Eleonora Marangoni

ARTICOLO n. 27 / 2025

ORESTE SFUGGE ALLE ETICHETTE

a proposito di Domenico gnoli

Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) ha dipinto tanto, vissuto troppo poco, pubblicato un solo libro. È una fiaba, e racconta la storia di un principe che non sapeva sorridere. All’epoca, Gnoli viveva a New York (che avrebbe poi lasciato per tornare a Roma e approdare infine a Mallorca, dove avrebbe vissuto gli anni forse più liberi e intensi della sua breve vita). Scrisse il testo in inglese, e le venti tavole illustrate che accompagnavano la storia vennero esposte alla Bianchini Gallery (la stessa dove, tre anni dopo, Andy Warhol avrebbe venduto a due dollari ciascuna le sue famose tote bag con il disegno della zuppa Campbell). 

Pubblicato nel 1961 da Simon & Schuster (e stampato a Milano da Amilcare Pizzi), Oreste & the art of smiling fu un grande successo di critica e di pubblico. Newsweek lo definì “opera dell’anno”, il libro fu ristampato innumerevoli volte, venduto sia negli Usa che in Italia, ma non uscì mai tradotto in italiano. 

A riportarlo in vita ci ha pensato il Saggiatore. Ogni pagina, scritta o dipinta, di questa fiaba conduce in luoghi sorprendenti. Prima di tutto, per una questione stilistica: quando si nomina Gnoli, subito si pensa subito alle sue tele materiche e sabbiose, porzioni o dettagli di oggetti solitari, angoli di figure immobili. Tavolini disabitati, bottoni slacciati, trapunte immobili o letti disfatti. Ricci scolpiti, colletti immacolati, sofà dimenticati. Non deserti, ma abbandonati, e comunque vuoti. E invece un’opera come Oreste ci ricorda, che Gnoli, oltre che pittore del cosiddetto iperreale, è stato anche illustratore mirabolante e quasi rinascimentale per tematiche, coralità, fantasia di universi. 

Chi ha avuto la fortuna di visitare la sontuosa retrospettiva che la Fondazione Prada gli dedicò un paio di anni fa, non può aver dimenticato la vertigine che si provava quando dal piano terra si saliva al primo. Lì la pittura lasciava il posto all’opera illustrata, ed era come approdare su un altro pianeta, altrettanto misterioso, ironico, ossessivo. Ma diametralmente opposto al primo. Un universo affollato, fatto di teche, leporelli, tavole e schizzi, in cui contrasti e colori sfumavano, in cui il silenzio non esisteva. Tra disegni per riviste, illustrazioni editoriali, bozzetti teatrali, studi di teatrini, di palchi e di corride, era tutto un affastellarsi, un sovrapporsi, rincorrersi, un fiorire. Non esiste alcuna contraddizione in questo: vuoti e pieni, nell’opera di Gnoli, sono parte dello stesso movimento, e si direbbe che solo nel mezzo non ci sia nulla. Come se la vita – e l’arte – per lui fossero possibili soltanto ai due poli estremi, nella liturgie solitarie o nella feste dell’abbondanza.

Per atmosfere e stile, quella di Oreste è una fiaba cinquecentesca (“ariostesca”, la definì a suo tempo Sgarbi in un testo pubblicato su FMR). Degno figlio del teatro, Gnoli presenta i personaggi come in un apertura di una pièce, li descrive e li disegna uno per uno abbarbicati in cima a un albero, poi dice che ci sono due che non sa chi siano: un bassotto chiamato Marcantonio, e un uomo che dorme sotto una quercia. “Sono venuti da altre storie”, scrive, “me ne libererò subito”, ma naturalmente non lo fa, e il bassotto Marcantonio difatti ogni tanto ricompare, fa capolino tra le pagine con ottusa tenerezza. 

Oreste è sovrano di Terramafiusa, un piccolo principato nascosto “tra le montagne dell’Europa centrale”. È cresciuto con sua nonna, la dispotica Palmira, che ne stava distesa su venti materassi e non faceva altro che parlare col suo unico amico, il pappagallo Lucien. I due litigavano talmente tanto e facendo così tanto chiasso che, dopo la sua morte, Oreste ha fatto rinchiudere Lucien e ha dato ordine che a Terramafiusa regnasse il silenzio. Ha inseguito la quiete così tanto che ha impedito perfino agli uccelli di cantare, ed è diventato un giovane solitario e malinconico. Di solito le fiabe raccontano di qualcuno che torna a sorridere. Oreste a sorridere invece deve invece cominciare. Non lo ha mai imparato, è diventato grande senza sapere come si fa. Non sa sorridere e dunque non sa amare, o viceversa. Difficile quale sia l’ordine corretto. Questa, comunque, è la storia di come imparerà sia l’una che l’altra cosa. 

