Don Claudio Burgio

ARTICOLO n. 72 / 2024

TRAP E RAP: LA TRASGRESSIONE SVELA MONDI INVISIBILI

intervista di isabella de Silvestro

Don Claudio Burgio è nato a Milano e di Milano ha il fare pragmatico e solerte. Ordinato sacerdote nel 1996 dal cardinale Carlo Maria Martini, quattro anni dopo fonda Kayròs – dal greco “momento opportuno” – un’associazione che accoglie in comunità residenziali ragazzi tra i 14 e i 25 anni con procedimenti penali a proprio carico, accompagnandoli, come si dice, al reinserimento sociale, ovvero guidandoli nell’elaborazione del dolore pregresso e nella costruzione di una forma futura che sia solida e responsabile del rispetto di sé e degli altri. Da anni Don Burgio è anche il cappellano dell’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Nel 2010 ha pubblicato per le Edizioni Paoline Non esistono ragazzi cattivi, testimonianza del suo operato tra il carcere e la comunità. Abbiamo parlato del mondo dei ragazzi e di quello degli adulti, di come si costruisce un dialogo fertile attraverso la musica, con curiosità, ascolto e senza moralismi.

Isabella De Silvestro: Come si è avvicinato al mondo del carcere e in particolare a quello del carcere minorile?

Don Claudio Burgio: Sono prete dal 1996 e sono stato mandato subito in una parrocchia periferica di Milano. I ragazzi che incontravo presentavano tante fragilità, sia nel rapporto con i genitori che a causa di dure esperienze di vita. Tra questi c’erano tantissimi minori stranieri non accompagnati. Da lì è nata spontaneamente l’idea di accogliere questi ragazzi in piccole case e si è avviata così l’esperienza di Kayròs. Nel tempo il progetto si è ampliato e di conseguenza il Cardinal Martini, che mi ha ordinato prete, mi ha proposto di andare al Beccaria come vice cappellano. Diciamo che le comunità e il Beccaria sono nate dal mio ministero in mezzo ai ragazzi.

I.D.S. Ad aprile sono venute alla luce torture e pestaggi da parte di alcuni agenti penitenziari nei confronti dei ragazzi detenuti al Beccaria. Di fronte a violazioni di questa gravità, è ancora possibile guardare al sistema-carcere con fiducia?

D.C.B. Quando ho iniziato al Beccaria, diciannove anni fa, potevo dire che quella fosse un’esperienza rieducativa. C’era una multidisciplinarietà dell’intervento, un metodo-Beccaria che risultava vincente in molte situazioni. Posso dire che quel paradigma, quel dispositivo funzionava. Nel tempo, a causa di tanti fattori legati nel caso del Beccaria alla mancanza di un direttore stabile, tra le altre disfunzioni, quel metodo non è stato più efficace. Come spesso accade quando manca un governo centrale le figure si chiudono in una certa autoreferenzialità e quindi gli agenti penitenziari andavano da una parte, gli educatori dall’altra, gli insegnanti da un’altra ancora: un approccio frammentato e disfunzionale. Oggi non solo il Beccaria, ma le carceri minorili in generale, purtroppo, non riescono a far fronte alle situazioni complesse a cui dovrebbero invece saper rispondere. Che dunque la galera diventi una scuola di crimine è abbastanza evidente, ancora di più nelle carceri per adulti dove il rapporto detenuti-educatori è di 300 a 1.
Il minorile, poi, ha una responsabilità ancora maggiore: dovrebbe essere un’esperienza fortemente educativa dove non sia mai la violenza a prevalere. Il carcere è per definizione un’istituzione totale, che corre il rischio costante di diventare totalitaria. 
Non posso nascondere che le figure educative di oggi, quelle che l’università italiana forma nelle facoltà di scienze dell’educazione, sono altamente impreparate ad avere a che fare con ragazzi che vengono da contesti così complessi. Anche le forze di polizia penitenziaria mancano di formazione. Un conto è tutelare la sicurezza in un carcere per adulti, un conto è avere a che fare con adolescenti. Fino al 2017-2018 era prevista una formazione specifica, poi questa formazione è stata dismessa: questi sono i risultati. Essere autorevoli ed essere autoritari sono cose diverse.

I.D.S. A proposito di autorevolezza. Quando ha capito che la musica poteva essere uno strumento efficace di dialogo e lavoro comune con i ragazzi?

