Evelina Santangelo

ARTICOLO n. 38 / 2022

PALERMO CAPACI, NOI CHE FUMMO VINTI

La Palermo dei giovani, di Falcone e di Borsellino

«Nel racconto del Bene c’è spesso più imbarazzo che nella narrazione del Male», scrive Wlodek Goldkorn evocando la reticenza e la vergogna di chi, durante la Shoah, aveva fatto del bene in un mondo dove il male la faceva da padrone. Forse per questo quanti di noi in quegli anni Ottanta e Novanta si trovarono a scegliere, senza mezzi termini ma in un terreno minato di veleni e trappole, da che parte stare, dopo una fiammata di insurrezione, di lenzuoli bianchi, di comitati seguita alle stragi del ’92, scelsero un silenzio dolente. Memorie ripiegate su se stesse. «È finito tutto» furono le parole di Caponnetto all’uscita dall’obitorio dove si trovava il corpo di Borsellino. Ancora oggi questa fetta trasversale di generazioni, la cosiddetta «società civile» (come fu genericamente chiamata allora), fatica a pronunciare discorsi o evocare memorie non senza un senso di pudore. Tanto più che tra gli anni Ottanta e Novanta, nella Palermo infuocata tra la preparazione del Maxi processo e poi le Stragi, prevalsero spesso verità lacunose, frammentarie, equivoci e conflitti (anche interiori) destinati a suscitare piuttosto sentimenti contrastanti e una paura sempre in agguato: da spaesamento. Credo che serpeggiasse proprio una paura simile, tra le altre, durante l’incontro alla biblioteca Comunale del 25 giugno 1992, a poco più di un mese dalla strage di Capaci. L’ultimo incontro pubblico del giudice Borsellino. Eravamo tutti lì, una massa silenziosa, plumbea, consapevole di poter saltare in aria da un momento all’altro insieme all’unica istituzione in cui ormai credevamo, il corpo e il sangue di Paolo Borsellino. Stavamo pietrificati in ascolto di atti d’accusa che erano pietre tombali. Contro il Consiglio superiore della magistratura, il disegno di distruggere Falcone e, con Falcone, il pool antimafia. E in quel discorso amaro e durissimo il giudice, per il quale eravamo pronti a dare la vita, giunse a pronunciare parole che chiamavano in causa tutti noi, disse che nella caldissima estate del 1988, quando si stava facendo morire il pool, l’«opinione pubblica fece il miracolo»: mobilitandosi e costringendo il Csm a rimangiarsi la decisione. Così «seppur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi», concluse. 

Noi che facciamo miracoli… Noi che respiriamo un’aria mortifera in quella biblioteca, ma abbiamo il potere di fare miracoli… Quelle parole ci galvanizzarono. Toccava a noi, dunque, una qualche salvezza in quei giorni estremi e squinternati… Per questo l’epilogo fu ancora più amaro, infelice, disperato. Non ne fummo capaci.

Noi non avevamo potuto fare nulla perché Borsellino non soccombesse trascinando con sé quel che era rimasto dei nostri ideali. Falcone stesso non aveva potuto fare nulla per salvarsi nonostante, o forse proprio a causa del suo senso altissimo delle istituzioni. Nemmeno Borsellino aveva potuto fare nulla, nonostante noi fossimo lì, accanto a lui, e lui aveva chiesto urgentemente di essere ascoltato come persona informata dei fatti. Avevano vinto loro, dove quel «loro» suonava come un atto d’accusa contro tutte le istituzioni colluse, conniventi, impastate di mafia o più semplicemente di quieto vivere, e quieto convivere. Rifletteteci! Quanti scrittori siciliani hanno scritto memorie di quegli anni? Memorie, ripeto, non rappresentazioni o ricostruzioni più o meno storicamente fondate. Nessuno o quasi. Quanti hanno scelto di lasciare la Sicilia dopo le Stragi o di ripiegarsi nel disincanto, in una sorta di esilio interiore? Moltissimi. Quasi tutti quelli della mia generazione che, insieme al resto della società civile siciliana, ha scontato il più disperato disincanto dinanzi alle stragi del ’92: stragi di Stato e di mafia. Bastava trovarsi sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo (ed io ero lì) quel 23 maggio appena subito dopo l’esplosione per avere una visione lucida su come stavano veramente le cose.