Come tutta la produzione di Gnoli, anche Oreste sfugge alle etichette, è inclassificabile nella più felice accezione che questa definizione può avere. A metà strada tra il fairy tale e il libro d’artista, è a suo modo anche un archivio tassonomico (di sorrisi), un diario segreto travestito da favola. I suoi colori, il seppia, il cilestrino, il paglierino, il bianco, non sono, del resto, colori da bambini, ma colori del sogno, quello sì. Nelle sue pagine abbondano alberi e mongolfiere, materassi e gabbie vuote, studi anatomici e armadi vuoti, frasi crudeli e scorci lunari. Per innamorarsene basterebbero anche i delicati, commoventi, innumerevoli sorrisi. Clericale, infantile, placido, furbetto, voluttuoso, militare, enigmatico, seduttivo, astuto, repubblicano, etrusco, tra i tanti. Gnoli, che era maestro nel ritrarre le figure voltate di schiena, li ha disegnati uno a uno, in cerca di quello di Oreste. E forse anche del suo.

Nel 1961, da New York, scrisse all’amico a Ted Riley: gli racconta che l’editore non gli rispondeva ormai da qualche settimana, e lui era preoccupato per l’invio in stampa il volume, e preoccupato anche di cercare per l’opera editore italiano (avrebbe dovuto essere Bompiani, ma poi, per l’appunto, non se ne fece più nulla): “Forse è stato tutto uno strano sogno”, scrive in chiusura alla sua lettera, “New York, il libro, tu, persino i miei dipinti e disegni; ed è meglio se mi risveglio e torno nella realtà! Forse sono un bancario, o un agente di vendita che ha mangiato (forse bevuto) un po’ troppo e ha sognato tutto, a causa di una cattiva digestione.” Anche qui, non esistono vie di mezzo, da poeta a bancario, per lui, non v’era che un passo. All’epoca, Gnoli aveva ventotto anni. Era sposato con la modella Luisa Ghilardenghi, aveva illustrato la prima edizione inglese del Barone rampante (uscito nel 1958). Ed è impossibile non pensare a Cosimo di Rondò quando ci troviamo di fronte alla presentazione dei personaggi arrampicati su un albero. O quando ci parla della selvatica e amorosa Violante, che “si era tolta le scarpe perché le piaceva la sensazione dell’erba sotto i piedi”. A New York era arrivato tre anni prima. Lavorava già da anni come illustratore ed era uno scenografo affermato a livello internazionale. Ma sia professionalmente che a livello personale, non aveva ancora trovato la sua strada: “Sono nato sapendo che sarei stato pittore, perché mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile. Mi dirigeva verso la pittura italiana classica, contro cui reagii ben presto, ma non ho potuto dimenticare il sapore e la pratica del Rinascimento.” Gli anni americani furono per lui un decisivo tornante prima del grande, forse vero nuovo inizio. Gli anni in cui, dopo aver reagito contro quello che non voleva essere, si sarebbe diretto verso quello che voleva diventare.

Nato a Roma il 3 maggio 1933 da una madre francese ceramista e un padre italiano storico dell’arte, Domenico Gnoli aveva trascorso i primi anni tra Roma e Spoleto. A vent’anni si era trasferito a Parigi, dove aveva cominciato a lavorare per il teatro. Quella come scenografo sarebbe ormai stata, a quel punto, una carriera avviata, ma Gnoli detestava il lavoro di gruppo che il teatro ovviamente implicava, e soffriva sempre più le mondanità e i continui viaggi che ancora una volta di quel mestiere facevano parte. Proprio a New York inizierà a dedicarsi a fondo alla pittura. Mischierà tempera e sabbia, sperimenterà, studierà e si lascerà influenzare dall’opera di Carrà e quella di Morandi, entrerà, tra gli altri, in contatto con Cecil Beaton, e il suo modo di vedere lo spingerà a scegliere cadrages sempre più serrati e arditi per le sue tele. Sarà l’inizio di un lungo processo di liberazione che lo porterà via dalla città e dalla sua prima moglie: prima con un temporaneo ritorno a Roma e poi verso le rive assolate di Dejà, Mallorca, in compagnia di quella che diventerà la compagna per il resto della sua vita, la pittrice Yannik Vu. I due si stabiliranno a la Estaca, bianca residenza di ispirazione siciliana affacciata sulla costa di Valldemosa, che l’arciduca Ludovico Salvatore aveva costruito per la sua amante, e che da molti anni è proprietà di Michael Douglas. Proprio da Mallorca, nel 1963, in una lettera alla madre, Gnoli scriverà:

