Antonio Moresco

ARTICOLO n. 81 / 2024

DENTRO LO STESSO SOGNO

Un dialogo a cura di Salvatore Toscano

Pubblichiamo un estratto dal volume Dentro lo stesso sogno. Conversazioni (a cura di Salvatore Toscano, Wojtek, 2024) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Salvatore Toscano: Sapreste individuare il momento esatto in cui avete pensato che sareste diventati scrittori? Quando avete capito che nel vostro destino c’era la letteratura? 

Mircea Cărtărescu: Non ho mai avuto un momento del genere, non ho voluto diventare uno scrittore e persino oggi la parola scrittore mi provoca un particolare disagio. La scrittura non è il mio mestiere. Non è nemmeno la mia arte, attiene piuttosto a una sorta di istinto, come quello della sopravvivenza o della riproduzione. Scrivo così come la chiocciola secerne il proprio guscio, o come l’occhio produce lacrime. Mi sento fatto per questo e mi sento inesistente al di fuori di questa attività che devo svolgere, proprio come devo respirare, poiché altrimenti non potrei vivere. Ho scritto versi e prosa attorno ai quindici anni, ma solo dai venti ho scritto in maniera intensa, sistematica, nel campo di forze di una vera ispirazione. Nemmeno allora ho mai pensato di pubblicare. Sognavo, in realtà, di restare un autore puro, che scrive solo per se stesso, poiché persino la semplice pubblicazione di un testo mi sembrava un compromesso. Leggevo poesie e racconti in cenacoli studenteschi, e quei testi sono stati notati da critici letterari e da editori di quel tempo, così ho debuttato con la poesia a ventiquattro anni. Da allora ho tratto dalla mia attività di scrittura, che è in realtà un continuum, una trentina di volumi, ma ancora oggi non mi sento né uno scrittore, né un poeta, né un critico, bensì semplicemente un uomo che scrive, e che continuerebbe a farlo anche se nessuno sapesse più leggere. E persino se restassi solo nell’intero universo. La scrittura non è per me una forma d’arte, ma piuttosto il senso stesso della mia vita. Non scrivo per raccontare agli altri storie, ma per potermi rifugiare nella mia stessa narrazione, come la chiocciola nel suo guscio. 

Antonio Moresco: Una volta sbloccato, dai quindici ai diciannove anni ho letto molto e ho anche scritto molto, tutte cose che ho poi distrutto a vent’anni: poesie, diari, romanzi, racconti, testi teatrali… Intanto però continuava la mia difficoltà ad apprendere ogni altra cosa che non fosse la lingua italiana, gli scrittori e i poeti, e a scuola venivo ripetutamente bocciato e umiliato, i miei compagni andavano avanti e io restavo indietro, eterno ripetente. Però almeno avevo trovato un filo nella mia vita, dei fratelli e delle sorelle, delle persone che ardevano e la cui luce arrivava fino a me attraverso lo spazio e il tempo. Poi mi sono gettato in altre imprese e follie e, per dieci anni, non ho più letto e scritto niente, ho tradito e rinnegato quella parte di me, che mi sembrava una debolezza da cui dovevo separarmi. Ho vissuto randagio in diverse città d’Italia e sono sprofondato nella vita senza cinture di sicurezza, sono andato allo sbaraglio, ho conosciuto persone e mondi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Sulla mia carta di identità c’era scritto: operaio. Ero l’ultimo della fila in mezzo agli ultimi della fila e tale pensavo che sarei rimasto per sempre. Ho lavorato nelle fabbriche, nelle discariche, in officine sottoterra, ho fatto il bracciante, il facchino, sono stato processato più volte e incarcerato. Mi ero abbandonato a illusioni secolari e poi avevo sperimentato quella che il mio amato Leopardi chiama “la strage delle illusioni”. A trent’anni, ritornato a Milano in condizioni fisiche e psichiche difficili, in un monolocale di periferia vicino a un imbocco autostradale, di notte, chiuso nel gabinetto per non svegliare mia moglie e mia figlia che stavano dormendo nell’unica stanza, seduto sulla tazza del water con il quaderno sulle ginocchia, sono nato veramente e finalmente come scrittore e ho cominciato a scrivere ciò che avrebbe visto la luce soltanto quindici anni dopo. Da quel momento la letteratura (chiamiamola così, anche se è una parola insiemistica che non vuole dire niente e che non mi piace) è stata per me l’unica strada nel buio, che non mi potevo permettere di tradire e rinnegare una seconda volta nella mia vita. Perciò sono d’accordo con quello che dice Mircea. Neanch’io mi sento uno scrittore, mi sento qualcosa d’altro che non saprei definire, qualcosa di più e di meno di uno scrittore. Io sono uno con le spalle al muro, per me scrivere, inventare, prefigurare era e continua a essere una questione di vita e di morte, non una professione, un mestiere, una carriera.

S.T. Nel linguaggio religioso si parla del problema della teodicea, cioè della presenza del male nel mondo: che rapporto c’è tra le vostre opere e il male? È ancora viva in voi l’illusione adolescenziale di poter salvare o redimere l’umanità attraverso l’arte? 

M.C. Non ho mai pensato di salvare l’umanità attraverso la mia scrittura, ma semplicemente di scrivere bene. Mi sembra che sia sufficiente. In questo modo salvo almeno me stesso. Per quanto riguarda la presenza del male nel mondo, essa è naturale. Il mondo è un’opera d’arte, come un romanzo. Non è possibile immaginare un romanzo esclusivamente con personaggi positivi. Sarebbe un idillio ridicolo e noioso. Gli esseri umani a tavola hanno bisogno di spezie, di pepe e di peperoncino, e nella vita hanno bisogno di lottare, di soffrire, di sperimentare vittorie e sconfitte, di confrontarsi con le proprie debolezze e i propri difetti, come pure con quelli altrui. Senza la presenza del male non avremmo la sensazione che la vita abbia un senso. Non abbiamo bisogno del paradiso, ma della vita in terra, con il nostro essere fatto di carne, ossa e intelletto. Il male è lì per combatterlo con tutte le nostre forze, per mostrare in tal modo che siamo esseri umani. Salvo che non lo sconfiggeremo mai definitivamente, poiché è radicato profondamente in noi. Non credo che la bellezza salverà il mondo, credo però che il vero, il bene e il bello debbano risplendere da qualunque nostro scritto, per dargli senso e finalità. Tutto ciò che è fatto con amore è sacro, per questo ogni libro dovrebbe avere la drammaticità umana dei Vangeli. Per coloro che scrivono letteratura, ciò significa scrivere bene, senza compromessi, senza pensare “ai frutti delle azioni”, come è detto nella Bhagavadgītā: fama, danaro, premi, recensioni entusiastiche e altri riconoscimenti illusori. Ribaltando la frase di Wittgenstein, “Tutto ciò che può essere detto, può essere detto in modo oscuro, complicato, simbolico, profetico. Su ciò che può essere detto con chiarezza, occorre tacere”. Potrebbe essere questo il motto degli autori che io prediligo.