Eravamo asserragliati dentro una frenesia spasmodica, forze dell’ordine, esercito appostati ovunque, lungo l’autostrada, agli svincoli, sui ponti. C’erano elicotteri che giravano vorticosi. Tutti i collegamenti saltati.Non si riusciva a capire niente, ad ascoltare una radio, a telefonare, a tirarsi fuori dalle macchine imbottigliate in un traffico in cui non ricordo qualcuno che suonasse il clacson. Un colpo di Stato. Questo fu il pensiero che passò nella testa di molti, quando ancora non si sapeva nulla. Ce n’erano tutti i segni. Una sospensione radicale del Paese legale. E proprio contro «la strage di Stato» avremmo urlato durante i funerali di Falcone, della moglie e della scorta spingendo contro le transenne, «Adesso basta!», con la furia di chi vuole assaltare il Palazzo, i rappresentati delle istituzioni, nessuno escluso. Non fu una contestazione. Fu una rivolta, che soltanto il senso di fraternità con i poliziotti che ci trattenevano piangendo non trasformò in qualcosa di devastante. È terribile non credere più nello Stato. Confidare solo in due o tre figure solitarie minacciate proprio dalle istituzioni che intendono servire. È un nonsenso. Questa era la follia disperante di quei giorni, in cui fummo vinti, dopo aver pensato di poter farcela, anche a costo di grandissimi sacrifici.

Ci sono pezzi di memoria che, chissà perché, sono andati perduti. Risalgono agli anni Ottanta e, senza di essi, risulta quasi incomprensibile capire quali fermenti si agitavano nella città allora, quali speranze o illusioni, quali lacerazioni, quali ragioni potevano persino animare la fiducia del giudice Falcone, quando diceva la «gente è con noi».

Protagonisti di quegli anni drammatici in cui tutto non era ancora finito, anzi, tutto era ancora possibile, furono soprattutto i giovani.

Basta ricordare, tra i tanti, alcuni avvenimenti accaduti tra 1982 e il 1985.

Così rispondeva a un’intervista il giudice Rocco Chinnici prima che venisse ucciso il 23 luglio 1983: «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi… fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».

Ecco, questa idea di una nuova coscienza da trasmettere e condividere con i giovani Chinnici la mise in atto facendo uscire i magistrati impegnati nella lotta alla mafia dalla separatezza delle Procure. Mio padre fu tra i presidi che compresero l’importanza di quella collaborazione tra Procure e Scuole con cui si inaugurava un nuovo tempo contro la sottocultura mafiosa.

Il coinvolgimento dei ragazzi fu determinante, ad esempio, nel sostegno a Pio La Torre che, da un lato, in quei primissimi anni Ottanta riusciva a raccogliere un milione di firme in calce a una petizione al governo italiano contro la costruzione della base missilistica Nato a Comiso (me li ricordo ancora i viaggi in pullman pullulanti di studenti, l’allegria di chi si sente di fare la Storia), dall’altro portava avanti la lotta contro la speculazione edilizia, presentava il disegno di legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso e il sequestro dei patrimoni.

Si lottava insieme. Questa era la sensazione. Il suo assassinio il 30 aprile 1982 fu un colpo mortale anche contro quei giovani che si erano battuti al suo fianco, credendo davvero di poter cambiare le sorti della propria terra, e non solo. Pure in quella occasione si temette il peggio. Cronisti dell’«Ora» ricordano la Sezione centrale del Partito Comunista affollata di gente, alcuni con armi in pugno, pronti a farsi giustizia da soli in un’esasperazione e in un caos generali. «Adesso basta!».

«Ci dovevamo incontrare domani», con queste parole amare e laconiche ricordo che mio padre il 3 settembre 1982 commentò l’assassinio del Generale Dalla Chiesa, senza aggiungere altro.

