ARTICOLO n. 38 / 2021
PIETÀ
ESTATE A MILANO
«Ah… gli intellettuali» pensò Ransom.
«Devono essere loro, anche se in modo occulto, a comandare.»
C.S. LEWIS, LONTANO DAL PIANETA SILENZIOSO
Seduto per terra con le spalle al muro, origlio i vicini.
«Sei sicura?»
«Senza» dice lei. «Scopami senza…»
Ma non è il profilattico. La parola deve riferirsi a un’altra specie di premura. Naturalmente, la mascherina non può essere.
Anche se a Milano c’è chi per fare sesso occasionale, dall’inizio della pandemia, se la mette.
È il neurologo a ragguagliarmi su certe stramberie meneghine, durante i nostri colloqui via Skype.
Quando non fa il lombrosiano non lo ascolto. Il suo mestiere e la sua milanesità si riassumono in un empirismo cui non consento nessun commento sussidiario, nessuna superstizione psicanalitica. Che scherzi pure sulle crisi fobantropiche post-quarantena e sui tic freudiani degli altri reclusi. Che interpreti pure l’ininterpretabile. Che si occupi di lubrificare il torcolo dei neurotrasmettitori nel mio cervello, di cambiare le gomme, di lucidare il parabrezza – ma di giri turistici, nell’Area 51 della mia mente, non se ne fanno.
È preoccupato perché sono rimasto da solo a Milano con una terapia psichiatrica di cinque farmaci al giorno durante tutto il lockdown, e sono dipendente dalla marijuana. Spacciatori di erba buona non ne troverò nemmeno adesso, anche se in città i delivery della coca hanno ricominciato a fare quelle che lui chiama, con insoffribile sarcasmo, consegne a «domicidio». Purtroppo, l’aumento dei posti di blocco li ha costretti a una scelta precauzionale delle sostanze, e l’erba è sacrificabile perché ci si guadagna meno (o, forse, perché gli Dèi la preferiscono nelle libagioni loro rivolte).
Come se non bastasse, il mio nuovo romanzo è uscito il giorno prima che chiudessero le stazioni del mondo e le librerie. Sebbene sia passato un anno, io sono rimasto là. A quel marzo marziano che mi ha pestato sotto il tacco come un ciuffo di capelli in una macumba africana, ma ad ammazzarmi non ci è riuscito.
«Dovresti toglierti subito la dopamina» mi aveva detto sempre lui, il neurologo, già il secondo giorno di clausura, spaventato come ogni medico più per sé stesso che per questo sfigato.
Sarei potuto ricadere nell’alcol, nell’autolesionismo, o avrei potuto gettarmi dalla finestra. La coincidenza del libro appena uscito non ci voleva. «Potresti avere un eccesso di energia e una slatentizzazione delle psicosi» non ha fatto altro che ripetermi. «Almeno aumenta lo stabilizzatore dell’umore. Potresti non reggere, potresti fissionare.»
Potresti, potrebbe, potrà. Più di un secolo di teorie scientifiche, di congetture e ricognizioni subito smentite, di «poi» che assassinano il «prima», e abbiamo cominciato a renderci conto solo su Facebook e su Twitter, nel 2021, che la scienza è un’ipotesi, a prescindere dal fatto che una tantum riesca a ottenere risultati.
È il Dio Covid, sconosciuto, a farci svegliare nell’ignoto che si apre al di là del sogno scientifico.
È per questo che la città italiana tecnologica per eccellenza non si sveglia per niente con la fine del lockdown, ma si riaddormenta nel bosco. Nel grottesco di una selva irreale, dove le prospettive della logica sono diventate paraconsistenti.
Per paura di togliere il farmaco, tuttavia, ho preferito allenarmi a casa, scaricandomi per sfinimento alla vecchia maniera.
Quattro ore di esercizi al giorno, davanti ai workout total body di YouTube.
Nel mondo di prima avevo due personal trainer che cinque volte a settimana si davano il turno per addestrarmi alla stabilità umorale, poi avevo un’ora di sauna e bagno turco al giorno. Ero uno di quei milanesi americanizzati al grado massimale dell’americanità, una cavia degna di Palahniuk. Per non morire, mica per diventare un culturista. Se non mi massacrassi di piegamenti e trazioni, non saprei come smaltire questa quantità di eccitanti e andrei in giro a prendermi a botte con tutti. In caso contrario, se cioè non assumessi i farmaci, dormirei diciotto ore al giorno o forse per sempre, come Rosaspina in attesa del suo bacio necrofilo, e sarei vessato dalle ossessioni per il tempo restante (un tempo che percepisco da sempre come un vettore dalle spirali infinite, piuccheterno, ma dal quale sento che di tempo può avanzarne ancora, e ancora…).