A.M. C’è, a mio parere, una doppia tentazione per lo scrittore, un doppio piano inclinato e un doppio vicolo cieco: o di usare la letteratura come una cattedra moralistica diventando l’edificante cantore del bene, o di usarla come una cattedra immoralistica diventando l’altrettanto edificante cantore del male. Lo scrittore deve guardare in faccia la Medusa senza farsi pietrificare dal suo sguardo. Ma se uno scrittore non ha il coraggio di andare vicino al male, che scrittore è? Io credo di andarci vicino, certe volte anche molto o troppo vicino, perché il male di cui è pervaso il mondo deve essere fronteggiato, come hanno sempre fatto – ciascuno a suo modo – gli scrittori e i poeti che amo: Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift, Kleist, Leopardi, Dickinson, Balzac, Dickens, Melville, Dostoevskij, Kafka… Se io mi illudo di poter salvare e redimere l’umanità attraverso l’arte? No, però continuo lo stesso a non darmi per vinto, a sognare, a fantasticare, a delirare, a combattere, anche se non ho speranza.

ARTICOLO n. 101 / 2023

L’ARTE DI ESSERE NATI

conversazione con Marco Marino

Come essere grati

Il racconto di questa conversazione comincia dalla sua fine. Con Antonio Moresco siamo seduti dentro un bar di Piazza Oberdan, a Milano, che si chiama 12oz Coffee Joint: lui ha provato un brownie, io sto bevendo una Coca Zero. Fuori ha cominciato a piovere; noi stiamo parlando di gratitudine. «Capitava ogni due mesi» mi racconta Antonio, «la portinaia mi diceva che a portarli era stata una donna. Ogni volta, lasciava un mazzo di fiori e se ne andava. Aveva provato a trattenerla, a dirle che ero appena rincasato, che sarei stato felice di vederla, ma lei correva sempre via. Dalle descrizioni avevo intuito chi era, e mi chiedevo perché facesse così; prendeva un treno da Vicenza, arrivava in stazione, passava a comprare quei fiori, li lasciava in portineria per poi ritornare subito in stazione».

La donna di cui parla è Alessandra Saugo, l’autrice di Come una santa nuda (Wojtek Edizioni, 2023), da cui gli ho appena letto ad alta voce un breve brano: «John? E la gratitudine? Basta niente che sento venire su la gratitudine. Succede anche a te? A me ma proprio un fenomeno travolgente, invade tutto, si dilunga, permea». Era stato Antonio ad aiutarla a pubblicare il suo primo romanzo, Bella pugnalata (Effigie, 2010), uno dei tanti manoscritti portati dal vento. Lo aveva travolto una scrittura da vera erinni della letteratura, sulla pagina esplodeva di quella «grazia violenta» propria delle figure tragiche di Eschilo: era impossibile restarle indifferenti, ma soprattutto era ingiusto che la forza della sua nuova lingua continuasse a restare nell’ombra, tristemente sepolta dai rifiuti editoriali. Dopo quella pubblicazione, però, la vita letteraria di Alessandra Saugo non raggiunge il successo sperato, continua il travaglio delle sue pubblicazioni e l’indifferenza dei grandi editori, che la confinano in un angolo sempre più oscuro e silenzioso, di cui adesso si trova traccia solo tra le righe dei suoi diari («John, il rumore del mondo… I soloni concionanti nei festival culturali. Gli scrittori parlanti. I pensatori di grido. John, non ce l’ho fatta. E sai, la vera saggezza è starsene fuori dal mondo senza inacidire»). Muore nel settembre del 2017, all’età di quarantacinque anni, per un tumore incurabile; Antonio non ha mai smesso di occuparsi della sua opera. 

Come eludere la mistica del fallimento

D’altronde, nelle Lettere a nessuno (Mondadori, 2018), in cui registra in forma epistolare i sentimenti di rabbia, frustrazione e miseria per i suoi quindici anni di rigetto, il vero crimine che l’autore degli Esordi condanna è il crimine dell’indifferenza: è l’indifferenza il peccato originario che ci ostacola dall’accorgerci dell’altro, capirlo, farlo nostro. «Anche io ho avuto una lunga rincorsa… Di quei lunghi quindici anni non voglio farne, però, una mistica del fallimento o un titolo di merito. Non mi piaceva la letteratura a me contemporanea ed essere rifiutato, all’inizio, per me era un dramma. Eppure, sono sopravvissuto, e sono sopravvissuto pensando che quel rifiuto fosse un dono, perché non essere accettato mi ha permesso di stare ancora più vicino a me stesso, di coincidere totalmente con me stesso e la mia scatola nera. Di fare, di quella buia coincidenza, scrittura». Ci sono alcune stelle fisse nel suo cammino, una letteratura privata di parole che legge e continuamente si ripete, che gli restituiscono un senso di fratellanza, un’idea di patria in cui essere accolto: Dostoevskij che nei Fratelli Karamazov dice che negli eccentrici si trova il midollo dell’universo; Cristo che nel Vangelo di Matteo parla della pietra scartata che diventa la pietra angolare «meravigliosa ai nostri occhi»; Van Gogh che nelle sue lettere al fratello Theo confessa la sua crescente diversità dal resto del consesso umano. «Non potevo sentirmi solo; avevo dei fratelli e delle sorelle, in tutte le epoche e in tutto il mondo, di cui condividevo la fiamma: in loro stavo e vivevo». 

