Alex Katz

ARTICOLO n. 51 / 2024

COME MI SONO AVVICINATO ALL’ACQUA

Una conversazione con Luca Massimo Barbero

Luca Massimo Barbero: Venezia è un luogo ineffabile e leggendario, associato alla pittura e soprattutto all’acqua. L’acqua in tutte le sue forme: la bruma, la laguna, il costante dialogo fra l’isola e i canali, e la potenza del mare che preme alle porte della città e talvolta la sommerge. Se pensiamo al titolo di una delle sue mostre, Unfamiliar Images, l’acqua potrebbe non essere il tema che associamo immediatamente alla produzione artistica di Alex Katz. Ci viene in soccorso, tuttavia, la recente analisi delle sue opere sviluppata da Éric de Chassey nel saggio Les Mondes Flottants [“I mondi galleggianti”, NdT], primo lavoro dedicato a Red Sails nonché introduzione a un collage decisamente straordinario, Sea, Land, Sky: niente potrebbe essere più adatto a un ritorno a Venezia, una città sospesa proprio fra questi tre elementi, mare, terra e cielo. Nei suoi dipinti, l’acqua come superficie riflettente è un soggetto che ricorre con frequenza. Qui, alla Fondazione Giorgio Cini, sarà esposta in un’unica spettacolare sala una raccolta di tele di grande formato dedicate all’oceano. Spesso i critici fanno riferimento alle onde di Manet, e al mondo galleggiante dell’imprescindibile, ossessivo e straordinario Monet. Qual è stato negli anni il suo approccio al paesaggio marino e alla figura immersa nell’acqua, che si tratti di un’anonima bagnante o di un personaggio riconoscibile? Cosa l’ha portata a riunire questi oceani straordinari, la loro profondità e tutta la luce e la vitalità di un mondo in costante rinnovamento?

Alex Katz: Mi sono avvicinato all’acqua quando facevo il guardiano notturno per la Jamaica Railroad di New York. Di mattina, la superficie dell’acqua di Jamaica Bay a New York diventava di porcellana, di tutti i colori più disparati, proprio come succede a Venezia. E mi chiedevo se fosse possibile dipingere una cosa del genere. Allora avevo sedici anni. Poi ho passato diversi anni nel Maine a cercare di dipingere la luce sull’acqua. Guardavo i dipinti di altri artisti e pensavo: “Che cosa non hanno colto?” Quali sono le qualità dell’acqua? Per dipingerla perfettamente devi mostrarne la trasparenza, il peso e il movimento, sono questi i tre elementi principali. Ricordo di aver osservato i dipinti di Winslow Homer. Era tutto giusto, ma l’acqua non aveva alcuna energia. L’artista che preferivo in termini di raffigurazione dell’acqua era Manet.

L.M.B. L’isola di San Giorgio e il grandioso Bacino di San Marco, come Venezia tutta, sono stati l’ambientazione che ha ispirato artisti da Tiziano a Tintoretto a Veronese, che per secoli hanno rappresentato un’intera iconografia della pittura figurativa. Che cosa pensa di questi artisti? Hanno mai suscitato il suo interesse? Come li definirebbe in relazione alle tematiche che hanno esplorato nelle loro opere?

A.K. Per mantenermi come artista intagliavo cornici tre giorni alla settimana. Gli intagli veneziani erano i più difficili perché le forme sono estremamente fluide. Tiziano, Tintoretto e Veronese: sono loro lo stile di Venezia, uno stile ampio e fluido. Quando ho visto per la prima volta le opere del Veronese al Louvre, a 35 anni, ero strabiliato. Davvero impeccabili. L’enorme ovale verticale di Giove che fulmina i vizi, inteso originariamente per il soffitto, ha un movimento e una potenza incredibili. Ha avuto un enorme impatto su di me.

L.M.B. Vorrei chiederle di parlarmi di una cosa che ha detto a proposito del grande maestro Jacob van Ruisdael: «Jacob van Ruisdael è un artista indiscusso, e le sue opere sono tutte paesaggi». Qual è stata la sua esperienza rispetto alla storia della paesaggistica, e come è giunto a realizzare i paesaggi monumentali che sono esposti qui, alla Fondazione Cini?

A.K. La maggior parte dei paesaggi sono come un buco nel muro: forniscono prospettiva. Mi sono ritrovato a creare un’opera paesaggistica ambientale, in cui il paesaggio ti avvolge. Quindi avevo bisogno di un certo formato per ottenere l’energia giusta, e ora sto cercando di ricreare la stessa cosa in un dipinto più piccolo.