I virologi nel frattempo hanno stipulato accordi di fortuna con gli economisti, e Milano si desta al suono abietto di un corno davanti al quale io mi tappo le orecchie, perché non ci credo.
Credo fermamente nel Covid-19, nelle sue sataniche varianti, nelle polmoniti interstiziali e nella carenza di ossigenazione, nei vaccini e nella distanza di due metri, credo nel lavarsi le mani a fondo e nel fatto che su di me gli psicofarmaci hanno «quasi» sempre fatto effetto. Ma non ripongo la benché minima fiducia negli individui che me li hanno prescritti e in quelli, appartenenti alla stessa genia, che adesso tripudiano per il ritorno alla normalità.
È una lunga storia quella dei medici spaventati più per sé stessi che per me, imparanoiati dal giuramento di Ippocrate, indecisi sulla diagnosi di depressione maggiore, bipolarismo, paranoia, che mi hanno rimbalzato ogni responsabilità addosso con un colpetto di ciglia, oppure l’hanno cordialmente inoltrata a un altro medico; ed è una lunga storia anche quella dei loro tripudi davanti ai miei miglioramenti spontanei, magari perché avevo letto un libro illuminante di Chatwin o avevo rivisto Il posto delle fragole.
La storia della medicina è, per quella che è la mia esperienza, una storia di tentativi a casaccio che ha fatto acqua da tutte le parti, di scarichi e tubature ostruite che, prima ancora che sulla fragilità di anima e corpo, ha agito nella mia immaginazione un calcio in culo alla volta, fino al marzo dell’anno scorso.
Ora che ci penso, dentro di me questa storia aveva cominciato a schiudere le sue illascivendole uova di serpente già con la scemenza dei medici online. Non si può fare una diagnosi online, mi sono sentito rispondere per anni a ogni richiesta telematica d’aiuto, come se questa non fosse una deliberata ammissione di inutilità da parte loro. E poi il matto sarei io.
La dopamina non l’ho tolta per protesta, anche se Milano è rimasta fuori dalla mia stanza non ho ascoltato il medico e non ho smesso di folleggiare al ritmo indiavolato della vecchia città.
Ora che c’è il rituffo nelle strade, continuo a stare a casa per allenarmi, per nascondermi dalle plaghe del cielo infetto e per leggere le poesie di Magrelli che tento di imitare, seduto per terra con le spalle al muro, mentre i vicini…
«Senza» continua lei.
A causa del chiasso esterno, riesco a capire solo che la parola finisce con una «a» accentata. I suoni più pungenti, acuiti da una neuropatia cronica, hanno ricominciato a diluirsi nello stridio del tram sulle rotaie, che a sua volta si fonde con i versi dei piccioni, che a loro volta si amalgamano con lo squittio dei sorci nel solaio in un intreccio di fischi simili a una lamentazione paleolitica.
Immagino allora di diventare così grande da sovrastare il palazzo, di prendere la mia Milano con le mani dall’alto, di metterla in un sacco durante il concerto del Primo Maggio, di intrappolare il suo impero senza fine e la sua sete di avere sete in una piccola città di provincia come Macerata.
Come è successo alla città, il lockdown ha scagliato anche me post mediam noctem, nell’ora immobile in cui i sogni diventano reali. Ha chiuso Golia in un guscio di noce, e amen.
Avvinto nella penombra delle latebre di un bilocale, tra gli zufoli incessanti delle sirene e le astinenze rapinose, ricolmo di energia come una parete di uranio, sono stato tra i primi sifni che la Metropoli-Pizia ha messo in guardia dagli araldi della scienza: un po’ perché sono avvezzo da un decennio, e a ragione, all’ipocondria, un po’ perché, dovendo fare a meno della droga, la reclusione forzata mi ha costretto a svegliarmi subito dal sonnambulismo, a rimanere lucido come un matematico davanti alla mia follia.