Uno dei primi atti del Prefetto Dalla Chiesa, non appena arrivato in città, era stato infatti convocare alcuni presidi più intraprendenti per trovare sostegno nella lotta alla mafia che anche lui sapeva essere una battaglia non solo investigativa e giudiziaria, ma anche e soprattutto culturale. Non fummo vinti, però, quella volta. Fummo traumatizzati sì, ma ancora più determinati nel non cedere alla violenza mafiosa, al clima di intimidazione che si voleva instaurare colpendo una delle cariche più alte dello Stato a 100 giorni dal suo insediamento a Palermo. «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», diceva un cartello lasciato sul luogo dell’agguato. Invece nessuna speranza fu morta. Proprio i ragazzi (nello specifico gli studenti e le studentesse del liceo scientifico Galileo Galilei, dove era preside mio padre) si diedero da fare per non darla vinta alla disperazione con la combattività di chi è tutt’altro che arreso. Inviarono telegrammi alle scuole di tutta Italia, alle massime cariche dello Stato, con grande scetticismo dell’addetto alle poste, e ricevettero risposta: dal Presidente Pertini, dal nuovo prefetto appena nominato De Francesco. Ogni speranza in quei giorni era riposta nei giovani, nelle «loro onestà», precisò il Presidente della Repubblica. L’esito fu la prima assise nazionale antimafia tenutasi al Teatro Biondo il 9 ottobre 1982. Più di 2000 giovani, arrivati da tutta Italia, per discutere di droga, traffico d’armi, speculazione edilizia e delle lotte di un giovane di cui si era perduta memoria, Peppino Impastato: per la prima volta sottratto all’oblio. 

Da lì cominciò tutto quello che venne dopo: la Primavera di Palermo, i comitati antimafia, le associazioni antiracket, le continue manifestazioni gioiose, il movimento la Rete che voleva cambiare la classe dirigente di questo Paese…

«Senza un clima favorevole non è possibile fare certe cose», mi ha detto qualche tempo fa Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta. Il giudice che ha riaperto le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Per questo credo sia molto importante restituire le lotte e le conquiste di quegli anni Ottanta per capire la città in cui viene preparato dal pool antimafia il maxi processo del 1986. Una città che marciava, lottava, credeva nel riscatto da un destino che si viveva come un’ignominia. E lo dico per esperienza personale. Scrivere per il giornale «L’Ora», in un periodo della mia vita giovanile, non era solo collaborare con una testata che vantava una grande tradizione giornalistica, era un modo di rivendicare la propria dignità contro le accuse di omertà, gli stereotipi, i giudizi supponenti di chi non aveva idea di come andavano davvero le cose in una città in cui erano caduti, vittime della mafia, esponenti delle massime cariche giudiziarie, investigative, politiche, istituzionali, per non dire dei giornalisti… Una città in cui i morti carbonizzati si potevano trovare vicino alla propria scuola, in un vicolo.

E questa città il 25 novembre del 1985 si trovò ad attraversare uno dei momenti più laceranti della sua Storia e della lotta alla mafia. Due ragazzi, due studenti del Meli, Giuditta 17 anni e Biagio 14 anni, erano insieme ai loro compagni alla fermata dell’autobus, un giorno come un altro. Una delle macchine di scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta nella corsa forsennata a sirene spiegate sbanda e li travolge, uccidendoli sul colpo. Questa era la Palermo infernale dei tempi che precedono il maxi processo… Una morte collaterale che si è cercato di dimenticare. Una macchia troppo sporca. Solo Borsellino, ogni anniversario, ha portato i suoi fiori a quei ragazzi, sino alla propria morte. Fu allora che successe un nuovo pandemonio, perché la rabbia era tanta, ed era cieca. C’era chi voleva assaltare la Questura, chi voleva mettere a ferro e fuoco la città. C’era chi urlava contro le scorte che uccidono. Ma, alla fine, prevalse la lucidità e il senso delle istituzioni: una marcia muta con un fiore in mano. Era il giorno in cui Feltrinelli coraggiosamente inaugurava la sua prima libreria nel cuore di quella Palermo infernale. Peccato che anche la Feltrinelli, nel timore di un assalto da parte dei giovani, abbassò le saracinesche, tenendo al sicuro gli intellettuali asserragliati dentro…

Ecco, come fai a restituire una memoria condivisa ed esaustiva dinanzi a un passato così, pieno di storie dimenticate, di moti insurrezionali non raccontati o minimizzati, di vite devastate nell’oblio, come quella di Natale Mondo, l’autista del vice questore Ninni Cassarà (ucciso il 6 agosto 1985) salvatosi per miracolo nell’attentato di via Croce Rossa e poi costretto a scontare accuse infamanti, veleni, fino a trovarsi dinanzi al colpo di grazia della mafia che salda sempre i suoi conti.