Dipingo come mi pare senza più preoccuparmi della cultura del secolo e delle mie responsabilità verso di essa, e allo stesso modo intendo vivere: libero e fedele solo a quel tanto o poco di vero che mi sento adesso. La vita comincia adesso; finora ho tremato davanti a troppe cose: la scuola, gli amici, la pittura moderna, il socialismo, il matrimonio, la cultura, la maturità, la responsabilità […]. Al mondo esiste il mare, esisto io con il mio talento per dipingere e anche (perché no?) con il mio talento per vivere […] esiste un’umanità che mi commuove e mi diverte ogni giorno, i pesci e allora anche se ci sono tanti problemi irrisolvibili, tante esperienze difficili, soprattutto tante delusioni, allora pazienza… 

Ecco un’altra, decisiva ragione per cui scoprire Oreste fa tanto effetto. Come le migliori fiabe, inventa un modo che ci parla della nostra stessa vita. Di quanto quello che desideriamo definisce quello che siamo, di quanto quello che pensiamo di avere sia in realtà quello che ci manca. Proprio come Oreste, anche Gnoli in un certo senso sembra aver imparato a vivere soltanto da grande, poco prima che fosse troppo tardi. E non è un caso, forse, che proprio in queste pagine spunti discreto l’unico autoritratto che ha lasciato di sé: anche lui, come il bassotto Marcantonio, si è intrufolato nel paesaggio: lo si vede in alto a destra, nella doppia di apertura dedicata alla presentazione dei personaggi. Abita la scena con discrezione, quasi con timidezza, ma è lui, proprio lui, lo sguardo malinconico e arguto, sempre pronto allo stupore, e certo senza poter immaginare il futuro, sembra già dire cercatemi dove volete, tra le trapunte, nei riccioli, nelle pieghe del tweed, ma io sono anche e resterò soprattutto qui, perché non c’è altro luogo in cui potrei andare che in questa terra libera che io stesso ho immaginato e perché non esiste, dopotutto, altra patria che l’infanzia. 

ARTICOLO n. 80 / 2024

ISABELLA DUCROT: I MOTIVI DI UN INCONTRO

Anni fa, al filatoio di Caraglio, vidi una piccola mostra su Escher. Non ne ricordo molto oggi, se non che una didascalia, Motivo per un tappeto, era stata tradotta in inglese “Reason for a carpet”. Uno svarione memorabile e a suo modo istruttivo. Motivo viene dal latino movere: che la fantasia usata per un tappeto sia in qualche modo anche un movente, una spinta verso qualcosa, è un’idea che da allora non mi ha più abbandonato, e non poteva non tornarmi in mente quando ho incontrato Isabella Ducrot.

motivi – teorici o figurativi che si voglia – per interessarsi a lei di sicuro non mancano, e difatti Monica Stambrini le ha dedicato il suo ultimo film, Tenga duro, signorina!, da qualche giorno in sala. Un film che, proprio come la protagonista che racconta, è pieno di energia e di meraviglia, e non ha tempo né voglia di commuovere, perché troppo occupato a raccontare l’entusiasmo del fare. Stambrini e Ducrot si sono conosciute anni fa quando, per raccogliere fondi per produrre un film porno, la regista organizzò un’asta a Roma con i lavori inediti di vari artisti. 

Ducrot allora tirò fuori dal cassetto dei disegni erotici che, a sentir lei, non voleva nessuno. Furono venduti tutti (uno se lo aggiudicò Bernardo Bertolucci) e da quell’incontro le due non si persero più di vista. Il titolo del film, preso in prestito da una pièce di Queneau, è perfetto per questa “vecchia signora di Napoli” (così Ducrot stessa si definisce) che da novantatré anni attraversa la vita con grazia e devozione, e che ha impiegato molto tempo a diventare se stessa.