L.M.B. Il Maine è incastonato fra l’oceano e la natura. Qual è la genesi di opere di grandi dimensioni come Maine Field 3 o degli avvolgenti dipinti della serie Grass, che verranno esposti qui insieme per la prima volta? Quale interpretazione dovrebbe darne il pubblico?

A.K. Realizzare un grande quadro che raffigura l’erba è stata una grossa sfida. Si rimuove il soggetto dal dipinto. Nella pittura narrativa, il soggetto è importante quanto il quadro stesso. Quando dipingi erba, invece, elimini l’idea del soggetto. Si tratta dell’atto del vedere, di quella percezione che scaturisce a livello individuale in base a come si vive il dipinto dell’erba, da cosa significa per l’osservatore trovarsi al suo interno. Per gli intenditori, è il dipinto stesso. Quanto agli altri artisti, per me possono anche rodersi il fegato.

L.M.B. La natura è un mondo in cui i francesi hanno riscoperto la filosofia, gli inglesi il romanticismo, e gli italiani il piacere. Come si manifesta e si sviluppa il piacere all’interno della sua opera? Come viene sintetizzato nella serie Flowers, ossia i dipinti precursori dei grandi paesaggi che verranno esposti qui?

A.K. Ho iniziato a interessarmi ai fiori negli anni ‘50, perché l’atmosfera era impregnata di machismo. Facevamo delle mostre collettive, e a me piaceva inserirci un fiore e annientare tutti gli artisti macho. È così che è cominciato, che ho cominciato. Anche i dipinti di fiori sono difficilissimi da realizzare, al pari dei dipinti raffiguranti l’acqua. Si può descrivere un fiore, ma il colore è davvero giusto? La descrizione distrugge il colore. E se il colore è giusto, lo sono anche i volumi? Insomma, è molto complicato. Per non parlare della superficie del fiore. Renoir ha realizzato delle magnifiche tele di fiori, ce n’è una a Boston. Ho sempre pensato, invece, che quelle di Mondrian fossero prive di superficie. È estremamente complesso ritrarre un fiore in modo non formulativo. Come artista, sei obbligato a dipingere qualcosa di nuovo. E stai discutendo con l’artista che dice che il nuovo può solo provenire dal presente immediato, poiché questa è l’idea di modernismo. Quindi dici: qualunque esperienza io abbia fatto è al tempo presente. Nefertiti per me è sempre nuova, perché sono là assieme a Nefertiti, assieme alla scultura.

L.M.B. Non posso non chiederle del suo rapporto indelebile e costante con la ritrattistica. In tutta la sua opera sono evidenti decenni di ricerca e un fascino perenne: «Io perseguo il presente immediato», ha dichiarato una volta. Quando ha fatto la scelta radicale di concentrarsi sui ritratti, in particolare rispetto ad altri artisti americani contemporanei, sia espressionisti astratti che realisti?

A.K. Tutto è iniziato alla scuola d’arte. Ho ottenuto una borsa di studio per la pittura presso la Skowhegan, dove si dipingeva all’aperto sostenendo che quella era pittura realista. Io stavo facendo un quadro che sembrava un Bonnard, guardo in su e vedo un tizio sopra un tetto, con il sole che lo illumina. È stata una sensazione straordinaria, e per me era una sensazione nuova, diversa da qualsiasi altra cosa. Quella che ti fa capire che è questo che vuoi fare. È da quando l’ho provata per la prima volta nel 1949 che continuo a inseguire quella sensazione.

L.M.B. Una volta l’indimenticabile David Sylvester le ha fatto una domanda molto diretta: «Va bene Giotto, e Piero allora?» Qual è il suo rapporto in termini di figura, soggetto e carattere (vorrei quasi dire postura) con Piero della Francesca, di cui fra l’altro è esposto un quadro proprio a Palazzo Cini?

A.K. Piero mi è sempre sembrato straordinario. Assolutamente formidabile, eppure controllato. Non assomiglia a nessun altro. Ha una marcia in più, senza dubbio. Giotto è il massimo. È capace di prendere un sentimento personale e dipingerlo in uno stile impersonale. Nessun altro riesce a farlo. Il colore è come uno spettacolo di luci, e le forme sono incredibili. Ma la cosa più importante per me è che nel suo modo classico è in grado di avere emozioni interiori. La Vergine soffre realmente per la morte di Cristo. Percepisci la sua sofferenza, e questo non sminuisce il dipinto. È fantastico. La sua generalizzazione delle forme mi ricorda il dipinto marino di Albert Pinkham Ryder, Moonlight Marine, esposto al Metropolitan Museum of Art. È la stessa cosa. E il quadro di Ryder è uno dei migliori che l’America abbia mai prodotto.