E infine, dopo il dono della rincorsa, arriva lo slancio e il volo. Nel 1998 Feltrinelli pubblica Gli esordi, che comincerà una trilogia completata poi con Canti del caos (2009, Mondadori) e Gli Increati (2015, Mondadori). Già dai titoli è possibile desumere la centralità, per Antonio, del tema della nascita, del cominciamento, del principio. «Il mio lavoro si muove molto attorno al binomio genesi/genetica: due spazi apparentemente diversi, uno spirituale, l’altro biologico, in cui spesso si crede che i giochi siano già stati fatti. A un certo punto veniamo al mondo, accade e basta, e per molti la loro storia finisce nel momento in cui è iniziata. Eppure, il nostro patrimonio di cellule è la prova del contrario, che la vita, nel momento in cui esordisce, è un continuo processo di trasformazioni, la creazione è un’azione in cui non si estingue mai il dinamismo: le nostre cellule mutano ripetutamente, muoiono e risorgono, ricreano tessuti, ridanno vita. Sono d’accordo con i lettori che hanno usato l’idea di “staminalità” per parlare della mia visione, la forza di queste cellule equipotenziali è la forza della creazione che si dissemina in tutte le espressioni dell’umano».

Come vincere la morte

In che modo, dove prende luogo questa staminalità, sono le domande che gli rivolgo, quasi interrompendolo. «Innanzitutto, bisogna avere coscienza di un fatto imprescindibile: essere vivi. A tutti quelli che mi accusano di essere un vitalista, rispondo sempre di accontentarmi di essere un vivente. Se lo consentono… Se non lo consentono, resto vivo lo stesso». E poi? «Bisogna riuscire a sbalordirsi. Lo sbalordimento è, più o meno, tutto. Molti si proclamano disincantati; ecco, io invece sono incantato. Se non sei incantato, non puoi vedere il mondo; se non eserciti l’incanto non sperimenti la vita. Se lo vedi con incanto, tutto ciò che coglie il tuo sguardo ti ritorna con una risoluzione incredibile, e ogni evento assume un senso di novità inaudita. Pensiamo alle migrazioni dei popoli. Bisogna osservarle come qualcosa di epocale, come uno stravolgimento per cui non servirà un muretto qualsiasi né le tecnologie del momento, non servirà qualcosa che separa, scherma e dà l’impressione di proteggerci. Quel movimento di corpi è la vita stessa. Accorgerci della vita significa vincere la morte». Non mi resta che chiedergli come questo diventa, poi, scrittura. «Me lo sono chiesto a lungo: come hai fatto a stare dentro la trilogia per 35 anni? Perché mi ingannavo? Perché avevo quella sapienza?». In che senso, ingannarsi? «Sì, ingannarmi era diventato l’unico metodo possibile per scrivere, se non mi fossi ingannato non ce l’avrei mai fatta a scrivere Gli esordi. Come ti dicevo, avevo bisogno di vedere il mondo, di raccontarlo a modo mio. Ma avevo iniziato ad avere delle forti crisi. Pensavo che non ce l’avrei fatta, spergiuravo, rivolto non so a chi, di farmi finire, che dopo avrei smesso di scrivere. Poi mi sono imbarcato nel secondo libro, e con lui sono sopraggiunti i problemi cardiaci, i medici mi dicevano di smettere. Io, però, ho sempre proseguito».

Come rompere lo specchio

Mentre Antonio parla, io sfoglio Diario del caos (Wojtek, 2022), preziosa raccolta di appunti di lavorazione tra il primo e il secondo libro, tra Gli esordi e I canti del caos. Tutto sembra chiaro dentro questo vortice di pensieri, tutte le vite e le forme evocate trovano la loro ragione. A proposito di vite e di forme, e quindi di nomi e di titoli (anche i libri sono esseri viventi, no?), costante ossessione dell’autore, leggiamo nel Diario: «Oppure, per il titolo, un nome che stia a indicare (o possa potenzialmente farlo) una nuova “forma” che non è più né romanzo né poema né raccolta di racconti, ecc… (Ma non potrebbe essere questo, appunto, Il caos?)». Una semplice nota come questa può divenire paradigma per una ciclopica idea di letteratura? «Sì, la letteratura sicuramente supera le forme che evocavi. Credo che la letteratura sia una cruna, un passaggio, sia quel qualcosa che rompe lo specchio della realtà o presunta tale. Sono due momenti che provo a chiarire: alla letteratura non interessa farmi perdere tempo; la letteratura mi sposta, mi porta dove prima non ero. Ma perché la letteratura divenga passaggio, deve prima rompere lo specchio, come nell’incipit della Metamorfosi di Franz Kafka, devi alzarti come essere mostruoso per accorgerti davvero di chi sei, del tuo corpo e del tuo mondo: quella è la rottura dello specchio, e allora anche il passaggio, il nostro ineludibile spostamento».

Fuori dal bar la pioggia cade giù sottile; entrambi dobbiamo lasciare il nostro tavolino e ritornare ai rispettivi impegni, la metro ingolfata di gente, Milano che corre, la paura per me di non riuscire a vedere come vede Moresco, di vivere come vive Moresco. Di non riuscire ad assumermi un rischio così sublime.

ARTICOLO n. 34 / 2023

LETTERA A GIORGIA MELONI

Cosa si può scrivere oggi sul 25 aprile che non sia la solita riaffermazione impettita e retorica dei valori della esistenza, che non incide più, non è più proporzionale al nostro inquietante presente, dentro il quale ci sarebbe invece bisogno di scaraventare, nuda e cruda, questa ferita che ancora sanguina e che chiama a una resistenza ancora più tridimensionale e più grande?   