«Appartengo a un’altra epoca, sono nata prima dello scotch tape», dice lei, sorridendo, senza nessuna nostalgia, e difatti in lei niente – né le sue opere, gli aggettivi che sceglie parlando, gli abiti che indossa, i gesti con cui si muove – fa pensare al passato.

Ducrot ha cominciato a dipingere a cinquant’anni. Ha esordito negli anni Ottanta alla Galleria Giulia di Roma, esposto alla Biennale di Venezia, in numerose collettive da Israele al Giappone. Ha realizzato su commissione pubblica, nei primi anni 2000, due grandi e magnifici mosaici della stazione della metro Vanvitelli di Napoli. Solo da qualche anno, però, il mondo dell’arte sembra essersi davvero accorto di lei. La signorina ha tenuto duro, per l’appunto, e il film, che simbolicamente si apre con lei che resta involontariamente chiusa fuori dal suo studio, racconta un tratto decisivo di un lungo percorso, lo stupore e la felicità che accompagnano questa recente ascesa. Ascoltiamo Sadie Coles da Londra che racconta come si è innamorata delle sue opere ad Art Basel, Gisela Capitain rievocare il suo incontro con Ducrot (fondativo per tutto quello che sarebbe arrivato, visto che è grazie a lei che il suo nome ha iniziato a rimbalzare tra le gallerie più influenti del nord Europa). 

Vediamo la galleria T293 e la Petzel dedicarle solo shows rispettivamente a Roma e a New York. Sempre a Roma, fino a febbraio il museo delle civiltà ospita Tessere è umano, mostra in cui le sue opere dialogano con la collezione tessile del museo, e il Madre di Napoli sta preparando una esposizione monografica su di lei, in programma per il 2026.

Ci sono artisti venerati già dagli esordi, artisti che vengono scoperti solo a posteriori, dopo la loro scomparsa. Ma cosaaccade quando il tuo momento arriva quando hai novant’anni? Cosa insegna, che storia racconta? «Non me lo aspettavo, ma non mi meravigliavo che accadesse», commenta candidamente lei, in una delle sue frasi solo apparentemente semplici, che a guardarle bene tengono insieme tutto.

Nel suo studio in Piazza del Collegio Romano, la prima cosa di cui parliamo è la traduzione. Campionessa indiscussa di understatement, Isabella Ducrot dice spesso di essersi a lungo sentita impreparata, fuori posto, di essere un’assoluta parvenue del mondo dell’arte, di non aver seguito nessuna formazione. Se deve, a ritroso, scovare un suo punto di forza, è la continuità con cui ha inseguito piccole scintille, fili che negli anni non ha mai smesso di seguire: «Ho vissuto sempre procedendo a tentoni, un po’ a caso, ma a modo mio anche coltivando ossessioni. Venivo da una famiglia molto religiosa, e il racconto di questi Settanta [i primi traduttori della Bibbia] che da Gerusalemme furono ad Alessandria d’Egitto chiamati dal re per tradurre dall’ebraico al greco il vecchio Testamento, mi ha sempre affascinato. Ognuno lavora per conto suo, ma poi scoprono che hanno usato tutti le stesse parole». Una storia a suo modo esemplare, dice, «ed è proprio questo il dramma degli ebrei: essere grandissimi narratori». Poi si interrompe e, come ogni tanto fa, formula una domanda che sembra rivolta non tanto agli altri ma a se stessa. «Che poi perché mi interessasse così tanto questa leggenda, non saprei: forse perché in fondo anche il mio è un po’ un lavoro di traduzione: dalle stoffe alla carta, dallo scritto verso l’immagine. Non l’avevo mai visto così, prima di oggi». Citando Il compito del traduttore di Walter Benjamin, dice: «In italiano la parola compito ha una valenza un po’ compilativa, in tedesco invece ha un significato più profondo: il compito non è un dovere da sbrigare, come i compiti di scuola. È una cosa più profonda, che ha che fare con il destino». E al destino, quando la si ascolta, si finisce a pensare spesso.