In fondo è per questo che adoro Milano, perché da quando sono arrivato la mia follia si è sempre mossa alla stregua della sua.
Milano è una città che si muove e si è mossa sempre anche da ferma, dettando a chi la abita il suo folle scopo. I milanesi sono convinti di abitare una città, invece abitano uno scopo. Per questo non ha importanza se Milano è bella o brutta, se piove sempre o se ci sono quaranta gradi. Lo scopo non è quello di fare soldi, o carriera, o bella figura con gli altri. Non è nemmeno lo scopo di avere potere o di guarire dalle malattie. Il nostro scopo è quello di avere scopi.
Ecco perché c’è chi continua a urlare «ce la faremo» e a sventolare falde di stoffa scarabocchiate di cazzate dai balconcini malsicuri, uomini e donne sconturbati da ogni retorica possibile che ancora abbaiano allo smog come cani da punta, impossibilitati a catturare qualsiasi altra cosa che non sia una porzione di sostanze venefiche. Uomini e donne che non ce la faranno mai, nemmeno se sparissero tutti i virus del mondo.
E io?
Nemmeno io ce la farò mai, penso mentre mi tiro il pisello fuori dai boxer e ne verifico le reazioni nervine in risposta ai boccheggi dei due sconosciuti. Sono terrorizzato che da un momento all’altro non mi si drizzi più. Il neurologo ha precisato anche questo: tornando a uscire, potresti avere un incremento di… Come quando mi sono chiuso dentro, in sostanza.
Sul cellulare, mentre i vicini indugiano nei loro ansimi, ripasso gli effetti collaterali del Lamictal, del Wellbutrin, del Sereupin… li so a memoria. Sono la mia tabellina del due, la mia prima declinazione.
«Scopami senza pietà» sento che dice la donna.
Era la pietà, ma tu pensa.
Chissà poi come si fa ad amare qualunque cosa senza provare un minimo di pietà per lei.
Nel mio palazzo di via Plinio, oltre la finestra, un nuovo cordone di voci conduce alla portineria.
Dopo un’assenza gestazionale di nove mesi è tornata Nella, mi dico, e dispenserà buste e pacchi ai rimproveranti.
Anch’io dovrei scendere.
Cinque piani a piedi senza ascensore.
Devono essermi arrivati dei libri. Comunque sia, il box della guardiola è vuoto.
Un tizio spiaccica il naso sul vetro per guardare dentro.
Un sole extraterrestre spazza il patio e la fontanella per metà. Questo sole che dalla fine di marzo si affaccia dagli smerli dei tetti e si congeda imbarazzato, come un esattore delle tasse, come un assicuratore timoroso.
L’anno scorso, proprio oggi, c’era uno scatolone per terra, addossato alla parete, sigillato da quattro giri di scotch.
Altra posta lo circondava. Altra posta arrivata per gli altri, come ogni giorno, come sempre. Una posta fiscale, come si conviene alla quiete dei tempi profani.
Tasse, affitti, ricette mediche, pubblicità e libri che non è affatto scontato siano per me.
Perché nel palazzo c’è un altro scrittore. Abita due piani sotto il mio e più di una volta mi ha chiesto di abbassare la musica, altrimenti non riesce a concentrarsi.
«Sei un maleducato» mi ha detto l’anno scorso, credendo che il pacco fosse destinato a lui e non a me.
Così patetica, la vendetta di dirgli che dentro c’erano le copie del mio libro, che soprassiedo.
Mesi fa l’ho sentito confidare al tipo dell’Amsa che scrive poesie. Con una faccia come la sua, ho pensato. A una cena Moresco lo disse di uno scrittore che lo perseguitava: “Vuole scrivere, ma come si fa a scrivere con una faccia come la sua?”.
Per tutto l’inverno ho provato a impedire, con ogni mezzo in mio potere, che lo scrittore si permettesse di scrivere versi con una faccia come la sua. Ho ascoltato Thom Yorke al massimo volume, ho cantato i Cure a squarciagola nella notte nutrendomi di canapa legale come una capretta. È così che scrivo io, come un ragazzo normale andrebbe a una festa al Macao, facendo il possibile per non assomigliare a uno scrittore.