Come fai a dare la misura dello sconcerto, dello spaesamento, della tensione vissuti durante quella famosa staffetta tv «Samarcanda-Costanzo show» tenutasi tra il teatro Biondo di Palermo e gli studi Mediaset dove era ospite, tra gli altri, anche Giovanni Falcone quel 26 settembre del 1991 in cui esplose tutto: preoccupazioni, rabbie, incomprensioni, la paura di essere abbandonati, il senso di tradimento sulla scelta di Falcone di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma, in mezzo a fraintendimenti, sospetti, veleni, conclusioni azzardate, convinzioni giuste su pericoli che si rivelarono veri (la maggiore vulnerabilità di Falcone a Roma) ma che finirono per accanirsi proprio su chi avrebbero voluto o dovuto difendere, facendo il gioco di chi da sempre non aspetta altro, in quel caso, un allora oscuro politico democristiano di nome Totò Cuffaro che parlò di «giornalismo mafioso».

Non è un caso se quella sera lasciammo quel teatro con l’amaro in bocca e un generale presentimento di catastrofe. Ci eravamo divisi, dilaniati: travolti da sentimenti violenti, dalla paura di essere abbandonati… vittime tutti del caos delle opinioni. Quella trasmissione contribuì ad alimentare non poco il senso di colpa che ci piombò addosso dopo che i presentimenti presero corpo, fisionomia e si fecero realtà il 23 maggio del 1992.

Ci sono voluti dodici anni perché una nuova generazione riprendesse pian piano in mano il proprio destino e il 29 giugno 2004 si rivelasse tappezzando Palermo con piccoli adesivi listati a lutto. «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» c’era scritto. Fu così che noi che, in un modo o nell’altro, eravamo andati via in un qualche esilio capimmo che forse non era tutto perduto.

ARTICOLO n. 29 / 2021

La pantera che visse tre volte

UNA FAVOLA

Aveva sbranato schiavi, liberti, prigionieri, soldati stranieri dell’esercito romano, per qualche ragione, reietti. Insomma, non-cittadini della Roma imperiale condannati non sapeva nemmeno per quali colpe alla damnatio ad bestias. Il sommo supplizio. Essere dati in pasto alle fiere. Uomini che non erano degni nemmeno delle sue zanne. Pure qualche donna, ma di rado.

Certi giorni, prima di essere spinta dentro l’arena con quelle torce spaventose che le fiammeggiavano alle spalle, aveva visto portar via resti di carcasse. A centinaia, persino a migliaia in qualche occasione. Felini nobili: tigri, leoni, pantere come lei, ma anche lupi e orsi dalla Gallia, cinghiali o mangiatori-di-erba: cervi dalla Britannia, giraffe e antilopi dall’Egitto, bisonti dalla Germania, alci, camosci, daini, o ancora pollami di basso rango: ridicoli struzzi sgambettanti sui trampoli delle loro zampe.

Tutto l’Impero di Roma concentrato in quell’arena sotto forma di bestie catturate e sopravvissute al trasporto da ogni angolo del mondo conosciuto e vinto. Occidente e Oriente. «Finché esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo», diceva la profezia, perché l’impero era tutto, era ovunque, era l’inizio e la fine.

Ha ancora nelle narici l’odore di acqua e zafferano spruzzato nell’aria dopo che l’arena era stata ripulita delle carcasse di tutte le bestie che si erano fatte uccidere dalle lance dei venatores o si erano sbranate tra loro in lotte feroci, per sopravvivere l’uno all’altro o forse per il tuono che arrivava dalla cavea, il vociare elettrizzato, martellante, di senatori, vestali, cavalieri, il boato che calava dagli ordini più alti delle gradinate. Decine e decine di migliaia d’umani impazziti di sangue e lotte. Impazzita pure lei.

Avanzava con passo silenzioso immersa nel nero vellutato del suo manto che rifrangeva scaglie di sole. Per buona sorte, per paura o forse perché si erano resi conto di quanto già fossero maestose le schegge verdi degli occhi immerse nel nero della testa, era successo solo una volta che un umano si fosse permesso di costringerla a presentarsi in pubblico con un cinto stretto al collo adorno di borchie. Chi lo aveva fatto si era a malapena salvato da un colpo mortale della sua zampa possente. Nessuno ci aveva più provato.