D.C.B. Da sempre, perché a mia volta ho ricevuto una formazione musicale fin da bambino e come prete ho svolto ruoli di direzione musicale, composizione e studio in ambito ecclesiastico. Per cui ho sempre avuto una familiarità con la musica, ne conoscevo i riscontri e le possibilità espressive. Nella mia comunità c’è stato fin dall’inizio un laboratorio musicale, ovviamente adattato ai ragazzi, perlopiù di rap. Questo linguaggio è diventato con il tempo preponderante e alcuni di questi ragazzi ne hanno fatto un vero e proprio lavoro. Ci tengo a dire che si tratta di carriere che si sono costruiti da soli, noi li abbiamo solo messi nelle condizioni di potersi esprimere accompagnandoli negli studi di registrazione, assistendoli nel loro cammino artistico. Mettere i ragazzi nelle condizioni favorevoli per fare musica ha significato anche averli tutelati rispetto al mondo dei servizi sociali, dei tribunali per minori che diffidavano di questo genere musicale. All’inizio è stato molto difficile, la comunità si è esposta per loro perché era considerato impensabile dalle istituzioni che un cammino educativo potesse conciliarsi con i testi e i video delle loro canzoni. C’era un forte pregiudizio e una richiesta quasi di censura, cosa che invece noi non abbiamo mai abbracciato come metodo educativo. La comunità ha cercato di interagire con giudici e servizi sociali per far capire come questo progetto non dovesse essere ostacolato ma fosse invece una possibilità non solo di lavoro ma soprattutto di espressione. Negli ultimi anni qualcuno ci ha capito di più ma all’inizio è stata dura.

I.D.S. La giustizia processa i testi, tanto in senso metaforico quanto letterale?

D.C.B. Io penso di sì. Il rap e la trap erano visti come generi musicali deviati e devianti, associati alla criminalità. Io credo che questa lettura, favorita dal mondo delle istituzioni, non abbia ragion d’essere. In queste canzoni, peraltro forse mai ascoltate fino in fondo dagli uomini delle istituzioni, si poteva trovare una chiave di lettura di fenomeni complessi. Avrebbero aiutato a capire per esempio l’esistenza delle seconde e terze generazioni, permettendo all’ascoltatore di entrare in una realtà scomoda, difficile da guardare, eppure fondamentale da comprendere.
Noi non abbiamo mai avuto pregiudizio, anche quando i testi esprimevano concetti che non ci appartenevano. Abbiamo sempre pensato che un malessere vissuto debba poter essere espresso. La realtà che raccontano esiste, per quanto sgradevole possa apparirci. Quando ai ragazzi è stato evidente che li ascoltavamo, allora da lì siamo entrati in confidenza, da lì abbiamo potuto dialogare davvero. Questi ragazzi erano prima totalmente indifferenti se non ostili al mondo adulto. Io credo che tante sentenze o interventi della giustizia nei confronti di alcuni dei nostri ragazzi siano stati un accanimento che andava oltre il reato stesso o le condotte.

I.D.S. Perché per i ragazzi che hanno abitato i margini il rap e la trap hanno una presa che nessun altro genere riesce ad avere?

D.C.B. Perché permettono di descrivere la realtà di contesti sconosciuti: le periferie, le situazioni giovanili di fragilità economica, sociale, culturale che attraversano il nostro tempo. Adesso si dirà che esagero ma io credo che questo genere permetta una narrazione del reale di stampo pasoliniano. Anche lui descriveva mondi che appartenevano alla povera gente, raccontava, attraverso la poesia, un’Italia che nessuno aveva il coraggio di guardare con quegli occhi e quello sguardo.

I.D.S. Lei crede che il successo di questi ragazzi, come quello vertiginoso raggiunto da Baby Gang o Sacky, per citare due trapper di grande successo passati per la sua comunità, li abbia aiutati o ingabbiati?

D.C.B. Il successo dà alla testa a tutti, soprattutto a chi per anni è vissuto nella povertà più assoluta e di colpo si ritrova nella posizione di accedere anche ai lussi più sfrenati. Detto questo, sono ragazzi che non hanno solo buttato via. Hanno comprato la casa per i loro genitori: c’è un forte senso di responsabilità nei confronti delle famiglie. Ne parlavo spesso con loro e li trovavo esemplari.

I.D.S. Mi interessa il tema del denaro. In un servizio delle Iene sull’esperienza di Kayròs, vicino a lei appare un ragazzino straniero, poco più che bambino, che immediatamente parla di soldi. Lei dice: «soldi è la prima parola che imparano». Come lavora su questa tema?

