Andrea Moro

ARTICOLO n. 66 / 2024

LA DEGLUTIZIONE

Pubblichiamo un’anticipazione da Cinquantun giorni (La nave di Teseo), il nuovo romanzo di Andrea Moro in libreria dal 17 settembre

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” A questo stava pensando Pietro Raphèl, uomo di pochi libri, mentre, ostinatamente, ma invano, con la punta della lingua cercava di spostare Dio dal palato.

Per quanta saliva le mucose producessero, il Verbo, sustanziato nell’ostia, se ne stava appiattito e appiccicato in quel punto esatto nel quale il palato si inarca sensibilmente, poco prima che l’osso finisca e inizi la parte molle, dove normalmente per qualche istante sosta il cibo prima che il movimento ascendente e retrogrado della lingua, seguito da una contrazione della faringe, lo accompagni nel tubo dell’esofago. “Ci si sporca di più a nascere o a morire?” ripeté cercando di ignorare quell’ingombro fastidioso ancorché sacro e si rese conto di come quella domanda fosse per lui ineludibile, dopo quello che nei cinquantun giorni precedenti la vita gli aveva riservato. Certo, gli era già capitato di provare vergogna, di sentirsi giudicato per come appariva: per quel taglio di capelli esagerato, per non aver detto la cosa giusta alla cena importante, per non essere all’altezza delle aspettative dei colleghi, per quel particolare del suo corpo che più cercava di nascondere più gli pareva attirare l’attenzione di tutti. 

Ma quelle erano vergogne puntuali, intermittenti semmai, come ponfi di zanzare estive: prima intensi, poi scemano, poi rincalzano arrossendo e poi svaniscono come sono venuti. Ora invece la vergogna l’aveva inzuppato tutto; inghiottito, fagocitato: non si salvava niente di lui e senza intermittenze. Cosa aveva fatto di male per provarla, per sentirsi così irrimediabilmente sporco, dall’inizio alla fine?

Chiuse gli occhi e rimase inginocchiato mentre l’incenso e il silenzio si miscelavano nell’aria fredda della chiesa e ricadevano densi, oscillando come piume, sul legno delle panche allineate nella penombra di quel piccolo edificio barocco, nascosto nel centro di Milano, quasi deserto, dove un prete giovane si preparava a impartire la benedizione alla fine della messa.

Pietro Raphèl si era trasferito a Milano ben prima di quell’ottobre del 1978. Arrivò che era poco più di un ragazzo con la sua prima scrittura teatrale e una valigia piccola di pelle scura, regalo del padre. La sua ascesa come principe del palcoscenico fu inarrestabile e rapida ma non del tutto imprevista, almeno non in cuor suo: la sua capacità di rendere credibile ogni battuta, modulando l’intonazione delle frasi in modo che sembrassero sgorgare spontanee dalla mente, come fosse la prima volta che venivano pronunciate, senza mai una ripetizione di toni, restituendo freschezza al testo dei giganti, così come la sua statura fisica, il suo portamento, quella sua voce così calda e bassa che fluiva spandendosi dalla bocca ben disegnata, incorniciata dalla barba fitta, nerissima, gli occhi taglienti e distanti in armonia con un naso dritto e corto, lo fecero emergere su tutti gli altri attori come il migliore. Qualunque fosse la parte, qualunque fosse la compagnia, qualunque fosse il costume e il prestigio del teatro, Pietro Raphèl era sempre il migliore. 

Gli spettacoli, quando recitava lui, non si concludevano veramente con il calare del sipario: l’eccitazione proseguiva elettrica lungo processioni di spettatori che andavano a stanarlo in camerino svolgendosi tra i corridoi angusti del teatro fino a raggiungerlo e incastrarlo per il saluto vis-à-vis. Perfino gli applausi finali, tanto deflagranti quanto interminabili, sembravano più sfoghi isterici dovuti al desiderio di mitigare la tristezza del congedo che un omaggio alla sua bravura.

Quell’ottobre del 1978, però, lo spettacolo per il quale stava lavorando sarebbe passato completamente in secondo piano nella sua vita.