E comunque… dopo che gli umani portatori di torce la spingevano dentro, lei avanzava silenziosa. Poi si fermava in mezzo all’arena infuocata in attesa che il vocio si facesse boato, che nella cavea nessuno, nemmeno l’ultimo degli ultimi schiavi, continuasse il proprio pranzo… per assistere al suo. Un pasto che soltanto il suo incedere felino, lento, cadenzato, incurante, prolungato e poi scattante in uno slancio improvviso rendeva degno d’ammirazione. Perché l’umano, schiavo o liberto, straniero o prigioniero che fosse, alla fine quasi cominciava a sperarci che gli andasse come Androculos, per il quale un leone aveva sbranato un’altra fiera pronta ad azzannarlo pur di difendere quello schiavo che anni addietro gli aveva sfilato la spina dalla zampa. Le idiozie cui amano credere gli uomini. Era a quel punto, proprio quando l’umano la fissava in attesa di un qualche miracolo, che lei cominciava a stringergli intorno il cerchio dei passi, mentre quello prendeva ad arretrare, costretto a gesti storti dalle mani legate dietro alla schiena.

Non ha esattamente idea di cosa le accadesse nel profondo della sua felinità, selvatica catturata sopravvissuta al viaggio verso la sua sorte d’animale da circo, non ha idea di quale fuoco le ardesse dentro improvviso quando il boato della cavea diventava così potente che lei doveva scattare e assecondare la richiesta di sangue. O forse era quell’umano ingobbito di paura, nudo, che prendeva a dimenarsi per scappare dai lacci stretti ai polsi e dai suoi occhi vitrei a farsi improvvisamente preda. Era così inerme, e talvolta così implorante un qualche dio perché tutto si compisse che a lei bastava un assalto istantaneo per divorare carni e ossa, lasciando per terra il sangue invocato da migliaia di respiri e sguardi, insieme a rimasugli di niente.

Per il resto, la sua esistenza era un andare avanti e indietro prigioniera tra le sbarre, e pasti di carne-morta consumati dentro la gabbia, finché non era stata lei, ormai vecchia, a finire in pasto durante uno scontro con un grande felino giovane. Troppi combattimenti su muscoli e ossa, centinaia di condannati a morte divorati nei supplizi dell’ora di pranzo in attesa del grande spettacolo di umani in lotta contro umani. Era caduta con onore, comunque, dopo un combattimento diventato leggenda per giorni.

Quando si è ritrovata gatta nella su seconda vita, all’inizio non le è sembrato una reincarnazione degna del suo passato di pantera. Una piccola gatta nera sperduta tra rovine monumentali del Colosseo. Non immaginava ci fossero tanti ordini di gradinate da salire e scendere. Né che quel luogo potesse essere così immobile e silenzioso in certe ore del giorno e soprattutto nelle notti, spalancate di cielo e stelle tra le gradinate della cavea. Le prime notti in cui era tornata a muoversi nel buio come un felino libero. Non era la savana certo, ma un’immensità di pietra e cielo di cui aveva conosciuto solo il frastuono tonante, il dimenarsi concitato del pubblico, il boato che accompagnava i supplizi dei condannati durante l’esistenza in cui era stata catturata, chiusa dentro un serraglio, strappata all’Africa, e poi costretta a vivere la vita di una pantera da circo.

Ci è voluto un bel po’ prima di prendere coraggio e allungare i suoi piccoli passi felpati verso l’ombra portentosa dei fornici, i resti di colonne, i muretti, e infine la strada: tra gli ambulanti che vendevano il sogno di Roma e i gladiatori finti che assomigliavano a certi fondali mitologici in cui si era ritrovata a compiere le sue esecuzioni, ma privi di ogni magnificenza. Una volta che si era soffermata a guardare due legionari bardati di latta mettersi in posa per le foto, la sua anima di pantera da combattimento aveva avuto un sussulto di disprezzo.

Tornare a calpestare l’arena era un desiderio profondo che a lungo però si era negata, tanto le incuteva paura. Anche nei confronti degli umani che durante il giorno si aggiravano in gruppi tra le pietre archeologiche provava, se non vero e proprio timore, un sentimento di diffidenza. Per questo i primi tempi se ne teneva alla larga. Non si sa mai cosa può fare un umano, per quanto addomesticato e in apparenza mansueto.

