ARTICOLO n. 5 / 2025
Di Bruno Maida
TRE INFANZIE
In occasione del Giorno della Memoria, ritorna in sala da domenica 26 gennaio a mercoledì 29 gennaio – distribuito da I Wonder Pictures – il film vincitore di due premi Oscar tra cui la statuetta come Miglior film internazionale, “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer. Trova il cinema più vicino a te qui
Tra i tanti suoni, rumori, voci che si intrecciano e si sovrappongono ne La zona d’interesse, fino a essere non solo un indispensabile tappeto sonoro ma un tema fondamentale del film, vi sono i pianti dei bambini. È così fin dalla prima sequenza, quando la famiglia Höss è riunita per un bagno nel fiume Sola, e si sente il pianto di Annegret, l’ultima nata di Rudolf e Hedwig Hensel, il 20 settembre 1943. Le sue urla di neonata progressivamente si confondono con quelle dei bambini ebrei che arrivano ad Auschwitz, vengono fatti scendere dal treno e, salvo poche eccezioni, sono inviati subito alla camera a gas. Noi sappiamo che il pianto che viene dalla casa della famiglia Höss è sempre quello di Annegret, così come sappiamo che quello che sentiamo provenire dall’interno del campo appartiene, giorno dopo giorno, a bambini sempre diversi e sempre segnati dallo stesso destino.
Lo sappiamo ma siamo costretti a fermarci per pensarlo, perché siamo abituati a considerare, come è giusto, che tutta l’infanzia è innocente e uguale. Che i bambini e le bambine cresciuti sotto il nazismo siano anch’essi vittime mi sembra ovvio, eppure alcune distinzioni vanno fatte. Vittime sono anche gli altri quattro figli dei coniugi Höss: Klaus, che nasce nel 1930, Heidetraut nel 1932, Inge Brigitt, che tutti chiamano Brigitte l’anno dopo, e Hans-Jürgen che viene alla luce nel 1937. Ma la loro è un’infanzia protagonista e visibile, che ha un presente e un futuro, a differenza del milione e mezzo di loro coetanei ebrei, che rimangono invisibili, uccisi nei ghetti, nello “sterminio delle pallottole”, nei campi di sterminio e le cui voci diventano via via sempre più fioche fino a spegnersi percorrendo la strada per Auschwitz, da qualsiasi luogo provengano.
Da questo punto di vista, il muro che si erge tra la villa della famiglia Höss e il Lager non divide solo due spazi, due condizioni, due gerarchie ma anche due destini. Brigitte, nata il 18 agosto 1933, ha sempre abitato vicino a un campo di concentramento: dagli uno ai cinque anni a Dachau, dai cinque ai sette a Sachsenhausen, infine ad Auschwitz dai sette agli undici. È nata quindici giorni dopo Enrica Spizzichino, figlia di Pacifico ed Elena Di Cave, deportata ad Auschwitz con i genitori e i due fratelli – Franca nata nel 1936 e Mario nel 1942 – dopo essere stata arrestata nella retata del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. I tre bambini sono uccisi, insieme alla madre, all’arrivo nel Lager nazista, il 23 ottobre, quando Annegret Höss ha appena compiuto un anno. Hans-Jürgen ha invece sei mesi in più di Sergio De Simone che, arrestato a Trieste insieme alle cuginette Andra e Tatiana Bucci, arriva ad Auschwitz all’inizio di aprile 1944 e da lì sei mesi dopo verrà inviato con altri diciannove bambini a Neuengamme, dove saranno tutti sottoposti a terribili esperimenti medici e poi, alla fine della guerra, uccisi nello scantinato della scuola Bullenhuser Damn di Amburgo.
A differenza dell’invenzione de Il bambino con il pigiama a righe, quei bambini non si incontrarono mai né gli uni videro gli altri. Hans-Jürgen è l’unico che, ne La zona d’interesse, ha un momento di consapevolezza infantile della violenza che lo circonda quando, sentendo delle urla, si affaccia solo un attimo alla finestra e immediatamente si ritrae e tira le tende. Quando sente esclamare: «Annegalo nel fiume», allora Hans-Jürgen inventa un gioco nella sua mente e dice a un compagno immaginario: «Non devi farlo mai più».
