ARTICOLO n. 26 / 2024
ROMA VISTA DAL GAZOMETRO
Pubblichiamo un estratto dal volume Architetture inabitabili (Marsilio Arte) a cura di Chiara Sbarigia e Dario Dalla Lana. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.
Alto quasi novanta metri, tre tonnellate di ferro e due milioni di chiodi per costruirlo, chilometri di tubazioni. Scendendo viale Aventino, lo avvisti da piazza Scanderbeg che sovrasta le chiome dei pini, poi riappare da mille altri punti di vista, meravigliosamente incongruo nello skyline frastagliato di cupole, ville patrizie, torrette. Quando ero ragazzo lo si vedeva anche pieno per un terzo, o a metà, o vuoto del tutto, e nessuno di noi capiva come effettivamente funzionasse, nemmeno ce lo domandavamo: più è complessa, più la tecnica la si accetta come una specie di implicito miracolo. Un mondo sottinteso. A parte chi ci lavora, i macchinari che mandano avanti una città come sono fatti, chi li conosce?
E poi, la z nel suo nome vi aggiungeva un ulteriore tocco esotico.
Molto è stato scritto e ancora di più filmato sul carattere impiegatizio, ministeriale e burocratico della città di Roma. Solo qui è stato possibile che si creasse un milieu artificialmente interclassista così capiente da mescolare palazzinari, gente di spettacolo, stimati professionisti, personaggi televisivi e politici, artisti e artistoidi, insieme a una variopinta fauna umana, che impropriamente veniva chiamato “generone”, capace di riprodursi in modo proteiforme avvicendando i suoi protagonisti eppure mantenendo quasi immutato il suo codice morale, e cioè un radicale e umoristico scetticismo, nei confronti di tutto e tutti (persone, istituzioni, idee), e persino verso un valore che in altre città viene, se non adorato, quanto meno rispettato: il denaro. La RAI, il tifo calcistico, er Cinema, i Palazzi della politica, i Circoli sul Tevere e sull’Aniene, le redazioni dei giornali e le caste dell’amministrazione pubblica sono legati dai fili di una rete più o meno visibile, come quella che salva gli acrobati del circo quando sbagliano, su cui sta sospeso un mondo al tempo stesso surreale e fatto di interessi concreti, di frivolezza e candore e opportunismo e miscredenza, dove, a momenti, i soldi sembrano contare un po’ meno che altrove, poiché, a tirare le somme, nulla conta veramente, tutto è transitorio, il potere, il successo, la considerazione o la riprovazione altrui, il sesso, la politica, insomma a farla breve la vita; e dunque, perché dannarsi l’anima a inseguire uno di questi obiettivi? Meglio lasciar andare il tempo, e l’anima (se qualcuno ancora ce l’ha) affidarla alla sua corrente…
Secondo gli schemi del mio rigido moralismo di ragazzo, il corpo sociale della città in cui da sempre abito mi sembrava insomma formato da sonnolenta e retrograda borghesia, zozza plebe e aristocrazia spompata, con una preponderanza della prima categoria sulle altre. Qualcosa di analogo aveva scritto Stendhal quando ironicamente sosteneva che la città fosse abitata per un terzo da preti, per un terzo da donne e per un terzo da statue: a lui queste percentuali non sembravano dispiacere, forse perché trapassavano le epoche assicurando una sorta di precaria stabilità all’assetto cittadino.
Suonerà bizzarro, ma da queste parti, infatti, permanenza e pungente senso dell’effimero si scambiano di continuo i ruoli: si confida nella prima a causa del secondo, o meglio, è la maestosità della prima (rappresentata plasticamente dalle immani rovine antiche) a indurre incredulità nei confronti di qualsiasi realizzazione attuale. L’immobilismo diventa così garanzia di eternità.