Una notte però era accaduto. La luna era talmente piena e gialla che ambrava di luce-calda cielo, gradinate, colonne. Anche l’arena era di un giallo-sabbia che evocava antichi splendori. Dalla cima della cavea lei aveva scorto tre felini maculati come linci che si aggredivano in assalti, fuggivano, poi tornavano a battersi rompendo il silenzio. Non sa esattamente quale forza le avesse attraversato il pelo lucido. Aveva rivisto i marmi, le toghe bianche dei senatori, il palco dell’imperatore, il tripudio, e si era slanciata giù dall’ultimo ordine di gradini destinato alla plebe per tornare a incedere sulla sabbia, e lottare, i muscoli tesi sotto il manto nero splendente.

Una volta piombata dentro l’arena, il legno nudo sotto le zampe l’aveva riportata al tempo di quella sua seconda vita e alla realtà. Le linci erano tornate a essere gatti, non diversamente da lei, solo ancora più gialli e maculati nel chiarore lunare. Gatti randagi che si azzuffavano sopra quel che restava in un angolo della sabbia di un tempo.

Da quella notte, aveva appreso un modo mai immaginato prima di muoversi sulle assi di legno di quella che era stata l’arena. Passeggiava in quell’immensità e, quando c’era il sole, si stiracchiava, abbandonandosi sul legno tiepido per godersi il calore. Né, da allora, si era più acquattata pronta a predare uccelli, topi, lucertole. Aveva scoperto piuttosto il gioco d’agguati della vita da gatti domestici, i finti assalti alle gambe degli umani che col tempo aveva imparato a conoscere e che ogni giorno le davano da mangiare, da bere, e caute carezze. Imparò anche le fusa. Si mise a seguire docile i gruppi di umani che si aggiravano ignari tra i resti del Colosseo, con la silenziosa presenza di chi sa e custodisce memorie di cui conosce e ha sperimentato la ferocia del sangue agognato.

L’anima selvatica del suo passato di pantera da esecuzione delle damnatio adesso si manifestava improvvisa in graffi che lasciavano il segno sui turisti occasionali che provavano a toccarla. O forse era la memoria della cattura e del serraglio, della vita prigioniera che affiorava e la faceva scattare in difesa. Don’t touch me era stampato sul collarino che una delle responsabili del sito archeologico si era decisa a stringerle al collo per mettere in guardia i turisti. Non l’aveva graffiata solo perché era una creatura docile che ogni giorno le riservava cibo e carezze ma, dopo non molto, era riuscita a strapparselo via. Nessuno doveva permettersi di stringerle cinghie alla gola. Nemmeno adesso che era solo una gatta sempre più mansueta. La «guardina» del Colosseo. Così era stata infine denominata in quella seconda vita: un profilo nero che per dieci anni aveva custodito le rovine monumentali finché il pelo non era diventato opaco e rado, le forze si erano affievolite e la malattia non l’aveva infine lasciata esanime tra le pietre della Roma imperiale e il cielo.

«Ciao Nerina… Le fusa, i graffi, l’incedere su e giù per le scale ci mancheranno ogni giorno e ci sembrerà di vederti ancora stiracchiarti felice al sole, sull’arena… Con amore, da tutti noi». In questo modo era stata salutata dai responsabili del Parco archeologico.

La seconda vita infine non era stata poi così male.

La terza vita durò quel che durò. Non avrebbe mai immaginato di finire in un porto di un’isola in mezzo al mare tra il puzzo di pesce marcio: avanzi di teste, branchie, visceri, fegati, scaglie di merluzzi, saraghi, sardine, orate su cui si lanciavano famelici i gatti del porto, rognosi e grassi. Non lei che aveva ancora il profilo reale di un tempo, una gatta nera, solo più smagrita e con il pelo opaco di salsedine. La sua vita era fatta di puzzo di nafta che fuoriusciva dal motore del gozzo, di reti calate in mare alla sera e ritirate all’alba, di urla di pescatori, bestemmie quando c’era il mare grosso o si levava il maestrale, e pedate che non la colpivano ma la facevano sloggiare quando si posizionava dove non doveva stare, intralciando il lavoro. Adesso era insomma una gatta di bordo. Si era intrufolata minuscola tra i legni di un gozzo ed era rimasta lì, a prendersi di tanto in tanto qualche carezza ruvida dal pescatore che l’aveva adottata, chiamandola «Gatta» e basta.