La vita di Isabella Ducrot, all’anagrafe Antonia Mosca, è iniziata decine di volte. Dopo la guerra, quando suo padre la fece tornare a vivere in un palazzo seicentesco, di cui, a seguito dei bombardamenti, era rimasto in piedi soltanto un angolo. «Vivere per più di dieci anni in quel modo, tra maniglie dorate e rovine che cadevano a pezzi, è stata forse la più grande lezione ricevuta dalla mia famiglia». Un’altra vita è iniziata quando, dopo sette anni di cure segrete e vergogne sociali, le dissero che era guarita dalla tubercolosi. Un’altra poco dopo, quando aveva trent’anni e lasciò Napoli per trasferirsi a Roma. Era l’inizio degli anni Sessanta: «Fu una boccata d’aria fresca, a Roma grazie a dio non conoscevo nessuno, mentre a Napoli, vuoi o non vuoi, mi imbattevo sempre in qualcuno che si chiedeva perché mai una bella ragazza di quell’età non si fosse ancora sistemata».

Non aveva particolari talenti o ambizioni, era una ragazza squattrinata e molto distratta. Trovò un posto da segretaria all’IBM: «Delle amiche ricche e sciocche un giorno, per farmi uno scherzo, staccarono tutti i quadri della sala d’attesa in cui lavoravo e li portarono via. Non me ne accorsi mica, il giorno dopo il portiere dell’IBM corse da me allarmato: signorina, c’è stato un furto… Caddi dalle nuvole, come sempre… Andavo avanti così, infilando avventure innocenti ed equivoche al tempo stesso». A un certo punto entrò in contatto con la «sinistra radicale e atea» di Nuovi Argomenti: «Erano perlopiù intellettuali con la barca a vela e i milioni in banca. Mi fidanzai con il figlio di uno dei fondatori, ma a quei tempi ero ancora molto religiosa, e ogni settimana gli toccava aspettarmi fuori dalla chiesa mentre andavo a confessarmi, così non durò molto…».

Di lì a poco incontrò l’uomo con cui avrebbe diviso la vita, Vicky Ducrot, che ai tempi lavorava per la KLM e nel 1974 avrebbe fondato i Viaggi dell’elefante, storico tour operator specializzato in soggiorni esotici di lusso. Scomparso due anni fa, Ducrot era un americano di origine palermitane, discendente di una importante famiglia di industriali, produttori di mobili e lussuosi arredi navali. 

Con lui, oltre che ai viaggi in tutto il mondo (cinquanta soltanto in India, e del resto basta guardare le sue opere o scorrere la sua collezione di stoffe per sentire l’Oriente dappertutto), arrivarono i figli, le terrazze in città e le ville in campagna, le collezioni di stoffe e quelle di rose, la vita mondana e quella familiare, gli agi e le sicurezze che le erano mancate in gioventù. Antonia Mosca diventò insomma la signora Ducrot. Un’altra magari si sarebbe fermata lì, ma lei non lo fece, anzi, forse soltanto allora cominciò il cammino che l’avrebbe portata a diventare l’artista che è oggi.

A disegnare aveva iniziato timidamente già ai tempi dell’IBM: «Durante la pausa per il pranzo mi capitava di scrivere, scarabocchiare bozzetti per abiti o tessuti. Li feci vedere a Vicky quando lo conobbi. E gli feci leggere qualche racconto che avevo scritto. Ma lui era un legittimista, e mi diceva, più o meno indirettamente: non hai fatto l’accademia, non hai studiato Lettere, meglio lasciar perdere». Lei però non gli diede retta. Mise su uno studio tutto per sé e cominciò a dipingere: non fiori o acquerelli di tramonti, come ci si sarebbe magari aspettati da una signora bene, ma amplessi («Ci sarebbe da fare un bel saggetto psicanalitico», osserva lei stessa nel film: «Come mai, quando ho iniziato, ho disegnato amplessi?»)

Alla miseria provata da bambina, pian piano, si sostituì un altro sentimento: l’invisibilità. «Per diverso tempo, credo di essere stata considerata poco più di una signora con l’hobby della scrittura e della pittura. Poi sono arrivate le prime mostre, mi vennero commissionati lavori anche importanti, ma il sentimento di essere una parvenue mi è rimasto addosso per anni, e in ogni caso non era per così dire previsto che si facesse sul serio. Quando, più di recente, sono cominciati ad arrivare dei veri riconoscimenti, a molti ovviamente non è andata giù». 

Racconta tutto questo senza smettere di sorridere, guardando un punto imprecisato davanti a sé. Scandendo bene ogni parola, conoscendone la gravità e l’amarezza, ma al tempo stesso divertendosi, specchiando negli altri la propria inadeguatezza e lasciando che gli altri facciano altrettanto. «Sembrano fragili, ma non lo sono», dice nel film mentre maneggia delle opere che sta preparando per una mostra. Ed è difficile non pensare che, in fondo, stia anche parlando di sé.