Forse Glazer vuole dirci che l’innocenza non può essere preservata del tutto, neanche da Höss, che pure trascina Heidetraut e Hans-Jürgen via dal fiume pieno della cenere dei crematori. La madre e le governanti li lavano a lungo, strofinano i loro corpi perché la loro purezza rimanga intatta e non sia in alcun modo contaminata. I genitori costruiscono un cupo giardino dei giochi, dove un’infanzia inconsapevole vive però serena e allegra, malgrado gli spari, malgrado le urla, malgrado il fumo, malgrado la puzza che solo la madre di Hedwig sembra sentire. È un continuo cortocircuito del mondo infantile: i giochi con i soldatini che Hans-Jürgen inventa ai piedi del fratello Klaus, vestito da giovane nazista; le favole che il padre racconta alla piccola Heidetraut, soprattutto Hänsel e Gretel(ma la strega è Höss o l’ebreo?); i rumori che sempre Hans-Jürgen, divertito, ripete dal suo letto nell’oscurità pur essendo suoni terribili; il gioco apparentemente normale ma in fondo sadico di Klaus che rinchiude il fratello più piccolo nella serra, ricordando un passaggio del film Il nastro bianco di Michael Haneke nel quale il regista racconta le origini del nazismo. È anche un altro gioco che non si vede nel film ma che risulta dalla testimonianza di Janina Szczurek una sarta polacca che lavora al servizio del comandante del campo. Ha raccontato che con i vestiti degli internati ne confezionava altri per la famiglia Höss, e ha ricordato come un giorno i bambini le chiesero di cucirvi sopra dei triangoli neri o gialli come quelli dei prigionieri.
Tra quella visibile della famiglia Höss e quella invisibile delle centinaia di migliaia di bambini ebrei uccisi nelle camere a gas di Auschwitz, vi è però una terza infanzia, incarnata da Aleksandra Kołodziejczyk, che nel 1943 ha sedici anni ma che da quando ne ha quattordici partecipa, con il nome di battaglia di “Olena”, alla Resistenza polacca. È nata a Brzeszcze, una città a meno di sei miglia dal sito del campo di Auschwitz II-Birkenau; suo padre nel 1940 è stato deportato a Dachau ma è tornato pesando solo 32 chili. Il racconto della ferocia nazista e della fame patita la convincono ad agire. La vediamo nel film lasciare mele per i prigionieri, attraverso immagini realizzate con una telecamera termica che restituisce una sorta di visibilità a metà, di aiuto sotterraneo e non dichiarato. Secondo il regista, lei rappresenta l’unica luce del racconto, incarna la forza del bene. Anche qui una diversa forma di cortocircuito non manca. Se l’adolescente Aleksandra rappresenta comunque la purezza e l’innocenza dell’infanzia, unica possibilità di salvezza per il mondo dopo la Shoah, nondimeno rischia di assumere sottotraccia il significato di un’assoluzione per i polacchi che, come noto, non intendono ancora oggi fare i conti con le loro responsabilità nello sterminio degli ebrei fino a trasformare in reato le opinioni critiche.
In una foto non datata ma scattata tra il 1940 e il 1943, si vedono Klaus, Brigitte e Heidetraut, felici e sorridenti, mentre insieme, uno dietro l’altro, scendono da uno scivolo. Sono in costume da bagno e sono nel grande spazio verde che circonda la loro villa al confine con il campo. La fotografia restituisce un mondo di spensieratezza infantile, di cui ognuno di noi conserva almeno un’immagine. Ne La zona di interesse, la madre di Hedwig parla di quel luogo come “il giardino del paradiso”, lei che veniva soprannominata “l’’angelo di Auschwitz”. Era sempre felice quando andava a farle visita lo zio Heine, cioè Heinrich Himmler, che Rudolf fotografava con i bambini sulle ginocchia. Anche per questo, più puntualmente, Rainer, il nipote di Höss, ha parlato di quel muro che divideva la casa del comandante dal Lager di Auschwitz come della “porta verso l’inferno”.
In collaborazione con I Wonder Pictures e I Wonderfull. Guarda il trailer del film qui.