L.M.B. Per usare un’espressione paradossale coniata da Vincenzo Agnetti alla fine degli anni ‘60: la storia dell’arte dovrebbe essere “dimenticata a memoria”? Ossia, dovrebbe essere assimilata in modo così profondo da essere trasformata in qualcos’altro? Lo consiglierebbe ai giovani artisti di oggi?

A.K. Credo che questo signore abbia avuto un’idea legittima, ma non ne apprezzo l’espressione. La storia dell’arte fa parte dell’arte, e dovrebbe scomparire nel tempo presente. Fa parte del subconscio. Dipingere il subconscio, per me, è l’unica cosa positiva del surrealismo.

L.M.B. La moda, un sistema grandioso, è forse una delle tematiche più profondamente associate all’esistenza quotidiana delle persone famose. Leggo: «L’attrazione di Katz nei confronti delle apparenze, delle superfici, è particolarmente evidente nel suo ritratto di Anna Wintour, caporedattrice di Vogue e direttrice creativa di Condé Nast». Come vede il processo creativo e comunicativo della moda? Qual è la sua opinione sui suoi sviluppi nel corso dei decenni, nell’ambito dell’immaginario collettivo nonché della sua opera?

A.K. L’idea della moda è cercare di creare qualcosa nel presente, e questo è ciò che dovrebbe essere un dipinto. Ci sono soluzioni diverse per la moda e per la pittura. Non può esistere lo stile senza la moda. Lo stile esiste in questo rapporto con la moda. E se un designer riunisce in sé stile e moda, il suo lavoro non perde valore dopo 20 anni. Una donna può indossare un Charles James o un Balenciaga di 20 anni prima e fare una bella figura.

L.M.B. Qual è l’origine della serie di opere dedicate alla stilista Claire McCardell?

A.K. L’origine della serie di Claire McCardell mi è spuntata dal subconscio. Stavo uscendo dalla vasca e un segno mi ha detto: “Claire McCardell”. Era con me da tutti quegli anni. La serie si collega all’arte e alle idee di Claire McCardell sulla forma generica. In altre parole, è come i Levi’s. Puoi portare i Levi’s con una maglietta oppure con una giacca da 2.000 dollari, non fa differenza. I Levi’s sono del tutto generici. La biancheria intima di Calvin Klein è generica, e indossarla ti fa sentire socialmente accettabile. Come stilista sociale, merita un 10. Un altro stilista che ha lo stesso effetto sul pubblico è Ralph Lauren, che crea capi per le fantasie della gente. Non c’è molto in termini di design, ma c’è molto in termini di ragionamento.

L.M.B. Qual è il suo rapporto con Claire McCardell e con il mondo che rappresentava in un momento molto particolare della moda americana e internazionale?

A.K. Claire McCardell ha sostituito la moda francese durante la guerra, quando non potevamo avervi accesso. Si basava su un’idea molto radicale, quella di rendere la moda accessibile a chiunque e di vendere i capi a prezzi accessibili. Ha avuto molto successo per due anni, fino alla fine della guerra.

L.M.B. Come sono stati concepiti e strutturati i singoli dipinti, oltre a quello che ritengo essere il suo ritratto? Come narra la storia della grande avventura di questa donna in ciascuna tela della serie?

A.K. I materiali di partenza erano delle fotografie. Lei vestiva le modelle in diverse tonalità di grigio, quindi ho pensato, tanto vale metterle in fila. I toni del grigio risultavano fastidiosi sulla tela, e non volevo che sviassero l’attenzione dall’impatto immediato delle creazioni stesse. I dipinti sono virtuosismi che hanno l’energia delle sue creazioni di moda. Quei quadri non erano che un’invenzione, e ci vuole bravura per farli apparire tali. Se li osservi da vicino, scopri che lì non c’è proprio nulla.

L.M.B. Concludiamo con un aforisma: cosa vorrebbe che il pubblico capisse dalle sue opere, in termini di stile?

A.K. Vorrei che il pubblico giungesse alla conclusione che è plausibile.

Intervista estratta dal catalogo dell’esposizione alla Fondazione Cini presso l’isola di San Giorgio a Venezia in corso fino al 29 settembre. Ringraziamo il Direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte Luca Massimo Barbero della Fondazione Cini per la disponibilità.