Elena Stancanelli

ARTICOLO n. 32 / 2025

JULIE HA UN SEGRETO

In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo di Elena Stancanelli su Julie ha un segreto, nelle sale cinematografiche dal 24 aprile.

Il cinema si è accorto dello sport. Forse per la stessa ragione per cui si assoldano attori contando i loro follower sui social: lo sport ha tifosi e appassionati che si pensa possano essere trasformati facilmente in pubblico di cinema. Ma il passaggio non è così scontato. Raccontare lo sport è difficile, ogni gara riprodotta ha un coefficiente di interesse minore della gara originale. Nei biopic, come quello sulle sorelle Williams o su Niki Lauda e James Hunt, il pubblico deve accettare che l’adrenalina dello scontro è quasi azzerata dal fatto che conosci già il risultato. Non a caso tra i meglio riusciti ci sono quelli i cui originali non sono così noti, come per esempio Tonya, storia della pattinatrice Tonya Harding.  Il cui interesse, oltretutto, è non tanto nell’epica della gara ma nella disperata vicenda umana della protagonista.

Lo sport va costeggiato, tenuto sullo sfondo, usato per raccontare qualcos’altro. Come in Moneyball di Bennet Miller, il film nel quale Brad Pitt interpreta un allenatore che riesce a mettere insieme una squadra di baseball vincente con pochi soldi, andando a cercare i giocatori non sulla base della loro fama ma perché corrispondono a elementi di un modello matematico. Questo schema, lo sport che regge un altro tema importante, è lo stesso di Julie ha un segreto, opera prima di Leonardo Van Dijl. Lo sport in questione è il tennis. Che, rispetto per esempio al baseball o al calcio o a qualsiasi altro sport di squadra, non può contare neanche sull’emozione della squadra.

Il tennis, lo racconta benissimo David Foster Wallace, è infatti una nevrosi. Perché si gioca da soli, stando lontanissimi dall’avversario con il quale non si ha mai un contatto fisico, e perché è sottoposto a una tale quantità di varianti ambientali che, se affrontate, possono farti uscire di testa. La superficie: tra la terra battuta, l’erba e il cemento ci sono enormi differenze di gioco. O i venti, come spiega sempre Foster Wallace in un racconto intitolato Tennis, trigonometria e tornado. E poiché il tennis è una nevrosi, è nello stesso tempo anche una religione. Roger Federer come esperienza religiosa è infatti il titolo di un altro racconto di Foster Wallace, nel quale si teorizza l’epifania dei cosiddetti “Momenti Federer”, in cui «spalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene».

Sono i momenti nei quale il tennista svizzero fa cose impossibili, e la pallina prende traiettorie che non si vedono neanche nel film Matrix. Per questa ragione il film di Luca Guadagnino, Challengers, nonostante racconti la storia di tre giovani tennisti, non ha niente a che fare con il tennis. Il tennis non si presta alla baraonda visiva che il regista gli attribuisce oltre al fatto che gli attori, bravissimi, non sanno giocare a tennis. Non abbastanza da essere credibili. Diversamente da quello accade in questo film, interpretato da una giovane promessa del tennis, Tessa Van den Broeck, che se la cava egregiamente anche come attrice. Questo consente al regista di filmare allenamenti e incontri senza dover forzare per consentire a noi di credere che si tratti davvero di una giovane tennista che frequenta un’Accademia prestigiosa e che di questa Accademia è la stella.

Le scene sui campi sono tutte molte belle, di grande precisione formale che, appunto, è opposta alla frenesia del film di Guadagnino. Se esistesse un Edward Hopper del tennis, sarebbe il riferimento visivo ideale. Panchine, angolature, riprese dei campi sono composte come quadri. Ma non sono solo le immagini a essere eleganti e quasi sospese. Il modo in cui la storia viene raccontata, attraverso una continua ellissi del centro, produce nello spettatore una affezione particolare. Come se ci venisse concesso di entrare nell’argomento, di cui si intuisce la scabrosità, lentamente e senza sforzo. La stessa lentezza con cui, scopriamo alla fine, la giovane Julie elabora quello che le è accaduto.

Il film si apre con la rivelazione che una allieva dell’Accademia, un’altra promessa del tennis, si è uccisa. E che il suo coach, lo stesso di Julie, è indagato per qualcosa che non sappiamo e quindi sospeso dalla sue funzioni. Tutto il resto, lo svolgersi della vicenda e della consapevolezza, lo vediamo accadere nella composta emotività della giovane tennista. C’è quindi una vicenda in superficie, come dicevamo accadere spesso nei racconti dello sport, e un’altra che si muove sotterranea, misteriosa. Che quasi “matura” nella durata temporale del film. Intorno a Julie il vivaio di giovani promesse comprende l’inevitabile carico di invidie e gelosie, ma, sottoposto all’urto degli eventi, si rivela anche una fortezza nella quale rifugiarsi. Julie, come chiunque passi attraverso una vicenda che coinvolge fiducia e ambizione, ha una ferita difficile da sanare. Ha bisogno di tempo, elaborazione e una rete che la sorregga. La famiglia, gli amici, il tennis.

Julie ha un segreto è anche il racconto di chi cerca le parole per dirlo. Non è un caso che sia ambientato in una zona del mondo dove le lingue si sovrappongono, dove è necessario conoscerne almeno un paio per destreggiarsi tra le persone. Julie gioca a tennis meglio di chiunque nella sua scuola, ma il linguaggio del campo, quello costruito nella relazione con il suo allenatore, le viene sottratto. Non le rimane che tacere, a lungo, aspettando di ritrovare la strada per comunicare con gli altri. Nella sua solitudine, lontano dalle pressioni di tutti, Julie trova finalmente il modo per rivelare il suo segreto, senza che questo segreto la distrugga.

Julie ha un segreto non somiglia alla grossolana volontà pedagogica del cinema di questi anni, che sceglie un tema e poi si accerta di aver restituito il giusto messaggio, pena l’espulsione dal mondo dei buoni. Ha una sceneggiatura raffinata, rifugge le scene madri, indugia su particolari che sembrano insignificanti, come i momenti nei quali, nel suo silenzio, Julie porta fuori il suo cane bassotto. Ma è proprio in quella sospensione, in quella intelligenza profonda delle cose, che il film rivela la sua anima gentile ma non per questo meno risoluta. E la domanda, che sottende la storia: com’è possibile che abbiamo dimenticato la prossemica dei rapporti tra adulti e adolescenti?

Trova il film nelle sale vicino a te.