Rimuginavo dentro di me questi pensieri, in vari momenti della mia giornata, anche mentre camminavo di notte e persino mentre ero a letto sveglio, e mi venivano in mente mille diverse idee e ispirazioni, perché all’inizio avrei voluto parlare del 25 aprile in modo sghembo, diagonale. Ad esempio, mi era venuto in mente di far dialogare tra di loro due cani che avevano seguito scodinzolando eccitati la fiumana dei liberatori nelle vie di Milano, oppure che si erano trovati sotto i cadaveri a testa in giù a Piazzale Loreto. O addirittura di far parlare i cadaveri a testa in giù, tra di loro o magari con un animale, un cane, un uccellino, far parlare un uccellino con il testone capovolto di Mussolini. Oppure di mettere in relazione narrativa il 25 aprile con qualche avatar da me particolarmente amato: Don Chisciotte, Pinocchio, la piccola fiammiferaia, lo scarafaggio di Kafka… 

Queste e altre cose mi passavano per la mente. E forse ne sarebbe venuta fuori una cosa bella e originale. Però c’era qualcosa dentro di me che desiderava parlare del 25 aprile in modo più implicato, magari scomodo, rischioso, ma personale, diretto, senza abbellimenti. Così mi è venuto in mente di scrivere una lettera scorticata e aperta, e all’improvviso, d’istinto, ho pensato di indirizzare questa lettera a Giorgia Meloni.  

Cara Giorgia Meloni,

ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza in mezzo a fascisti. Mio padre era un militare fascista, che è stato fatto prigioniero in Libia e ha passato sei anni in campi di prigionia in India. È tornato a casa con forti problemi psichici e di alcolismo ed è stato internato in due diversi manicomi militari. Ho passato la mia infanzia a vedergli massacrare mia madre e ho ancora negli occhi l’immagine del suo corpo trascinato per terra e nelle orecchie le sue grida da animale scannato. Ogni tanto usciva dal suo mutismo e raccontava del suo trasferimento con gli altri prigionieri dalla Libia all’India, di quando, ammassati su un camion scoperto, passavano sotto un ponte del Cairo e gli arabi gridavano dall’alto “fascisti” e “Mussolini” e poi “si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso”. Tutto questo per dire che sono stato attraversato da parte a parte, non in modo astratto ma viscerale, da questa spaventosa tragedia e che riesco persino a comprendere tutta la disperazione e il blocco emotivo e mentale dei vinti.  

Il fratello di mio padre, mio zio Demostene, era comunista. Era sotto sorveglianza dell’OVRA, era stato arrestato più di una volta ed era infine emigrato in Brasile, dopo essere stato minatore in Belgio e in Istria, da dove, pur essendosi dichiarato comunista internazionalista, era dovuto fuggire per non venire gettato nelle foibe. Però era stato lui che, quando mio padre fu dichiarato disperso, aveva fatto ricerche attraverso la Croce Rossa e aveva scoperto alla fine che era vivo e prigioniero in India. È stato il fratello più amato da mio padre, e viceversa, forse perché tutti e due, ciascuno a suo modo, avevano sperimentato una leopardiana “strage delle illusioni”… Tutte cose che ho raccontato in un libro sulla storia della mia famiglia, intitolato I randagi.

Vivevo in una casa di nobili, perché mia madre, poco più che bambina, spinta come gli altri suoi fratelli alla diaspora dalla miseria della propria famiglia contadina, era andata a bussare alla porta di una grande villa di nobili che c’era nelle vicinanze (quella di San Prospero che si vede in Novecento di Bertolucci) ed era rimasta per tutta la vita con loro, come domestica e poi quasi-figlia. Mio nonno (lo chiamavo così anche se non era veramente mio nonno) votava per il partito monarchico (che alle elezioni si alleava con l’MSI). Però non perdonava a Mussolini di avere istituito la tassa sul celibato, che lui – non sposato e senza figli – era costretto a pagare.

Il mio amico di infanzia e di adolescenza era uno dei figli di un’altra famiglia di nobili che abitavano nel nostro stesso cortile. Era fascista anche lui e una volta, per cercare di convertirmi, mi aveva portato nella sede mantovana del MSI (il MIS, come veniva chiamato allora) dove, a un certo punto, un vecchio laido aveva aperto un baule e tirato fuori il suo antico manganello, tra le risa compiaciute degli altri.   

Alcuni anni dopo, quando ormai avevo preso la strada di mio zio Demostene invece che quella di mio padre e prima di sperimentare anch’io la mia “strage delle illusioni”, in una piccola prigione di transito dell’Oltrepò pavese, prima di entrare nella mia cella e di buttarmi sopra il paglione, un ragazzo della cella vicina mi aveva rivolto la parola con gentilezza. Mi aveva detto di essere fascista ma di sapere chi ero e di essere stato a lungo indeciso se andare dalla mia parte politica oppure dall’altra, perché poteva succedere che, nei ragazzi, queste scelte fossero dettate non da convinzioni lungamente maturate ma anche da suggestioni momentanee, superficiali, comportamentali, emotive, a fare la differenza bastava magari un incontro casuale, un amico ammirato, un ragazzo o una ragazza che affascinavano. E poi questo ragazzo mi aveva allungato un romanzo da leggere, perché potessi distrarmi un po’ nelle mie prime ore da prigioniero. E io allora avevo pensato: “ma guarda, se noi due ci fossimo incrociati in una manifestazione ci saremmo avventati l’uno contro l’altro, mentre adesso che siamo tutti e due nella stessa condizione…” 