Forse, se non prendessi tutti questi farmaci, farei meno fatica a definirmi tale. Ma di fronte ai libri che ho scritto, come d’altronde di fronte a questa città, si erge una piramide di disappartenenza, perché gli psicofarmaci sono chiavi, ma per porte sconosciute che danno su aree altrettanto sconosciute di spazio, dalle architetture inedite, e alla fine non si è più in grado di riconoscere chi è entrato dove e da dove.
Le mie passioni, le mie conoscenze, le mie capacità l’anno scorso sono diventate di colpo un mattatoio di animali morti e di alimenti inscatolati. Poi scaduti.
E più che su un virus, è su una psiche che può esserci una data di scadenza.
A quanto pare, la mia scadeva il 21 marzo del 2020.
Vado a cercare il mio libro per la città. Copro chilometri a piedi in preda alle rimanenze psichiche di un meccanismo motore.
È passato troppo tempo dall’uscita. È troppo tardi per trovarne più di due copie a scaffale.
Chi scrive non ha che questo desiderio: cercarsi, come in uno specchio, sulle vetrine e sui tavoli delle librerie. Oltre al desiderio di vendere. Ma vendere, in questa città, è molto meno importante che stare sul mercato. Quello che conta è esserci. Quando non si lavora, si esce e ci si incontra o per scopare o per millantare, le sole due azioni che a Milano sembrano non coincidere mai. Il fatto di risiedere nell’unica città italiana in cui succedono realmente le cose è in fondo un possente scudo. Soprattutto quando non succede niente. E a me, col nuovo libro, non è successo niente.
Certo, mi sono risparmiato l’inutile tortura del confronto con i colleghi, e ho la scusa che se non ho venduto abbastanza la colpa è del virus. Posso anche pensare che il libro non sia mai uscito, posso anche pensare di essere già morto.
Ai milanesi in fondo – e io mi sento tale – basta trovarsi sempre a un passo dal plauso altrui, dai big money e dal successo, basta raccontarti cos’hanno in programma per l’anno prossimo, quali novità sbalorditive all’orizzonte, e credono di guadagnarsi così la tua ammirazione (e se la guadagnano). Tanto il tempo qua è più veloce che altrove, e nessuno verrà mai a controllare davvero se ti hanno promosso in azienda o se hai recitato in quel film. Ai milanesi piace dire «pazzesco» proprio perché la pazzia spensierata è del tutto estranea a questa città. Milano è una città dove succedono molte più cose che a Roma, o a Parigi, o a Londra, è una città che si regge su un’illazione cronica dei propri obiettivi e delle proprie capacità, su una follia lugubre e imperturbata, ma di «pazzesco» non ha proprio niente. Soprattutto adesso che dovrebbe sprizzare gioia da tutti i pori, Milano è semplicemente irreale, e l’irreale non si merita di essere ridotto alla banalità del «pazzesco».
Al parco Montanelli, ad esempio, si rincorrono i cani. Confusi, tentennanti, non compiono più gli ampi cerchi dell’abitudine. I padroni si sono tolti le magliette ed espongono la pelle lattiginosa, di un bianco sclerotico, alla luce pietosa, vischiosa, ultravioletta e puntinata di moscerini. Apparentemente non c’è niente di insolito rispetto a due anni fa. Ma l’insolito, come un virus, non è mica detto che appaia. Bisogna saper guardare per capire cos’è che trasgredisce dal solito.
A una prima occhiata, mi sembra che vittime e proscritti della Realtà reiterino le annose abitudini più per partito preso che per diritto di natura. La fila stracca alla cassa del bar Bianco, il sassolino scagliato sull’anatra del laghetto, il fitto degli alberelli rossi dove gli universitari si danno appuntamento per fumare non fanno altro che confermarmi la dimensione oniromantica di sempre, il congegno genetico che spinge tutti a vivere anche il tempo libero come se fosse un meeting aziendale.
Adesso i movimenti sono dettati dalla labirintite, certo, dalla mancanza d’ossigeno dovuta alle Ffp2, dalla pressione degli elastici contro le trombe di Eustachio, dalla secchezza delle mucose. Ma prima, non era forse la stessa scena di Stalker?
Fortunatamente l’edicolante davanti all’Oberdan non parlava ancora di scienza.
Tutti, persino il prete di Santa Francesca, che adesso parlano della miracolosa concretezza della scienza.
Divinità monocentriche, senza volto e appena sorte, vengono invocate in un groviglio di nomi futuristici.
AstraZeneca dalle dita di rosa.
