ARTICOLO n. 62 / 2023
Di Djarah Kan
PER FORTUNA I NERI MUOIONO SOLO D’ESTATE
La temperatura dell’estate
In edicola, tra una bionda con un sorriso di cera e il nuovo numero di una terribile rivista femminile che in regalo offre alle sue lettrici un mazzo di tarocchi dal Negro, c’è il volto tondo e sorridente di un uomo nero. Sulla copertina della rivista, la sua pelle è lucida. Deve essere morto, perché la foto pubblicata è il tipico ritratto del morto. Si tratta di Frederick Akwasi Adofo, quarant’anni. Sotto una didascalia scritta in caratteri cubitali, rossi, parla di lui. Senzatetto. Immigrato. Clochard. Ucciso da due minorenni di cui non si sa molto. Foto sgranata. Forse l’unica. Lui, benvoluto da tutti. Innocuo. Infantilizzato al fine di creare maggiore trasporto emotivo tra la vittima e il pubblico. Se la gente non vede il nero grosso come un bambinone, non capirà che è morto un uomo. Penseranno solo a un extracomunitario. Invece in questo modo è meglio. Più pietà. Più tenerezza. Un grosso, bambino nero di quarant’anni, con i tipici problemi degli immigrati neri adulti, che oramai però, vista la retorica e i tempi che corrono, non bucano più né lo schermo, né i cuori della gente. Tant’è che la sua esistenza, prima della sua cancellazione, era nota solamente ai volontari e gli operatori che lo avevano sostenuto nel suo percorso per l’ottenimento della licenza media, mentre ora il suo caso veniva reso noto a tutto il Paese, come l’ennesima storia di un nero che muore d’estate, ucciso dai bianchi.
E gli assassini? Dei ragazzini abbandonati a loro stessi di appena sedici anni che postano il video di quella atroce violenza sui social. Come se quelle mazzate date a un senzatetto prima di andare a dormire fossero un rito giornaliero di liberazione da una ferocia che viene raccontata come disumana, ma che di umano e comune ha ogni suo singolo pezzetto. E mentre il ventre della società civile si appresta a espellere i resti di questi giovani abortiti, in pochi si chiedono come mai ci sia questa fretta di prendere le distanze da questi giovani Caini, gli assassini dell’Abele nero.
Saranno questi trentasette gradi e mezzo a farmi poco bene, ma leggere quei caratteri accesi di rosso, che parlano di quell’uomo nero, morto di botte nell’androne di un palazzo, mi dà le vertigini. È una storia che conosco. Una storia che quelli come me si aspettano. Perché ce lo aspettiamo sempre, che cose di questo tipo accadano. Il punto è quando, e come. Ma l’epilogo è sempre lo stesso.
Consapevolezza: conosci la tua casa. Conosci ogni sua stanza. Conosci il tetto, e le finestre che ti proteggono dal Mondo di fuori. Conosci anche il tuo Paese. Che è la tua casa nella diaspora. Misura la sua temperatura, calcola il peso specifico di ogni singola parola che utilizzano per categorizzarti ed etichettarti. In TV, per strada, in fila alle Poste, al supermercato, mentre passeggi. Ogni movimento e reazione inconsulta è un segno, un indicazione della temperatura delle cose. E bisogna stare dietro ai dettagli, se si vogliono prevenire i casini.
Era da un po’ che il clima in Italia non faceva tanto schifo. Né freddo, né caldo. Semplicemente duro, asfissiante, soprattutto nebbioso. L’aria stessa che si respira pesa come una marcia militare, i cui passi avanzano pesanti su un asfalto rovente. Lentamente, adagio, tornano i simboli del fascismo, riproposti in una salsa moderna, eppure così terribilmente vecchia. La nuova tolleranza stabilita dal Governo ha un occhio di riguardo e una mano gentile, solo a favore dei violenti e dei conservatori, che vedono in qualsiasi fluttuazione dell’esistenza una minaccia all’integrità del Paese. È importante quindi che si faccia particolare attenzione ai racconti che si fanno delle minoranze, e al modo in cui le giurie popolari che dalle radio e dalla televisione emettono le loro sentenze sul Mondo che verrà, e che vogliono evitare che arrivi. Le persone nere con un po’ di sale in zucca controllano il polso del Paese, con tutti i suoi battiti. E stanno ad aspettare la prossima mossa. Sanno che quando la temperatura sale, la sacca che contiene la rabbia bianca si riempie per esplodere. Per questo la morte dell’uomo nella foto non mi sorprende. Ho un cerchio alla testa, e una sensazione terribilmente familiare, come se stessi rivivendo lo stesso evento, ma con i dettagli differenti.
Il déjà-vu che sto vivendo è forte. Sono già stata qui, in questo luogo della mia anima, dove mi raccolgo per constatare in silenzio che un’altra persona nera è stata uccisa da una persona bianca. Sembra quasi la formula per una delle tante ricette del Caos. Una formula a cui molti sono così abituati da darla per scontata, al punto da non riuscire nemmeno più a vedere tutto quello che c’è intorno alla cancellazione del corpo di una persona povera, nera, che vegeta sulla soglia di un privilegio al quale non ha alcuna possibilità di accesso. Lui resta e muore in un margine invisibile, scavato da concezioni secolari classiste e razziste, che nonostante l’usura e la sfida del tempo arrivano fino a noi del tutto intatte.
C’è un motivo per cui quella notizia mi risuona così familiare. Tutto mi rimanda alla morte di Alika Ogorchukwu, il cittadino nigeriano ucciso da Filippo Ferlazzo nel 2022, a Civitanova Marche.