E adesso, molti anni dopo, mi dico che forse faceva gioco a qualcuno mettere una parte della mia generazione contro l’altra, che mentre si mandavano avanti dei ragazzi fanatizzati quelli che, dietro, comandavano veramente erano sempre gli stessi, come forse sta succedendo anche adesso, in un momento in cui siamo di fronte a emergenze mai viste prima, addirittura di specie. E invece siamo continuamente rigettati all’indietro mentre dovremmo fare un inconcepibile passo in avanti e inventare e reinventare le nostre vite. Siamo riportati alla paura dell’ignoto e dell’aperto, all’illusione di poter fermare, esorcizzare e pietrificare il mutamento con degli editti, all’irresistibile inclinazione per ciò che vi è di più autoritario e retrivo, veniamo riportati a Dio Patria e Famiglia, a una idealizzata famiglia tradizionale, al bambino che deve avere il suo bravo papà e la sua brava mamma, come se questo fosse il paradiso, e io l’ho sperimentato questo paradiso! Mentre avvengono continue stragi nelle famiglie, mentre si sa che le famiglie sono piene di dolore, come d’altronde possono esserlo anche altre forme di aggregazione umana, nessuna esclusa. Dobbiamo assistere alle parole ipocrite di persone che vivono in tutt’altro modo ma che recitano queste giaculatorie perbeniste alle confuse e spaventate moltitudini trattate come nuove plebi da abbindolare con delle semplificazioni, dei simulacri. E poi… un Dio a cui non credono ma di cui ostentano in modo grottesco i simboli religiosi, l’esasperazione delle identità, la Patria e i suoi presunti custodi, che già tanti disastri ha provocato nel nostro recente passato e che nulla ha a che vedere con il vero amore per il proprio Paese, la propria cultura e la propria lingua, che anch’io, come uomo e come scrittore, sento profondamente. L’idea, l’illusione di potersi rinchiudere in un rassicurante orticello nazionale, in un mondo sovrappopolato e interconnesso e di fronte a una sfida di specie che dovrebbe unire piuttosto che dividere gli umani e chiamarli a una grande invenzione. E gli uni abbaiano, e gli altri abbaiano, e così tutti sono costretti ad abbaiare, mentre ci sarebbe invece bisogno di silenzio, di silenzio e ardimento. Durante uno dei miei cammini, in Sicilia, un branco di cani randagi ci aveva affrontato, e i cani che stavano davanti, in prima linea, erano quelli che abbaiavano più forte, fin quasi a strozzarsi, e sembravano sempre sul punto di avventarsi contro di noi per sbranarci. E allora un altro camminatore che se ne intendeva di cani mi aveva detto: «lo vedi, uno può pensare che il capo sia uno di quelli che stanno davanti e che abbaia di più, ma il capo del branco è quello là dietro, che se ne sta zitto, immobile». E infatti, a un certo punto, quello zitto e immobile si è girato e se ne è andato in silenzio, e allora gli altri cani hanno smesso improvvisamente di abbaiare e l’hanno seguito a loro volta in silenzio.    

E così arrivo alla seconda parte di questa lettera.

Cara Giorgia Meloni,

lei si trova a capo del Governo il nostro Paese, proiettata e legittimata da elezioni che ha stravinto. Ha la responsabilità e l’onore di dirigere questo Paese fratricida e perennemente incompiuto, però capace a volte di invenzione, di fervore, di scatto. Un Paese che si trova a condividere con altri paesi europei un sogno continentale di cui è stato uno degli ispiratori, il sogno di un continente boreale composto di nazioni che si sono combattute per migliaia di anni e che adesso, dopo le tragedie causate nel Novecento dai nazionalismi esasperati, dalle tirannidi e da due guerre mondiali nate sul suo territorio, pur con tutti gli egoismi, ritardi e zavorre, ha imboccato una via controcorrente, trascendente, esemplare a livello mondiale, prefigurativa. Tutto questo in un momento in cui sempre nuove tirannidi piccole e grandi stanno crescendo come tumori in ogni parte del mondo, con il loro consueto portato di guerre, deliri nazionali e imperiali che ci riportano continuamente indietro e che non possiamo più permetterci, come specie che si è autoproclamata la più intelligente e che invece si sta dimostrando la più stupida, cieca, folle e suicida, che sta distruggendo le condizioni stesse della propria vita. Com’è possibile che in un momento simile, tra le mille identità su cui i potenti o presunti tali fondano il loro breve potere e il loro divide et impera, non se ne cominci ad affermare anche una nuova, di specie, di una specie che si trova a vivere nello stesso irripetibile habitat, sulla stessa zattera planetaria sperduta tra le galassie, insieme ad altre specie viventi interconnesse, vegetali, animali?  

Come si può, in un simile contesto e passaggio d’era, non avere coscienza che, senza liberarsi del retaggio di radici come quelle di cui la sua parte politica è ancora emanazione, non ci sarà futuro? Lei mi dirà che c’erano al mondo altre tirannidi oltre a quella nazista e fascista, come quella dell’Unione Sovietica di Stalin che, essendo stata invasa dalle orde naziste e avendo pagato per questo un prezzo altissimo, ha potuto mettersi nella schiera dei liberatori e dei “buoni”. Sì, però l’altra parte politica da molto tempo si è liberata di questi retaggi, ha strappato queste radici. Ha visto quale catastrofe, dietro la maschera delle palingenesi ideologiche, è avvenuta nell’URSS, ne ha tratto le conseguenze e fatto tesoro. Noi abbiamo ascoltato e accolto le terribili verità che ci hanno raccontato i testimoni di quella spaventosa servitù volontaria, quello che ci hanno raccontato Šalamov, Vasilij Grossman, Solzenicyn, Bulgakov, Nadežda Maldel’štam… E voi, che pure dovreste sapere cosa hanno combinato Hitler e Mussolini? Non sembra proprio, ad ascoltare le dichiarazioni di uomini della sua parte politica. Quanti ripostigli segreti, quante ambiguità, quanti doppi fondi, quante “sgrammaticature”, ma tutte sempre in un’unica direzione! Era sembrato, con la svolta di Fiuggi, di cui anche lei ha fatto parte, che foste capaci di una ripulsa netta e senza ambiguità del fascismo, ma poi avete intorbidito le acque, dando l’impressione di avere fatto marcia indietro. E anche lei… quanta ambiguità, elusività, reticenza, quanti opportunistici arrampicamenti sugli specchi, quanti italici contorcimenti! Lo so, lei deve tenere insieme i pezzi del suo mondo arrivato al potere, compreso il suo zoccolo duro elettorale, perché anche lei, nella migliore delle ipotesi, è imprigionata dentro la stessa ragnatela che ha contribuito a tessere e non può e non ha il coraggio di lacerarla, di liberarsi e di nascere. Anche se avete giurato sulla Costituzione – antifascista e repubblicana – e quindi qualcuno potrebbe persino dire che siete, tecnicamente, degli spergiuri.

Lei mi dirà: “Povero idiota, e chi me lo fa fare di recidere nettamente queste radici, di non riproporre la paccottiglia nazionalista e clericofascista visto che elettoralmente sta funzionando, che il vento sta girando da questa parte, e non solo in Italia? E poi, cosa credi, nessuno sega il ramo su cui è seduto!” E io le risponderei: “Certo, ma quel ramo è marcio! Sì, certo, lo so, il potere ha un orizzonte breve, non gli interessa il domani, non vede una spanna al di là del proprio naso. E per un po’ vi andrà bene così, ma verrà il momento in cui questa illusione regressiva e questa sproporzione tra i bisogni e desideri umani in questo passaggio d’era e le vostre depistanti, ottundenti ricette diventerà insostenibile, e allora anche voi verrete travolti”. 

