ARTICOLO n. 7 / 2025
SAD GIRL
il mito della tristezza femminile
In una fredda mattina del febbraio 1989, il pescatore Pete Martell si imbatte in un cadavere, avvolto in un telo di plastica, che galleggia a faccia in giù nei pressi della riva. È probabile che la scena vi risulti familiare: non si tratta di un caso di cronaca, infatti, ma dei primi fotogrammi di una serie tv entrata nella storia, Twin Peaks.Dentro quel telo c’è il corpo, esanime, di Laura Palmer. Diciassettenne, bellissima, di buona famiglia, diligente e impegnata nel volontariato, per tutta la comunità Laura è un esempio da seguire. Tuttavia, puntata dopo puntata, emerge un’altra verità. La giovane non è affatto l’emblema della spensieratezza adolescenziale, ma una ragazza triste, dipendente da sostanze, che nasconde una storia drammatica. Forse in pochi sanno che il racconto di David Lynch e Mike Frost si ispira a una vicenda reale, quella di Hazel Irene Drew, una ventenne che, nel 1908, fu ritrovata morta in un laghetto a Sand Lake. Anche lei bionda, con gli occhi azzurri e il volto da brava ragazza, anche lei con una storia personale ben più complessa e oscura di quella che amici e familiari cercavano di raccontare.
L’interesse dei creatori della serie tv verso fatti di cronaca che coinvolgono ragazze con lineamenti angelici e animi tormentati accomuna moltissime persone. Secondo la scrittrice Sara Marzullo, è possibile parlare di una “sindrome di Laura Palmer”, una sorta di attrazione morbosa nei confronti di giovani che sono ragazze perbene, per citare il romanzo d’esordio di Olga Campofreda, solo apparentemente. Assomigliano, in effetti, più a giovani perdute «che nascondono segreti per cui devono scomparire, disposte a pagare il prezzo per custodirli per sempre». Il nostro viaggio intorno ai miti che caratterizzano la femminilità ci conduce a esplorare qualcosa che ha a che fare con la postura emotiva che sembra caratterizzare un intero genere: quella tristezza cupa ma sensuale che diventa tratto identitario. Il cinema, la musica e la letteratura si sono fatti portavoce di questo modello, tanto da trasformarlo in un immaginario comune che ha ispirato la vita di molte ragazze durante tutta l’adolescenza.
Giovane nei primi anni Duemila, ho sperimentato sulla mia pelle il fascino di questo modello, per questo mi riconosco nella descrizione con cui Sara Marzullo identifica la personalità della sad girl: «Prima di tutto si definisce ragazza, dunque associa deliberatamente lo stato malinconico al genere di appartenenza (…) infine legittima la tristezza come qualcosa che ne contraddistingue l’esperienza femminile e la distingue dal resto della società».
In un’intervista rilasciata al tabloid inglese Daily Star, la cantante Lana Del Rey ha raccontato di aver pensato più volte di farla finita, di eclissarsi per sempre, schiacciata da una sensazione di fallimento personale e professionale. Resa celebre da hit come Born to Die, Summertime Sadness e Ultraviolence – canzoni che fin dal titolo riflettono il suo punto di vista emotivo, malinconico ed erotico – la performer statunitense sembra essere la rappresentazione perfetta di quell’ideale estetico indagato da Marzullo, che si impone grazie a siti come Tumblr una quindicina di anni fa, ma che, a ben vedere, era presente anche prima.
Come molte ragazze cresciute in quegli anni, anche per me l’adesione al prototipo di “sad girl” è stato un simbolo di riscatto, un elemento su cui fondare un’identità che sembrava scegliere volontariamente di stare ai margini, lontana dalle coetanee, con cui mi sembrava di non condividere niente al di fuori dei cromosomi, o delle persone adulte che avevo intorno, totalmente disinteressate ai problemi di un’adolescente. Tuttavia ha rappresentato anche un modello, calato dall’alto, a cui conformarsi. Un tentativo di ammaestramento in cui è facile imbattersi e difficile allontanarsi, se non a costo di una trasformazione.
