colto l’occasione per portarla a vivere con loro a Tokyo. Mentre io scopro la forma dei suoi lampadari di vimini, lei si troverà in un appartamento al tredicesimo piano di un grattacielo, immersa nella densità urbana di Shinagawa, oppure in una villetta della tranquilla e residenziale Minami-Nakano. Immagino la signora Ikeda rivedere Tokyo dopo tanti anni e ritrovare la megalopoli in un frangente così particolare, senza turisti, con il traffico umano ridotto.

Non vado a Tokyo da molti mesi, è uno dei periodi più lunghi di separazione dalla capitale pur trovandomi a poche ore di Shinkansen. Questa estate avrebbe dovuto finalmente essere quella dei Giochi olimpici e paralimpici, e invece, nella migliore delle ipotesi, si terranno a porte chiuse o con pubblico contingentato. Un danno economico, una ferita. A marzo 2020, quando è stato deciso il rinvio dei Giochi al 23 luglio 2021, eravamo tutti convinti che le cose, arrivati a questo punto, sarebbero state molto, molto diverse. E invece no, o almeno non proprio. A oggi circa l’80% della popolazione non vuole le Olimpiadi, e da più parti sono state avanzate richieste di posticiparle nuovamente o addirittura cancellarle. Tra queste spicca una petizione proposta da Utsunomiya Kenji, avvocato e più volte candidato sindaco di Tokyo, che in soli due giorni ha raccolto più di 200.000 firme. I motivi riguardano principalmente la sostanziale impossibilità di garantire la sicurezza di atleti, personale coinvolto, e popolazione durante un evento che, anche senza pubblico (straniero e forse nemmeno giapponese), mobiliterebbe comunque migliaia di persone, e il fatto che il sistema sanitario del Paese, già sotto grande stress per la carenza di medici impegnati nella gestione dei pazienti covid e nella campagna vaccinale, non potrebbe coprire anche le esigenze derivanti dai Giochi.

Matsuri, street food, caldo umido, ramune, anguria, fuochi d’artificio. Per completare in maniera soddisfacente il quadro dei simboli dell’estate giapponese ne manca almeno uno, per me imprescindibile, ed è il frinire delle cicale. Colonna sonora di ogni scena estiva, sia in campagna sia in città, la loro voce è insistente, esasperante e bellissima. Le cicale che stanno per nascere e che sanciranno l’inizio della stagione, hanno trascorso gli ultimi due o tre anni sotto terra a sperimentare la trasformazione. Vivranno poche settimane durante le quali, come sempre si nutriranno, canteranno e daranno origine a nuovo ciclo. Mentre mi allontano dal fragore della demolizione e dal pensiero di un’olimpiade così complessa, mi fermo sotto i ciliegi e resto in ascolto: le chiome sono ancora silenziose.

Nagoya, Giappone centrale. Al tramonto.

I germogli di bambù li cucino seguendo le indicazioni della signora del mercato: prima bolliti interi nell’acqua torbida di lavaggio del riso, poi sbucciati, tagliati a spicchi e cotti in brodo dashi, salsa di soia, mirin, e infine cosparsi di fiocchi di bonito essicato. La loro consistenza tenera mi sorprende sempre e anche il loro sapore, simile a un profumo da inghiottire. Intanto la sera avanza, calda e densa. Appena sento Ōtake san uscire sul balcone per una sigaretta lo raggiungo e gli chiedo quando, secondo lui, arriveranno le cicale.

«Manca poco» mi risponde attraverso il gelsomino. Il verde è quasi nero nel buio, e il bianco dei fiori è opalescente.

«Sarà un’estate di nuovo strana, di nuovo a immaginare la prossima» dico io.

Lo sento aspirare fumo, espirare, esitare «Però le cicale del prossimo anno, da qualche parte, ci sono già» aggiunge.

E allora speriamo di ascoltarle con un animo più lieve, durante una stagione in cui le icone tutte si manifesteranno pienamente, senza più rinvii, cancellazioni e troppe solitudini.

Ōtake san sta per rientrare, fa scorrere la zanzariera.

«Credo che tu abbia dimenticato un simbolo, uno importante» mi dice. «L’estate è la stagione dei fantasmi. Non hai mai partecipato a un hyakumonogatari kaidankai? Cento storie per cento apparizioni soprannaturali, una candela viene spenta a conclusione di ogni racconto. E al termine dell’ultimo, forse il più spaventoso, si resta nella completa oscurità.»

Questa notte nel cielo non ci sono stelle, non si vede la luna. Ōtake san lascia il balcone. Riprende la chitarra, le note sono quelle di Rambling on my mind.