Credete di rifarvi una verginità dicendo che siete dalla parte degli ebrei sterminati e che le leggi razziali sono state una vergogna, credete di poter separare questo indicibile orrore da tutto il resto e dall’humus politico e ideologico da cui è sorto. Ma non si può separare questo immane crimine dalla complicità attiva di Mussolini e del fascismo, dalla collaborazione nei rastrellamenti, nelle delazioni, nelle deportazioni, nelle stragi. Io ho camminato lungo un sentiero impervio che va da Pietrasanta a Sant’Anna di Stazzema, e c’era con me anche un uomo la cui nonna era stata assassinata. Ho camminato passo dopo passo sullo stesso identico sentiero che avevano percorso i soldati delle SS saliti a compiere quella terribile strage, mentre era ancora buio, prima dell’alba, con le armi leggere e anche quelle più pesanti che non so come abbiano fatto a trascinare là sopra, e c’erano con loro anche dei fascisti della RSI che facevano da informatori e da guide ai nazisti. Salivano tutti in silenzio, prima di arrivare in cima, di irrompere in quel piccolo paese con le sue case disseminate e di sterminare la sua popolazione, tutti, 560 persone, di cui 65 bambini, persino una neonata di venti giorni. E così in diversi paesi poco distanti, come Vinca e altri, centinaia di persone sterminate, mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme… Non c’è niente da fare, il pacchetto è lo stesso, non si possono separare fascismo e nazismo, non si può prenderne una parte e pretendere di scartare l’altra, non si possono prendere per buone le mistificazioni ideologiche e le chiacchiere e pretendere di separarle dagli orrori, perché le due cose sono strettamente connesse, sono una cosa sola.  

E allora, a questo punto, domando, a lei ma anche e soprattutto ai più catafratti della sua parte politica: che cosa c’è nel fascismo che a molti di voi sembra ancora da ammirare e salvare, tanto da non riuscire a liberarvene? Che i treni arrivavano in orario? Le bonifiche? L’edilizia popolare? Ma anche Hitler poneva molta attenzione all’aspetto sociale, e infatti il suo partito si chiamava nazionalsocialista. E lo scrive ripetutamente nel Mein Kampf, che il suo partito non doveva mai perdere di vista questo aspetto, che doveva presentarsi come il paladino degli interessi popolari, legando a sé il popolo per dominarlo, fidelizzarlo e trascinarlo poi verso le sue deliranti e criminali imprese. Ma cosa c’era sull’altro piatto della bilancia? Il nazionalismo esasperato, il delirio razziale, le guerre di aggressione, il rogo dei libri, l’arte degenerata, la disumanità, l’antisemitismo, l’orrore assoluto e la profanazione dei Lager… 

E in Mussolini cosa mai vi può ancora piacere e affascinare? continuo a chiedermi. Che cosa, che cosa? Non so a lei ma di sicuro a molti di voi. Il trasformismo? La prepotenza? Il bullismo? Ma non vi viene da ridere quando vedete la sua grottesca figura con i pugni sui fianchi, che digrigna i denti? Ci vuole così poco per abbindolarvi? Oppure vi affascinano la cancellazione delle libertà politiche, le stesse di cui avete usufruito voi dal dopoguerra a oggi, oppure il suo conigliesco usa e getta delle donne, o forse gli assassini degli avversari politici, lo spaccare la testa a bastonate agli oppositori, l’umiliarli dando loro da bere dell’olio di ricino, il suo cinico “ci servono qualche migliaia di morti per sederci da vincitori al tavolo della pace”, il patto con il massacratore industriale del popolo ebraico? Come fate a convivere, anche solo in minima parte, con un simile orrore? Cosa può esserci di questo schifo che ancora vi piace e vi affascina? Siete così bloccati, così non cresciuti da non riuscire a liberarvi di questo schifo e ci avete costruito sopra la vostra identità? Siete mentalmente così servi che avete bisogno di un padre cattivo da idolatrare perché possa dare anche a voi il permesso di essere dei padri cattivi? Siete così spaventati e frustrati che avete bisogno di identificarvi a tal punto con l’aggressore?

“Povero idiota” lei potrebbe rispondermi ancora, “io sto facendo un gioco politico grosso, e per fare un simile gioco c’è bisogno di attrarre non solo pezzi di mondo politico precedente sempre in cerca di un nuovo padrone ma anche masse di scontenti, incattiviti, frustrati, che hanno sempre bisogno di dare le colpe a qualcun altro, e allora c’è bisogno di un collante ideologico per poter attirare e galvanizzare queste variegate masse di elettori, c’è bisogno di agitare soluzioni semplici, non importa se strumentali, ma che le possa capire anche un bambino.” D’altronde lo avevano detto chiaro e tondo Berlusconi e anche Trump, che bisogna parlare agli elettori come si parla a un bambino di sette anni, mostrando così tutto il loro disprezzo per le loro stesse moltitudini elettorali blandite.

Ce lo aveva spiegato bene Dostoevskij, come anche altri, che gli uomini hanno paura della libertà, che hanno bisogno di sbarazzarsi del fardello della libertà, che sono portati al servilismo e all’idolatria, a vendere l’anima a chi permette loro di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà, che hanno bisogno del miracolo, dell’autorità. Perché si paga sempre un prezzo, un prezzo molto alto, per la propria libertà. È più facile, è più “naturale” essere servi che liberi, tanto più quando si spera di ricevere una ricompensa per il proprio servaggio. Meccanica che funziona non solo nel suo campo ma in ogni campo, compreso quello culturale, e io lo so bene per averlo sperimentato di persona. E lei, in questi primi mesi in cui detiene il potere starà assistendo sicuramente allo strisciare servile o infido di chi ha imbarcato o che potrà in futuro imbarcare, perché le persone, si sa, hanno la tendenza a saltare sul carro del vincitore. Spettacolo che forse, spero, la disgusterà. 