A essere onesti, quella catastrofe non gli era capitata senza che lui l’avesse – come dire – se non proprio invitata almeno inconsapevolmente evocata, perché malgrado tutti i suoi successi, malgrado il suo prestigio, la ricchezza accumulata, l’accesso ai circoli più esclusivi di tutta Italia e d’Europa e le frequenti interviste su giornali e televisioni per pareri su tutti i temi possibili, Pietro Raphèl si trovava in un momento della sua vita che si sarebbe definito “morto” se non che della morte, quella vera, in quei giorni se ne erano dimenticati tutti.

A Pietro, in realtà, mancavano i desideri. Anzi, peggio, ne individuava sempre di marginali; cercava la soddisfazione in desideri che finivano col trovarsi solamente vicini a quelli cui puntava davvero. Diceva di sé, infatti, di vivere “di bolina”: finiva col dover navigare contro il flusso delle forze naturali nelle quali era immerso per raggiungere la sua destinazione, e quindi non ci arrivava mai direttamente.

Puntava sempre ad approdi intermedi, scostati, sia pure di poco, da quello cui ambiva veramente, ed era dunque costretto a cambiare di continuo direzione, riaggiustando la rotta. Alla meta, tuttavia, non ci arrivava mai, perché ogni volta si rendeva conto di aver sostanzialmente mancato il bersaglio.

Pietro avrebbe volentieri seguito l’ostia nel viaggio all’interno del suo corpo, inghiottendo di conseguenza anche se stesso come in un quadro di Escher o in una bottiglia di Klein, se solo fosse riuscito a staccarla lavorando di lingua: sciolta dalla saliva, accompagnata nell’esofago, si sarebbe poi impastata nei succhi dello stomaco, e giù nel tenue dove finalmente sarebbe stata quasi completamente assimilata dalla sua carne, salvo – ci si immagina – un’inezia irrisoria di scarto. Questo avrebbe voluto percepire: Dio che veniva assorbito dal suo corpo per diventare parte di sé.

Imbrigliato nella ruminazione di quei pensieri ad andamento ciclonico, sentì inaspettata una forza contraria iniziare a crescere improvvisa; una violenta contrazione nel basso ventre gli dava netta la sensazione di dover veramente, subito, velocemente, subito, senza aspettare, subito: evacuare. Dio piantato in bocca che doveva entrare, la merda dentro che spingeva in direzione opposta per uscire e lui – per così dire – in mezzo.

Milano era allora una città in bianco e nero, come d’altronde tutte le città degli anni Settanta, così impegnate nel dichiararsi lontane dall’ultima guerra, immerse in una pace poco più che maggiorenne, e così schiacciate in realtà da tutti i problemi sociali ed economici che l’immeritata cuccagna dei pochi anni precedenti non solo non aveva risolto ma anzi aveva generato e accumulato e continuava ad accumulare. 

Il flusso della storia si era intasato, come un fiume dove l’onda della piena aveva ammassato tronchi d’albero e detriti contro le arcate dei ponti rendendoli impraticabili: quasi tutti sulle sponde fermi a guardare, non senza un certo gusto del macabro, quasi tutti inermi.

Milano poi aveva gli occhi addosso perché ci si aspettava di veder fiorire la ricchezza frutto del lavoro e dell’organizzazione e invece si aveva paura anche a uscire di casa. Non per il freddo, non per la nebbia, non per l’aria sporca, né per certi agosti roventi con la radiolina nel parco, ma perché ci si sentiva delle prede: cortei, agguati, ma anche banalmente il gonfiarsi del traffico incontrollato intorno e dentro la città davano la sensazione di poter essere presi di mira ed essere puniti, senza avere alcuna colpa che quella di trovarsi lì per caso. Eppure, si usciva, eppure ci si affezionava anche alle luci ancora fioche di certe vie del centro. E si guardavano le vetrine, quelle dei vestiti, soprattutto, ma senza farlo capire troppo: una generazione alacre di sarti e di sarte, unici sopravvissuti all’esercito di poeti e santi, che di eroi certi non ce ne sono mai stati, si preparava in quegli anni al salto che li avrebbe portati nel giro di un decennio alla devozione incondizionata della società civile. 