D.C.B. La prima cosa è prendere sul serio le parole dei ragazzi. Noi in fondo facciamo riferimento a parametri, codici e valori che nascono dalle condizioni di vita nelle quali abbiamo vissuto. Quando un ragazzino con un’esperienza totalmente diversa dalla nostra dice “soldi”, innanzitutto va preso sul serio. Per molti di noi, vissuti tutto sommato nell’agio questa parola sembra non risolutoria. Invece, per chi viene da una povertà estrema, per chi addirittura non mangiava tutti i giorni, o ha vissuto interi inverni senza acqua calda in casa, questa parola ha una risonanza che non è la stessa che può avere in me o in lei, che se anche abbiamo conosciuto la povertà è una povertà di ordine diverso. Questo, dunque, è il primo passo. Dopodiché è chiaro che bisogna accompagnare i ragazzi a dare senso e valore al denaro. Quindi il secondo passo è chiedere: i soldi perché? I soldi dove vanno una volta che li guadagni? Accompagniamo i ragazzi a dare valore alle parole, prima ancora che al denaro. Molti di questi ragazzi dicono parole, ma sono parole ripetute, sono mantra. Non sono ancora parole riflettute, a cui dare un significato serio. 

I.D.S. Lei dice che i tempi giuridici non sempre corrispondono a quelli della crescita di un essere umano e che è probabile che un ragazzo sbagli ancora e ancora prima di trovare la strada giusta. Che rapporto ha con la delusione e il rammarico?

D.C.B. La parola delusione non deve esistere per un educatore. L’educatore non è quello che vive il suo ruolo con ansia da prestazione: io so benissimo che perché un ragazzo scopra e dia valore alla propria vita deve inevitabilmente passare da alcune tappe. Un cammino di crescita non è mai un cammino continuo e lineare verso il bene, è anzi sempre un cammino accidentato e discontinuo. Ci sono momenti buoni e momenti meno buoni e bisogna accompagnare i ragazzi in questo saliscendi che è la vita per aiutarli a dare senso anche al dolore, anche alla frustrazione, anche a uno sbaglio. Aiutarli a capire che uno sbaglio non è la fine di tutto ma può essere l’inizio di qualcosa di più importante.

I.D.S. Non si scandalizza mai?

D.C.B. [ride n.d.r.] In questi anni ho imparato a digerire veramente tante cose. Io, devo dire, mi scandalizzo più del nostro mondo adulto. Faccio fatica a scandalizzarmi dei ragazzi anche quando sono provocatori. Anzi, a dire il vero tutto sommato mi diverto. Trovo più scandalo in un certo modo di fare politica, e lo intendo nel senso della polis. Quando per esempio ci sono delle case che la gente mette a disposizione per fare comunità e un’amministrazione comunale si mette contro, influenzando la cittadinanza, creando allarmismo. Ecco, quello per me è un modo scandaloso di fare politica, in un momento come questo in cui l’immigrazione non è più un’emergenza ma un processo irreversibile. Più che scandalosa la trovo una politica miope, un’incapacità di capire dove si sta andando. Ma devo dire che faccio i conti anche con questo. Non sono uno che si accende, diventa ideologico o polemizza. Cerco di capire la paura della gente, di comprenderne l’origine. Mi sembra che le persone abbiano bisogno di un mostro in cella per affermare la propria bontà. Io penso che un sistema come quello del carcere debba essere superato, ma sono cosciente che è una posizione che può essere facilmente tacciata di ingenuità. Il passaggio da valori proclamati a valori vissuti è ancora un passaggio molto difficile in Italia. 

I.D.S. La trasgressione, intesa sia come possibilità della vita che come versi in una canzone, può avere un ruolo creativo e positivo?

D.C.B. Credo di sì. La trasgressione svela mondi prima invisibili. L’emergenza, io dico sempre, non è una parola negativa. Ciò che emerge, ciò che si rende visibile è già speranza: perché permette di guardare oltre. Se invece guardiamo all’emergenza solo come qualcosa da abbattere non riusciremo a fare dei passi avanti. Non basta la lamentela, la nostalgia dei tempi che furono: bisogna imparare a guardare anche al male come una possibilità, come un Kayròs.

I.D.S. Che ruolo ha la fede, quella sua e quella dei ragazzi, nel dialogo che instaurate?

D.C.B. La fede vista da dentro – dal carcere, dalle storie difficili di questi ragazzi – è una fede molto più evangelica. Il vangelo diventa drammaticamente reale. Il rischio, per noi uomini di Chiesa, è quello di diventare un po’ fideisti, il fideismo di chi si affida a Dio in maniera retorica o convenzionale. Invece, dalla prospettiva del margine, la fede non è quella della preghierina, è una fede fatta di domande aperte. Stare in carcere mi aiuta a tenere sempre accesa la domanda.