ARTICOLO n. 22 / 2025
IL SENSO DI OPUS
Dal 27 marzo al cinema Opus. Venera la tua stella, scritto e diretto da Mark Anthony Green e distribuito nelle sale italiane da I Wonder che ringraziamo per la disponibilità e il supporto.
«I’ll see you in another life, when we’re both cats» dice Tom Cruise a Penelope Cruz prima di lanciarsi dal tetto di un grattacielo; siamo abituati a vedere l’attore saltare tra i palazzi dai vari Mission: Impossible, stavolta invece non sappiamo se morirà o se se ciò che stiamo vedendo sia parte di un sogno.
È il 2001 e il film è Vanilla Sky, complicato e a tratti confusionario intreccio di realtà e simulazione: un incidente ha mostruosamente deturpato il viso del protagonista, ricco newyorkese che ha deciso di farsi ibernare per intraprendere un’esperienza di sogno lucido. La vita fisica e la vita onirica di Tom Cruise compongono due parti della trama, all’interno della quale gli elementi di verità restano sospesi in un interrogativo. Ciò che abbiamo visto esiste davvero? Lo schema è molto simile a quello di un altro film del periodo, Matrix, nomen omen, matrice del filone baudrillardiano we live in a simulation, un tempo qui era tutto simulacri, simulazioni e Truman Show, dove il cielo è un cartonato simile allo sfondo del desktop.
Del resto, tra la fine del ventesimo Secolo e l’inizio del nuovo millennio esce anche Glamorama, romanzo di Bret Easton Ellis da cui ha preso ispirazione Zoolander, in anticipo di una trentina d’anni sul tema della manipolazione delle immagini. Il gruppo di modelli terroristi si serve di una sorta di intelligenza artificiale primordiale per creare foto finte con cui ricattare e pilotare la realtà. Il millennium bug, l’esplosione della tecnologia, il terrorismo, oltre che il terrore di non riuscire più a distinguere ciò che succede nella vita in carne e ossa da ciò che invece prende luogo in un codice alfanumerico dentro un computer. È così che l’arte sublima la paura di un inizio oltre il quale non si sapeva bene cosa ci sarebbe stato.
Facciamo un salto di vent’anni in avanti. Due decenni in cui il nostro rapporto con la tecnologia spaventosamente avanzata che mescolava le carte tra finzione e realtà non solo si è rinforzato in modo esponenziale, ma è diventato parte del modo in cui esperiamo il mondo quotidianamente. E così, dopo il timore di essere tutti un po’ una Alice nel Paese delle Meraviglie, addormentati sotto a un albero a sognare i palmipedoni, abbiamo aggiunto l’impellenza di isolarci, staccarci dalla globalità del presente e ritornare in piccole comunità, lontane da qualsiasi connessione con cavetti USB attaccati alla nuca o melme amniotiche dentro cui galleggiare mentre la coscienza se ne va a spasso per i fatti suoi. Circoscrivere la narrazione, oggi, è una necessità, riappropriarci del world prima che fosse wide web è una pulsione. È ciò che avviene in Opus– Venera la tua stella, il film d’esordio di Mark Anthony Green in uscita con A24, baluardo del cinema indipendente contemporaneo.
Midsommar, Leave the World Behind, The Menu, Kinds of Kindness, Glass Onion: questi sono solo alcuni dei titoli recenti in cui la trama esiste e procede in funzione di due elementi, ossia la perdita del contatto con il mondo iperconnesso e lo scontro con una comunità che si è isolata creando le sue regole, o in altre parole, una setta, un gruppo segreto, un assassino misterioso. Slegarsi dalla comunicazione costante a cui siamo esposti per colpa della tecnologia, staccarsi dal Matrix, così come creare una visione parallela del reale, è un tema centrale della contemporaneità. Siamo spaventati dalle bolle di consenso che fagocitano il senso comune, sappiamo che il mondo come lo conosciamo, fatto di regole e convenzioni, può essere ribaltato da un gruppo di pazzi vestiti da vichinghi che assaltano le sedi del potere e che un miliardario invasato può fare il saluto romano a reti unificate spacciandolo per meme, ci districhiamo tra i tunnel oscuri delle community sui social, le famose minoranze rumorose che sembrano dettare l’agenda non solo politica ma anche etica ed estetica del presente, viviamo l’incubo di poter essere risucchiati dal vortice entropico di un gruppo Telegram tra gli avatar di estranei che oltrepassano volentieri qualsiasi barriera del rispetto reciproco in favore di un tribalismo digitale che punta ad autoregolarsi.