Ma ecco il Gazometro a smentire tutto ciò. Ferro, e non soltanto marmo. Chiatte cariche di carbone invece che pini e fontane. Tecnica e industria, e non turismo (ossia quell’attitudine che induceva Joyce a scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che campa mostrando ai visitatori, in cambio di un soldo, il cadavere di sua nonna”). In altre parole, modernità, che non cancella l’antico anzi serve a mantenerlo vivo, a illuminarlo. Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano. Nel quadrante sud, là dove il Tevere serpeggia una volta sgusciato fuori dalle mura, la città era anche questo, soprattutto questo, emanante l’“acre e strano fascino” industriale, e lo ricordano le lugubri descrizioni nei documentari che venivano girati lì dentro. La stentorea voce fuori campo avrebbe potuto fungere da didascalia a un film su qualche fuligginosa città operaia inglese o addirittura all’incubo di Metropolis, con il “ventre insaziabile” delle sue fornaci. “Nell’atmosfera squallida ai margini della città… le officine del gas sembrano esprimere… coi loro tetri profili… tutta la tristezza della periferia…”. Centinaia di operai si aggirano intorno alle “costruzioni affumicate e untuose” di questo “mondo nero e pulsante”. E poi, con un tono ancora più esaltato: “si irradia dai tozzi gabbioni dei gazometri… il calore necessario alla vita dell’immensa città!”. Eh sì, perché in realtà i gazometri sono quattro, gli originari più piccolini, e poi quello monumentale aggiunto nel 1937 dall’Ansaldo, il più grande d’Europa, assai più titolato a rappresentare l’autentico Colosseo novecentesco in luogo di quello (quadrato) dell’EUR.
Colgo l’occasione che oggi mi viene concessa di entrarvi. Da molti anni è stato svestito delle paratie telescopiche che si alzavano e si abbassavano a seconda della quantità di gas stoccato (fino a duecentomila metri cubi), quindi ne rimane il guscio, il “fantastico castello d’acciaio” come lo definiva il cinegiornale d’epoca. Ammetto di essere piuttosto emozionato: come quando visitai il cuore della centrale nucleare mai attivata a Montalto di Castro, e mi piazzai dove avrebbero dovuto essere le barre di plutonio (unico luogo al mondo, credo, Montalto, dove sia possibile far questo…).
L’impressione, accerchiante, e che mozza il fiato, è di stare in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature. Mi sembra di cogliere in modo palpabile la volumetria del manufatto anche se essa, di fatto, non esiste, è aria. L’architettura consiste soprattutto di quello che in cinese si dice wu, particella dalle mille possibili traduzioni: l’assenza, il nulla, il non avere o forse il non essere, l’apertura, il vano. Ciò che arretra, che esiste per sottrazione, insomma, e così offre spazio alla vita, come appunto i vani di un’abitazione. Volendo proseguire con analogie forse stravaganti, ma senza le quali non potrei rendere minimamente le mie sensazioni, è come quando mi ritrovai, a Bamiyan, davanti alle nicchie dei Buddha giganti distrutti dai Talebani: non c’erano più, eppure c’erano. Il vuoto suggeriva la loro presenza. Vi alludeva, la significava.
Poco più in là, oltre la recinzione, scorre il fiume, lo si intuisce dalle cime degli alberi scossi dal vento che ne segnano l’argine. È dal Tevere che veniva scaricata la materia prima. Quindi, negli “immani bracieri” dei forni, bruciava il carbone a mille e trecento gradi, per trasformarlo in gas, che poi doveva subire altri passaggi, lavaggi, purificazioni, sublimazioni, prima di essere adatto all’uso. Insieme a un buon sistema fognario, l’illuminazione segna il vero scatto in avanti della vita urbana. Qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco perché alla comunità sia concessa un’esistenza più pulita.
Persino a Roma, città simbolo di svagatezza e approssimazione, le fondamenta poggiano su sangue sudore e lacrime: ipocrita nasconderle o porle fuori vista. Il traforato castello del Gazometro, anche se ora è un immateriale disegno in cielo, una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il suo solco vuoto, il corpo dell’animale vivo.
Le immagini degli operai che lavorarono lassù, sospesi in aria, tra il 1935 e il 1937, ricordano quelle famose dei grattacieli americani in costruzione, con i carpentieri che fanno uno spuntino seduti sulle putrelle d’acciaio appena imbullonate. Ora mi piacerebbe arrampicarmi sulla scaletta metallica che sale a zigzag fino in cima; ma soffro di vertigini, so che non arriverei a dieci metri. Dall’alto penso si allarghi il panorama fino all’osteria “Al Biondo Tevere” che sta un chilometro più in giù sulla via Ostiense. Be’, ci andrò in motorino.