Non scendeva a terra nemmeno quando si ritornava in porto. Se ne stava piuttosto sulla prua a osservare ora il mare oleoso che ondeggiava pesante ora la fanghiglia del basolato con i piccoli banchi del pesce dove si accalcava la gente. Aveva assistito a risse per accaparrarsi una cassa di totani o di gamberi ancora vivi. Aveva visto mani frantumare il carapace di crostacei e bocche masticarne la polpa rosata. E aveva provato disprezzo, perché non c’era nessuna grandezza in quei gesti, nessuna lotta fatale, e nemmeno ferocia. Solo il fare noncurante degli umani.

Quel che più le pareva insensato era il modo furibondo in cui i pescatori si accanivano sui corpi molli dei polpi vivi, azzannando la testa o battendola violentemente contro il legno del gozzo finché i tentacoli non smettevano di dimenarsi, afflosciandosi.

Certe notti di luna piena tornava a sognare l’arena, le pietre monumentali, e la quiete della seconda vita, o quel che le rimaneva ormai nella memoria dell’Africa con le sue notti d’ebano che esplodevano di stelle, le corse senza orizzonti nella savana, gli alberi possenti su cui si inerpicava, il cibo cacciato con passo silenzioso e occhi pronti. Anche adesso, a volte, saltava da un gozzo all’altro per arrivare all’albero di una barca a vela ormeggiata nel porto. Gli artigli non erano quelli di un tempo. La voglia di salire in cima sì. Ma il mare è una brutta bestia. La salsedine scrosta la pelle. Il sole cuoce il pelo. E anche la vita lì ha i suoi rischi. Un colpo di arpione, durante una pesca concitata tra onde alte come muraglie, le aveva bucato uno dei suoi occhi di smeraldo.

Fu con un solo occhio dunque che una mattina all’alba vide ribollire il mare in mezzo alle reti. Creature confuse che si dimenavano. Pesci che dovevano essere tanti e alcuni molto grossi. Non c’era modo di issarli a bordo né di liberare le reti. Porcodio bestemmiava il pescatore, mentre il gozzo imbarcava acqua, rischiava di colare a picco. Aveva raschiato la vernice azzurra e il legno del gozzo per darsi da fare anche lei, con i suoi artigli da gatta che cercava il vigore del suo passato di pantera. L’aveva fatto d’istinto. Per salvare se stessa, il pescatore o forse pure quegli esseri che levavano braccia nere dal fondo del mare, gorgogliando, urlavano di paura con voci che parevano scavalcare secoli e arrivare dal tempo remoto in cui lei era stata un grande felino dell’Africa. Alla fine erano arrivati altri gozzi e altri pescatori. Dopo ore, tra le reti lacerate, erano riusciti a tirare a bordo non sa quanti corpi di umani che parevano d’ebano, piccoli, grandi, femmine, maschi, catturati nelle maglie di nylon che serravano le carni contorte e inerti.

Era stato allora che aveva sentito salire dalle viscere un miagolio potente come un ruggito. Era accaduto esattamente quando il suo occhio smeraldo si era trovato dinanzi a un collo strozzato da una maglia della rete, la testa piccola, riccia e nera, riversa sul legno.

I pescatori la guardarono increduli azzannare quel collo, e scuoterlo, videro i denti accanirsi sul nylon che lo stritolava, per allentarne la stretta, spezzarlo. Poi si era acciambellata accanto a quel collo ferito, ripiegato e infine libero, abbandonandosi a un miagolio che sembrava emergere da un qualche abisso.

Da allora, per il resto degli anni, le era rimasto in gola solo un miagolio rognoso da gatto di porto. Non era mai più salita sul gozzo. Se ne stava acquattata sotto lo scafo di una vecchia barca sfondata tirata a secco e lasciata sulla banchina a marcire.

E quella fu l’ultima vita che volle vivere. Nessun desiderio di tornare al mondo, né gatta né pantera, né qualsiasi altro animale, e meno che mai da umano. Per lei il mondo era caduto per sempre così: stritolato in una rete in mezzo a un mare lontano dai fasti feroci della Roma imperiale.