In questo clima di omologazione confinata, ha luogo la storia di Ariel Ecton, interpretata da Ayo Edebiri: giovane giornalista musicale in cerca di una storia da raccontare che la distanzi dalla medietà della sua esistenza, vittima di un gioco perverso orchestrato da qualcuno che, con il suo carisma, riesce a plasmare con facilità un gruppo ristretto di persone tutte animate dallo stesso credo; una setta, o una community.
Il protagonista di questa storia finalmente degna di essere raccontata è una vecchia gloria del pop anni Novanta, Alfred Moretti. Nei suoi panni c’è John Malkovich, attore che con il culto della personalità ha già dimestichezza – ricordiamo il pirandelliano Being John Malkovich di Spike Jonze e Charlie Kaufman, risalente proprio al fine millennio di cui sopra. Moretti, divo dell’elettronica in silenzio da anni, ha organizzato un esclusivo ritiro stampa per ascoltare in anteprima il suo nuovo attesissimo disco, esperienza non troppo distante dai vari release party fatti solo per consentire all’elite degli accreditati di poter dare un frammento dell’esperienza ai comuni mortali con le loro storie Instagram.
Comincia così la pratica dell’isolamento, niente telefoni, adepti vestiti tutti uguali che gestiscono la comune da santone con giusta dose di sincretismo tra il new age e il massonico, impossibilità di comunicare con il mondo, regole molto rigide e pratiche sospette, come la vestizione a festa degli invitati che include anche una rasatura completa del pube. Ariel, che a differenza dei suoi colleghi giornalisti più grandi di lei, nei panni di visitatrice esterna anche alle dinamiche di idolatria del divo, ci va con i piedi di piombo, capisce in fretta che si tratta di un proverbiale trappolone.
L’esperienza del rapimento mistico e sensuale, per para-citare un altro santone della musica sperimentale – senza però la tendenza al sequestro di persona –, in cui Moretti sfoggia tutto il suo charme seduttivo filtrato dalla musica martellante e industriale, è un crescendo di vendetta nei confronti di chi ha scritto male di lui attraverso varie forme di tortura e violenza in nome di un credo: «All things are not equal».
Il cantante-guru predica e coltiva il culto della superiorità attraverso una metafora naturale, quella delle perle e delle ostriche, contenuto raro ed eccezionale all’interno di una massa informe di molluschi vuoti. Chi, più di lui, idolo delle masse, gigante della composizione, figura schiva e ipnotica, amata e venerata dalla moltitudine confusa del popolo, può rappresentare il valore del singolo che schiaccia la collettività nella gerarchia del merito? La superiorità del genio, all’interno del sistema chiuso in cui piomba Ariel come un’Alice che attraversa lo specchio e che ci rimane intrappolata, senza legami con il mondo esterno se non la forza della sua lucidità nel respingere la seduzione del potere, può decidere tutto, proprio perché superiore. E dunque, può decretare anche chi vive e chi muore.
Il senso di Opus, dunque, oltre che nella rappresentazione ironica di un divismo grottesco che trasuda servilismo e accondiscendenza totale verso la celebrità in quanto tale, potrebbe essere trovato proprio nel tentativo di dare una forma al sentimento di inquietudine che anima il presente, uno dei tanti perlomeno. Una comunità ristretta che si dà la forza di convincersi di ciò che, secondo i propri principi, è giusto e sbagliato e che si alimenta proprio nella sua chiusura: il paradosso della globalizzazione e della nostra visione attuale del mondo, tanto orizzontale quanto atomizzata, che sia una filter bubble, una camera d’eco, o un luogo immaginario in cui le persone trattano un cantante pop come se fosse un dio in grado di decretare chi merita la vita e chi no. Abbiamo attraversato l’angoscia della simulazione, la paura di perdersi a metà tra i due mondi, reale e immaginario; ora sappiamo che, una volta data per assodata questa duplicità, al suo interno si possono creare infinite alterità. Come quella di Opus, di Moretti, dei suoi rituali, in cui viene coltivata l’idea – spaventosamente reale e attuale – che non siamo tutti uguali.