Poi si fumava molto e ovunque, tant’è che forse la memoria della prevalenza del grigio di quegli anni – a pensarci bene – più che la nebbia poteva essere anche solo l’effetto del fumo delle sigarette: nelle case, in ufficio, nei bar, nei cinema, sui tram. Ma se anche non ci fossero state quelle, i colori sarebbero stati comunque pochi: i palazzi del centro, alcuni ricostruiti da poco, erano lerci, incatramati, e gli unici sprazzi di rosso e blu e verde e arancione venivano dai manifesti delle pubblicità, affissi ovunque e periodicamente rimossi da mani, per fortuna, così frettolose che strappandoli regalavano spicchi di involontaria allegria sia lungo strade che, soprattutto, sottoterra, alle fermate della metropolitana. 

A Milano, di sicuro, Pietro aveva trovato il successo, quello che, visto da fuori, ti mette nella categoria delle persone riuscite, ma quei cinquantun giorni appena trascorsi avevano davvero cambiato tutto in lui e quello stesso successo, apparentemente così solido e imperituro, si sarebbe rivelato per lui della stessa consistenza di un carrozzone di carnevale. Nel groviglio disordinato di quei pensieri, il suo cuore si fece allora più rapido del suo respiro e sfociò in un nome e tutto quello che ad esso era ancorato: Lucia. La sua Lucia, tutto era iniziato da lei. Anzi, dalla sua perdita.

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” La domanda non lo aveva abbandonato, anzi si era fatta ancora più cogente, schiacciata com’era da quelle sensazioni contrastanti. “Certo, nascere non deve essere meno spaventoso di morire – pensò – solo che non ce lo ricordiamo. Quel primo respiro che ti fa ingoiare aria per sostituirla a quell’acqua tiepida che fino ad allora aveva occupato la gola non deve essere stato meno angosciante di quanto sarà quell’ultimo, quando l’aria la si sputa fuori per l’ultima volta.” Così si disse pensando di mettere in quel modo ordine alla domanda e di capire, quietandosi, come rispondere. “D’altronde, non ci ricorderemo nemmeno della morte,” pensò di controcanto. 

Si era di nuovo incastrato: “Siamo fortunati noi esseri umani perché gli unici due eventi sicuri della nostra esistenza sono divorati dall’oblio, vero custode della mente e in entrambi, di sicuro, non siamo affatto puliti: si viene al mondo facendosi largo tra sangue e liquido amniotico, sempre che la madre trattenga gli sfinteri, e quando si va via, per lo più, ci si smonta liberando umori non più nobili di questi.”

Spalancò d’improvviso gli occhi, che teneva stretti più nel tentativo di scacciare i dolori addominali, o forse almeno di rallentare l’urgenza, che in quello di concentrarsi nella preghiera, e vide che il prete si stava preparando per la benedizione finale. In quella chiesa, che pareva arredata con i residui di scena di una tragedia elisabettiana, il ricordo dell’inizio di quei cinquantun giorni riaffiorò allora in lui come un sogno vivido sul fare del mattino, di quelli che non vorresti avere ma che non puoi spegnere, e si sostituì alla percezione della realtà. 

Tentò di scacciarlo con l’unico pensiero che poteva competere: la consapevolezza di dover scontare una colpa profonda, assoluta, dolorosa. Non rievocava quei peccati dozzinali che commettiamo pentendoci e sapendo al contempo che li ricommetteremo di sicuro, ripentendoci; pensò al peccato dei peccati, il peccato che precede tutti gli altri e che non si ripete: il peccato originale. Il tentativo di cancellare il ricordo di quei giorni sovrastandolo con quel pensiero sembrò dapprima funzionare ma presto si rivelò del tutto controproducente: l’idea stessa di un peccato originale lo sgomentò ancora di più. “Come si fa a essere colpevoli di un atto non commesso?” – si disse – “e se è stato commesso da altri, di cosa è mai fatto quel peccato perché possa essere trasmesso?”