In un breve video girato per The World of Interiors qualche mese fa vediamo Isabella Ducrot in casa, mentre racconta a Marella Caracciolo come lei e Vicky l’hanno arredata nel corso degli anni. Si passano in rassegna dipinti barocchi, sculture americane, poltrone moderniste, mobili di Alvar Aalto, stampe esotiche e quadri astrali di Saddam Hussein. A un certo punto, dispiega sul tavolo una sciarpa tibetana color indaco (ora in mostra al Museo delle civiltà di Roma, e cuore di uno dei suoi libri, Stoffe.) La maneggia con cura, si capisce che per quella sciarpa prova una devozione sincera e inscalfibile, la stessa che si riserva a certe antiche memorie: «Questo manufatto è l’esemplare più vicino alla somiglianza quasi imbarazzante tra il tessuto e la parola umana, contiene una incarnazione del mistero della parola acciuffato dal tessitore mentre tesse». 

È così esemplare quella sciarpa, dice, così rappresentativa dei fili che ha inseguito in tutti questi anni che potrebbe lasciarla sola «a rispondere al nome di collezione». Ma l’incontro tra tessuto e parola, oltre che punto di arrivo, per lei è stato anche un inizio. «Da qui cominciò tutto, in fondo» mi dice porgendomi un libriccino bianco intitolato La matassa primordiale, pubblicato da Nottetempo. Che, scoprirò la sera stessa leggendolo, ha il passo di una fiaba e le intuizioni di un piccolo trattato. «Conoscevo di vista Ginevra Bompiani, ma mi costava chiederle di leggere». Ma poi lo fece, Bompiani richiamò poco dopo entusiasta, Patrizia Cavalli scrisse un’introduzione in versi. E anni dopo quel testo, nella sua versione inglese, finì nelle mani di Gisela Capitain, che grazie alla sua galleria (con sedi a Basilea e a Napoli) portò le sue opere in piena luce.

Oggi, Isabella Ducrot trascorre le sue giornate perlopiù tra lo studio al piano terra e l’appartamento all’ultimo piano di palazzo Doria Pamphilj. In casa la assiste una governante, in studio due assistenti, Nora e Veronica, che da oltre vent’anni lavorano al suo fianco. Invisibile, adesso, sceglie di esserlo: viaggia di rado, non partecipa agli opening o alle fiere, dice che le fa una enorme fatica essere al centro della scena. «“La vita inizia a sessant’anni», ripete in compenso a chiunque la interroghi sull’argomento, e giura di non essersi mai sentita tanto libera. Dopo che è rimasta vedova si è fatta confezionare un vestito in taffetà celeste, che indossa come un amuleto, e dice di provare, arrivata a questo punto, «a terrible pain and a fantastic happiness». Allo stesso tempo, senza rimedio, senza distinzione. «Mi domando come mi sia successo di diventare una persona che pretende di fare arte», si chiede ancora adesso: non tanto, si direbbe, incuriosita da se stessa, ma dalla natura umana, da quei “motivi” che spostano il mondo e le vite della gente, e che il maldestro traduttore di Caraglio nella mia testa ha trasformato per sempre in fantasie.

«People like framed things», dice nel film, mentre ragiona ad alta voce con una gallerista sul modo migliore per presentare al pubblico alcuni suoi dipinti. Sta parlando di cornici, ovviamente, ma potrebbe benissimo parlare di tutti quelli che, in tutti questi anni, per i motivi più diversi avrebbero voluto inquadrarla, assegnarle una casella e tenerla lì dentro, e non ci sono riusciti. Una tra tutti, come nel più classico dei racconti, sua suocera, dama inflessibile delle squisite Officine Ducrot, che perse le staffe quando, dal raffinatissimo George’s di via Marche, la vide ordinare due primi. «Ma tu non hai proprio capito come si sta al mondo, mi disse indignata. Ma io volevo proprio due piatti di spaghetti. Che cosa c’era di male? Proprio non riuscivo a capirlo. Mi sono alzata e sono andata via. Vicky mi seguì». Ma questo è solo un dettaglio, naturalmente: se ne sarebbe andata comunque. Non era proprio il caso di restare al suo posto, perché il suo posto, a quei tempi, lo stava ancora cercando.