E ce lo aveva spiegato bene anche Tolkien come funzionano il potere e lo stregamento del potere. Voi dite di amare il Signore degli anelli, ma cosa avete capito del Signore degli anelli? Del suo fiabesco e implacabile svelamento dei meccanismi del potere e della fascinazione del potere, del bisogno di resistere e di combattere per la libertà dal dominio e dalla fascinazione della tirannide del potere volto al Male? Una battaglia incerta fino all’ultimo istante e in cui non si sa mai se si vincerà o se si perderà, però non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere. Cosa c’entrate con la lotta per liberarsi dal potere malefico dell’anello, voi che avete appena afferrato l’anello e ve lo tenete ben stretto, non vi passa neanche per la testa di gettarlo dentro il vulcano? Cosa c’entrate con Gandalf, con gli alberi che si sradicano, con gli hobbit, gli elfi, i nani?

Che grande leader lei potrebbe essere se trovasse dentro di sé l’indipendenza e l’ardimento per sradicarsi, come gli alberi del Signore degli anelli! Per compiere uno scarto improvviso, da cavallo di razza, per liberarsi della rete di inganni che la proiettano ma la imprigionano! Per traghettare verso un inaspettato e creativo futuro anche il migliore bagaglio della cultura “di destra”, ammesso che si possano operare separazioni di superficie per scrittori, pensatori e poeti che hanno raccontato, indagato e cantato con intensità e radicalità le nostre irripetibili vite e il nostro irripetibile mondo, e che anch’io ho letto, assimilato e amato. E per traghettare anche, attraverso la forza libera dell’esempio, il retaggio di irriducibilità che hanno contrassegnato le vite di interi popoli e di singole e verticali figure: i nativi americani, i sognatori e visionari come Garibaldi, il colonnello Lawrence, Che Guevara…: il coraggio, la sfida, la lotta per la libertà o per quella che ci può apparire o balenare come libertà. Che segno profondo, che ricordo, che eredità indelebile potrebbe lasciare! Lei, come ogni altra persona e vita, se ne andrà, ma potrebbe lasciare dietro di sé, come un interminabile mantello regale, questo segno del suo passaggio nel mondo.

Ma lo so che questo non succederà, che queste sono solo mie illusioni infantili, fantasticherie. Che lei è dentro una macchina, che è trascinata dall’ansia ma anche dall’ebbrezza ascensionale di questa macchina, e che questo taciterà ogni altra voce che può, forse, di tanto in tanto, salirle da dentro, perché lei è nello stesso tempo ammaliatrice e ammaliata, giocatrice e giocata.

E allora…

VIVA IL 25 APRILE
VIVA LA RESISTENZA

ARTICOLO n. 2 / 2021

Fiaba virale

C’era una volta un dio crudele che scese sulla terra e si incarnò in un virus.

C’era una volta un dio pietoso che scese sulla terra e si incarnò in un virus.

Meglio sarebbe dire che si invirò.

Non era la prima volta che scendeva su quel pianeta. La prima volta lo aveva fatto incarnandosi in un umano. Ma gli altri umani lo avevano pestato a sangue e condannato a un’orribile morte. Che poi… se era davvero Dio e nello stesso tempo umano allora voleva dire che gli umani uccidendo Dio avevano ucciso se stessi, che uccidendo se stessi avevano ucciso Dio, voleva dire che potevano uccidere Dio. E allora che Dio era? Ma lasciamo perdere…

E poi ne aveva mandati altri, sotto diverse forme, di artisti folli, persino di personaggi di romanzo e di fiaba: Van Gogh, Don Chisciotte, il principe Myškin, la bambina dei fiammiferi, Pinocchio, lo scarafaggio di Kafka… Ma gli umani non se ne erano neanche accorti, Dio non era riuscito, attraverso di essi, ad aprire i loro occhi, a toccare le loro menti e i loro cuori.

«Questa volta» si era detto «mi incarnerò in un virus, mi invirerò, e allora voglio proprio vedere se finalmente lo vorranno capire che non sono la specie onnipotente che credono di essere, che non sono superiori al resto della natura, che stanno correndo con gli occhi bendati verso un precipizio.»

Però, prima di prendere una simile decisione, aveva convocato alcuni umani morti di cui si serviva certe volte come consiglieri o come avvocati del diavolo.

Che erano: Leopardi, Darwin, Marx, Freud, Nietzsche.

Però, a differenza di altre volte, questa volta erano tutti entusiasti dell’idea di Dio. Le loro voci si accavallavano le une alle altre.

Leopardi: «Buona idea, così gli umani, vivendo continuamente al cospetto della morte, ne avranno sollievo, perché alle mille pene e paure della loro vita e della loro mente se ne sarà sostituita una sola…».

Darwin: «Buona idea, perché la mia teoria della selezione naturale sembra non funzionare con gli umani, infatti sono stati selezionati i peggiori e non i migliori, non i più adatti ma i meno adatti alla sopravvivenza di specie, quelli che stanno distruggendo il loro habitat naturale e le condizioni della loro stessa vita. E così magari ci sarà una bella smazzata di carte…».

Freud: «Buona idea, così trovandosi di fronte alla morte reale gli umani si libereranno della pulsione di morte che li tiene in scacco da molto tempo, si abitueranno a convivere con la morte e a portarne lo stigma, capiranno che la morte è tutta dentro la vita e la vita è tutta dentro la morte, e così non avranno più bisogno di feticizzarla rendendo tutta la loro vita simile alla morte…».

Marx: «Buona idea, perché la prima volta non mi è andata bene con il proletariato, che non è riuscito a portare liberazione e che poi il tardocapitalismo ha trasformato in orde di miserabili oppure di piccolo borghesi fascistoidi e frustrati, e allora questo virus interclassista potrebbe imprimere alle meccaniche produttive una svolta robotica tale da dare vita a un proletariato di robot da programmare per un nuovo assalto al cielo…».

Nietzsche: «Buona idea, ne potrebbe nascere un nuovo oltreuomo virale, una nuova razza superumana passata attraverso la morte e la vita ormai trasformata in morte…».

Dio ascoltava in silenzio, e intanto si diceva: «Io non lo so perché me la prendo così tanto per quella specie perduta».

Però alla fine si era deciso a invirarsi per cominciare così la sua ultima e disperata missione.

E dopo? Cosa successe dopo sul pianeta Terra?