Cinquantun giorni prima, Pietro aveva fatto ritorno nella sua casa di Milano. Non viveva più in città da tempo. Da qualche anno aveva acquistato un palazzotto seicentesco, nella campagna che da Milano arriva a lambire il Ticino, quella piatta e insapore, quella che i turisti scartano, e anche gli uccelli migratori tollerano solo per una sosta. Il palazzotto manifestava un’architettura sobria ma non sciatta, dalle proporzioni talmente regolari che l’avresti detto sfuggito da un manuale di architettura; a pianta rettangolare, una facciata di tre piani, disegnata rispettando la proporzione aurea: i tre ordini di finestre, sei al primo per far spazio al portone e sette per gli altri due piani, in ordine decrescente di altezza a partire dal basso, erano contornate da un accenno di timpano in travertino chiaro e corredate da persiane massicce di un bel verde scuro. 

Il tetto di tegole rosse, forse un po’ più grosse del normale, sporgeva dalla facciata in modo insolito, come fanno le costruzioni toscane, fino a circondare il palazzo di una fascia dove le persone potessero rimanere a parlare senza essere infastidite nei momenti di pioggia. L’edificio, intonacato con i colori della terra di fiume, chiari e fragili, sfuggenti quasi, si erigeva solitario in mezzo a campi di riso, curiosamente affiancato da un bosco di pioppi di coltivazione. Pur sovrastando il palazzotto, il bosco ne aveva la stessa proporzione, quasi che volesse limitare il timore che sapeva di incutere, che tutti i boschi incutono, ma forse ancora di più quelli regolari, duplicando la struttura armoniosa del palazzo con la disposizione regolare degli alberi, che rassicurava chi gli venisse incontro. 

In tarda primavera, poi, le distese ampie d’acqua delle risaie, riflettendo, raddoppiavano nuvola a nuvola, filare a filare, generando simmetrie ipnotiche: allora i rari stormi che si alzavano verso il cielo facevano da contrappunto a quelli che, riflessi nell’acqua, sembravano volare invece verso il basso. Solo le nuvole, quelle grandi, bianche e spumose, così insolite e buffe nei cieli bassi di pianura, sdrammatizzavano con ironia queste partiture solenni. 

A Pietro piacevano comunque questi raddoppi primaverili perché vedeva le stesse cose da una nuova prospettiva, che consentiva al cervello più che all’occhio di notare particolari che l’abitudine aveva smerigliato e reso quasi invisibili. D’inverno, invece, per lo più, la nebbia, frequentissima e compattissima in quelle zone, regalava l’effetto opposto e non permetteva di cogliere i confini delle cose: il bosco sembrava il palazzo e il palazzo dava l’impressione di una siepe alta, tant’è che bisognava avvicinarsi al palazzo e al bosco, quasi a toccarli, per essere sicuri di quello che si vedeva. 

Qualcuno, forse un filosofo, sosteneva che la nebbia, in fondo, per questo conferma ed esalta la vera natura delle cose. Insomma, era chiaro che la nebbia fosse per Pietro essenzialmente un setaccio metafisico, salvo quelle rare volte in cui alle cose ti portava troppo vicino, come in certi fossi maleodoranti, quando si sbagliava a guidare l’automobile finendo fuori strada.

Provò a richiuderli, gli occhi, come in un ultimo tentativo di nascondersi ma, come sempre capita a chi non vede, ogni cosa divenne allora molto più chiara e invece di sparire dalla percezione gli fu sbattuta addosso come uno schiaffo meritato. Senza volerlo, senza sperarlo, si trovò catapultato a quella sera di ottobre di cinquantuno giorni prima nella quale, rispondendo a un invito di Anna Rérere, si era presentato a un ricevimento del quale non poteva assolutamente immaginare il motivo e che gli avrebbe fatto scattare la vita a un nuovo livello di difficoltà di gioco.