Ne Il mostruoso femminile, Jude Ellison Sady Doyle sottolinea come ogni ideale femminile cristallizzato in libri, serie tv o film costituisca il riflesso della cultura patriarcale che lo genera. Lo scopo è sempre educativo: esorta le donne a prendervi parte o, al contrario, ad allontanarsene per evitare il biasimo sociale. Così, se la dead blonde è la vittima sacrificale perfetta, presente non a caso in tutti gli horror, la final girl è l’eroina che vi si contrappone, «un’eccezione alla norma femminile, e alla maggior parte di noi, che per definizione non è eccezionale».
La sad girl sembra intrecciare entrambi i modelli: come la final girl differisce dagli altri personaggi femminili per estetica e sensibilità. Tuttavia, come la dead blonde, non potrà mai superare la giovinezza, condannata prematuramente al sacrificio di sé sull’altare dell’emotività.
L’unicità di cui la sad girl si fa portatrice è funzionale alle esigenze patriarcali e capitaliste, più che alle proprie. Uno dei principali meccanismi che impedisce al genere femminile di costruire alleanze è infatti la condizione di isolamento in cui le loro vite si inabissano. L’isolamento conferisce unicità (“non sei come le altre”) e nello stesso tempo insegna a ciascuna a dubitare delle donne che incontra – sorelle, colleghe o semplici conoscenti, non importa. Allo stesso tempo il mercato propina prodotti, sotto forma di pellicole, canzoni e libri, che apparentemente ne legittimano le sensazioni e le emozioni ma si rivelano inutili per scavare dentro di sé. Quello che viene rimosso, dalla vita dalle ragazze tristi, è il conflitto, uno strumento che, secondo la scrittrice Sarah Schulman, è indispensabile non solo alla crescita personale ma anche a quella sociale e politica.
La rimozione del conflitto passa attraverso la riduzione di tutte le altre caratteristiche che definiscono la personalità di una giovane donna in formazione, che finiscono così sullo sfondo. Se considerate, infatti, impedirebbero di riconoscersi in modo totalizzante in una sola categoria: l’identità si diluirebbe in tanti piccoli elementi, invece che confluire nell’unica emozione ammessa, la tristezza, e nel sentimento di isolamento e superiorità a essa collegato. Non è una caso che proprio la dimensione emotivo-sentimentale sia l’unica degna di nota. Ricorda Marzullo: «Le emozioni non costituiscono una prova inconfutabile di realtà, e pertanto sono tendenzialmente etichettate come una cosa da donne, da cui il mondo vero, serio, razionale delle decisioni deve assolutamente affrancarsi». L’universo esperienziale delle sad girl è uno specchio che riflette le emozioni altrui per amplificare le proprie, senza mai permettere un cambio di prospettiva, un’analisi più approfondita del disagio esistenziale che si avverte.
L’ideale estetico e identitario della ragazza triste – inoffensivo, privato e vulnerabile – si presta al gioco di potere tipico dei sistemi patriarcali: genera infatti spazi di condivisione al femminile che si rivelano asettici, fornisce una comprensione reciproca superficiale e ripudia il conflitto. Scrive Marzullo che «l’esperienza della ragazza è universale, in virtù del suo essere personale, cioè in virtù della intercambiabilità delle nostre vite personali». È per questo che l’unico antidoto a questo modello – che non si è affatto dissolto con la fine di Tumblr ma è semplicemente migrato su altre piattaforme, cambiando forme senza alterarne la sostanza – è rappresentato dallo sguardo collettivo, quello che i femminismi hanno costruito in decenni di teorie e pratiche. Prendere coscienza della pervasività dello sguardo maschile è alla base di questo riscatto che passa anche attraverso una nuova consapevolezza: il riconoscimento che la tristezza non è mai stata un’identità ma solo un’emozione. E come tale, acquista senso in un quadro più ampio, a cui si può accedere solo sacrificando il modello ricevuto. I femminismi, come tutte la pratiche trasformative, ci insegnano a non avere paura di immergerci nella profondità di noi stesse, a disfarci di un’identità posticcia per diventare ciò che si è.