Ricordo perfettamente che per commemorare la sua morte venne indetta una manifestazione antirazzista. Io c’ero. Mi recai a Civitanova Marche con un gruppo di amiche e amici. Parlando con la gente di lì, nessuno voleva cedere all’idea del movente razziale. Ciò che noi, in quanto persone razzializzate, vedevamo con una chiarezza più pura del cristallo, per la gente di lì non era altro che lo spettro di illazioni su un presunto razzismo che a Civitanova Marche, come a Pomigliano d’Arco, non esisteva. Era come se fossimo tutti spettatori di una realtà che, nonostante lo spazio abitato insieme, non condividevamo.
Non solo non credevano ai motivi razziali dietro l’omicidio di Alika Ogorchukwu, ma ciò che forse più li offendeva nel loro onor, era l’idea che tutto il paese reale li avesse etichettati con l’appellativo di razzisti. Civitanova Marche, la città dove l’indifferenza e il razzismo hanno un ucciso un immigrato disabile. L’onta del razzismo, svuotata del suo significato e potere, e quindi ridotta soltanto a una parola triviale e offensiva, è un’accusa che nemmeno i fascisti accettano.
E a distanza di un anno, con una temperatura che arriva a sfiorare i trentasette gradi, ecco che viene ucciso un altro uomo. Questa volta nel Sud Italia, a Pomigliano d’Arco. Anche lui povero, anche lui nero. Espulso dal circuito dell’accoglienza come una ciste infetta arrivata alla fine del suo ciclo vitale e spedito a vivere per strada, su una panchina, senza nessuna possibilità di negoziare con lo Stato i termini della sua marginalità.
La storia di Frederick Akwasi Adofo, chiamato dalla gente di Pomigliano d’Arco semplicemente Frederick, il senzatetto che non avrebbe fatto male a una mosca nemmeno se avesse voluto, è fatta di elemosina, e chiacchiere coi passanti. Un uomo povero e disoccupato che, escluso dal circuito dell’accoglienza, si era ritrovato a dormire su una panchina. Per via di queste due condizioni, che non è mai bene si accompagnino insieme, era stato più volte vittima di violenze da parte di sconosciuti. Era già successo, ma, per qualche ragione, qualcuno ha pensato non fosse necessario proteggere un uomo il cui corpo e la cui vita, secondo alcuni, non avrebbe valso mai abbastanza da spingere qualcuno a proteggerlo. Frederick valeva soltanto per chi lo amava, ma i singoli che amano altri singoli non sono sufficienti a proteggere persone come lui. Dunque, chi era quest’uomo? E perché mi sembra di vivere un déjà-vu?
Vorrei urlare al Mondo intero che ho visto quell’uomo nelle mie visioni fatte di ansia quotidiana. Chi sarà il prossimo? Perché ce ne sono stati altri prima di lui. E gli somigliavano nelle linee generali. Uomini neri poveri cancellati. Uomini neri poveri uccisi a mani nude. Uomini neri poveri che spariscono tra le ceneri di ghetti dati alle fiamme dalla Camorra, che storicamente è portatrice di odio razziale, come dimostra la storia della repressione dei ghetti di Rosarno, o della Strage di Castel Volturno del 2008, in cui sette giovani uomini neri vennero giustiziati dalla Camorra con fucili d’assalto.
Filippo Ferlazzo dice qualcosa di emblematico all’indomani dell’arresto per l’omicidio di Ogorchukwu. Non voleva uccidere, ma solamente “dare una lezione” a quell’uomo nero incivile e maleducato, venuto nel suo Paese per chiedergli l’elemosina. Certo, dicono i cittadini di Civitanova Marche, Alika era un po’ insistente, ma non meritava di morire soffocato dalle sue stesse stampelle. Ci vogliono una forza e una volontà di ferro per uccidere un uomo in quel modo. Non ci può essere casualità alcuna in quel tentativo coloniale di raddrizzare il non raddrizzabile, lo straniero, il negro che vuole restare negro e che con la sua negrezza disturba e deturpa le aiuole, infestando con la sua miseria un panorama fatto di luccichii e altre ossessioni piccolo borghesi, che escludono a priori una tale irruzione della realtà, come quella imposta da un corpo nero disabile e fuori dalle fantasie che promette quel profumo di eterno benessere estivo, che solo le località balneari sanno trattenere tra le loro grinfie. Chissà perché la maleducazione e l’inciviltà che tipicamente si trovano in giro non avevano mai scatenato, prima d’allora, l’ira e la ferocia di Ferlazzo. Mia madre mi diceva di vestirmi sempre bene. E di comportarmi come una signorina. Perché ciò che è concesso a un bianco non viene mai concesso a un nero. Non a caso, l’ordine che vigeva nelle colonie conservava in sé una filosofia terrificante, una politica dell’annientamento fisico che si celava dietro l’intento di insegnare ai non-uomini delle colonie come essere uomini veri simili ai bianchi, e non animali. Anche loro non volevano radere al suolo civiltà secolari, ma insegnare a vivere meglio, alla Occidentale. E così, ecco, il regime coloniale crea Uomini e Donne rinati nel Cristo e nella Patria che li sottomette a suon di mazzate e di discriminazioni. E non conta che nel processo di apprendimento qualcuno muoia o resti lesionato a vita dallo zelo dei professori della strada, che di notte ti prendono a calci in faccia o ti soffocano con una stampella. Il tutto sta nel riuscire a sopravvivere a questo brutale processo di apprendimento che è sì violento, ma per i più necessario ad assurgere al nobile scopo di far capire ai selvaggi dalla pelle cupa come funziona la civiltà in Italia e quanto bisogna incassare per diventare dei cittadini italiani. Degli italiani brava gente.