Successe che questo invisibile virus cominciò a diffondersi a macchia d’olio, passando da un corpo umano all’altro e replicandosi attraverso continue variazioni. Gli umani si domandavano da dove fosse nato quell’alieno che stava sbaragliando le loro difese immunitarie e mettendo in ginocchio le loro strutture economiche, politiche, culturali, che stava prendendosi gioco della loro stupidità e arroganza, che stava mostrando la miseria della loro presunta superiorità sul resto della natura e del mondo. Cercavano la sua origine nei laboratori, nei corpi dei pipistrelli e di altri ripugnanti animali, dappertutto meno che nella mente di Dio. Non passava loro neanche per la testa che quel virus potesse essere nato nella mente di Dio, che quel virus fosse Dio.

Vivevano rintanati nelle loro case, andavano in giro con i volti coperti da maschere, si lavavano e si disinfettavano le mani cento volte al giorno per mandare via il virus di Dio, che li aveva posti di fronte a uno specchio. Le loro città erano silenziose e vuote, la morte aleggiava sulle loro vite. Erano tutti al cospetto della morte, erano tutti al cospetto della vita.

Però alla fine gli umani riuscirono a fabbricare un vaccino di tipo nuovo, in grado di andare a snidare e combattere questo virus divino fin negli abissi genetici e chimici della vita, e a poco a poco riuscirono a sgominare le divine legioni di molecole replicanti che avevano preso possesso dei loro corpi.

Ci volle del tempo, ma si arrivò infine all’ultimo contagiato e all’ultimo virus.

Adesso Dio era completamente solo: unico e solo.

«Lo sapevo che sarebbe finita così…» si diceva l’ultimo, quintessenziale virus divino mentre veniva aggredito da ogni parte e stava per disattivarsi: «Chissà se il mio sacrificio sarà almeno servito, questa volta, a differenza delle altre volte, o se gli umani continueranno a correre verso il loro precipizio di specie senza cambiare niente, senza imparare niente. Chissà se riusciranno a inventarsi una nuova vita o se riprenderanno quella di prima, la stessa identica che li ha portati in questo vicolo cieco?».

E poi, siccome si vede che conservava memoria delle sue passioni e morti precedenti, nelle figurazioni che si sovrapponevano a lampi e si confondevano in lui nel delirio a ritroso che precedeva la fine, continuava a pensare o a fantasticare:

Passione e morte del virus

«Non ci sono più le mie legioni virali… Dove sono andate a finire le mie legioni? Legioni? Ma le legioni non erano quelle del demonio? Allora che io sia il demonio? Sono Dio o sono il demonio? Forse, al punto in cui siamo, io e il demonio abbiamo dovuto raccogliere le nostre forze, riconciliarci, dopo questa lunga, terribile, inutile ed estenuante guerra che non poteva avere vincitori. Perché io ho portato la morte e non la vita, per portare la vita ho dovuto portare la morte. Perché lui che doveva portare la morte ha portato la vita, per portare la morte ha dovuto portare la vita. E adesso cosa sta succedendo? Dove sono? Cosa sono diventato? Chi sono? Che cosa sono tutte queste zampine che si muovono a raggiera fuori dal mio controllo? Che cos’è quel suono di violino che mi rapisce e sconvolge e che cerco di andare ad ascoltare da più vicino senza farmi vedere, nascondendo dietro la porta il mio ripugnante corpo di Dio insetto? E non c’è più il sole… Dov’è finito il sole? Dove sono finite le stelle? Dove sono finiti i miei cieli in fiamme? Me li sto mangiando, sto ingurgitando i colori con i quali li avrei mostrati al mondo… E allora che fine farò, dove andrò adesso che tutto sta precipitando e sparendo? Dove andrò con il mio divino corpicino di legno da burattino? Verrò bruciato anch’io in un enorme falò insieme a tutti gli umani, in quei cieli in fiamme? O sono già stato mangiato insieme ai colori del fuoco e del mondo? Dove sei, mio principe burattino che mi tenevi compagnia nelle notti in cui ero sola e con i piedini nudi, nel gelo, con il mio povero mazzetto di fiammiferi che accendevo uno dopo l’altro per aprire una visione nella loro breve luce e riaprire il mondo? Ah, ecco, sono arrivata alla fine, questo è l’ultimo dei miei fiammiferi… Lo accendo. Oh… che visione è questa? Cosa stanno vedendo adesso i miei occhietti gelati, nella sua luce? Che cos’è questa caverna buia piena di cavalieri e di altre nobili figure che vagano nell’ultramondo? E adesso che cosa vedo? Ecco… sto vedendo me stesso sulla croce. Sono un virus in croce. Si era mai vista una cosa simile? Come ho fatto a finire su questa croce? Ma… cosa sta succedendo ancora? Non è come l’altra volta. Non ci sono più quei due ladroni vicino a me. Perché non ci sono più quei due ladroni virali? Non c’è più nessuno. Tutto il cielo è nero. Mi pare di scorgere solo, sotto di me e sotto questa croce, al posto di quelli che c’erano l’altra volta: soldati armati di lance e con l’elmo dal sottogola slacciato per il caldo, apostoli terrorizzati, donne scarmigliate e piangenti… un ridicolo cavaliere con una bacinella da barbiere in testa, un giovane principe epilettico che trema e che si contorce, con la bava alla bocca, un burattino di legno, una bambina con un fiammifero che si sta spegnendo, un uomo con le lacrime agli occhi e con la bocca blu e gialla come di chi abbia appena ingoiato dei colori e li stia rigurgitando, un impressionante insetto gigante che solleva verso di me le sue file di zampette anteriori e le sue lunghe antenne vibranti… Oh, Dio mio, perché mi hai scaraventato nel mondo sotto forma di un virus e poi mi hai abbandonato? Ecco, adesso è davvero la fine. Mi sembra ancora di vedere, anche se non ho gli occhi, un burattino che all’improvviso solleva verso di me le sue sottili braccine. Mi sembra ancora di sentire, anche se non ho le orecchie, un rumore assordante e secco in tutta questa desolazione. Sono le sue manine di legno che stanno battendo l’una contro l’altra, con forza, per applaudirmi fino alla fine dei tempi in questo spaventoso silenzio chimico.»

— Published by arrangement with The Italian Literary Agency