Pfizer dai lunghi pepli.
Moderna che mai si stanca di combattere.
Johnson & Johnson.
Un cicaleccio insostenibile, un politeismo d’accatto, un fantaolimpo giocato tra i negozi di corso Buenos Aires al solo scopo di difenderci dalla potenza del fantastico (questo, però, è un complotto troppo galileiano per allarmare i giornalisti, e lo vedo solo io).
C’è una ragazza che legge un libro di Walter Siti con la schiena appoggiata al monumento di Montanelli e vorrei dirle di spostarsi subito perché con la quantità di ratti che ci pisciano attorno potrebbe prendersi la leptospirosi. È peggio del Covid.
C’è un arabo principesco con un involto di tappeti in spalla e crede di essere reale. Come se fosse realistico essere un figo che se ne va in giro con dei tappeti persiani addosso in una città post apocalittica.
C’è un altro, un palese ubriacone (e un palese sondrasco) in astinenza che non crede nel virus, nei vaccini, nel potere tecnocratico e nella classe dirigente – ma crede di essere reale. Anche se, al pari del sottoscritto, non si è mai realizzato in altro che nei suoi squallidi abusi. Per realizzarsi bisogna entrare in seno alla realtà, ma dalla porta di quale mondo?
Di sicuro la statua di uno che ha scritto la storia d’Italia non aiuta. Il complottismo, che è poi lo scetticismo, è una scienza che mette in discussione qualunque avvenimento storico, ma mai la possibilità che non ci sia stata alcuna Storia.
Che vana speranza è stata credere che, da ingenua, l’idiozia di chi ha trascorso un anno a blaterare sui social sarebbe diventata più tollerabile. Come no. Mi appare semplicemente ignobile, irrimediabile. Ancora più circoscritta dalla mancanza di pensiero profondo.
La cosa peggiore sono quelli che, tra un’omelia e l’altra ancora vogliono renderci partecipi della propria abominevole quotidianità. Prima la quotidianità veniva spacciata solo sui social, tra una gattomachia e l’altra, adesso è a voce: «Sì, con il lievito madre… un’oretta di lavoro e poi Netflix… mi fai una foto mentre ordino il deca?». Se facessi io la stessa cosa, se mi mettessi pornograficamente in piazza, dovrei commentare il dosaggio dei miei psicofarmaci o il mio ultimo ricovero in un reparto psichiatrico. Se aderissi con l’anima alle povere cose di ogni giorno che mi circondano, a questa povera nostra vita, impazzirei del tutto.
—
In uno spettacolo del Cabaret Voltaire, o al Circo Orfei, o in una delle Bizzarrie di Bracelli, l’Irreale non è esplicito. Così come non è esplicito in un reparto d’ospedale infestato dal Covid.
L’irreale si esplicita meglio al centro di Milano, al bar Basso, quando sento invocare da un signore incravattato di Lugano prima la necessità di una ripresa economica e poi la Madonna di Lourdes perché gli arriva un sms che lo avvisa della morte di un suo conoscente.
Anche dal barbiere, l’Italiano, l’economista in attesa della tinta vorrebbe vendere l’aria un tanto al chilo, e il prof. di fisica e chimica del liceo Volta, seduto sul divano a due metri d’ordinanza, gli dice che l’aria non si tocca; allora l’economista, uno che lavora coi supermercati francesi, accampa un ragionamento da politico anni Ottanta per vendergliela lo stesso, e il prof gli dice che, una volta venduta tutta, l’economista non respirerà.
L’unico ragionamento non irreale che sento dopo un anno di social, l’unico esempio che significa qualcosa.
L’irreale, infatti, se è tale, è proprio perché non significa nulla. E la gran parte di quello che viene detto in questi giorni, per come la vedo io, ha l’unico pregio di non significare nulla, di essere il commentario non già del nulla (il che rappresenterebbe una svolta epocale), ma di un significato nullo, di un’interpretazione nulla, e perciò inutile, della realtà concreta attorno a noi.
Se è vero che tutti se ne vanno in giro per dire la loro, la pandemia fa a pezzi ogni contributo personale, ogni opinione che vuole essere sensata, ogni interpretazione catechistica alla Agamben, ogni soluzionismo immediato e, fortunatamente, ogni magniloquenza sulla nostra presunta libertà. L’essenziale si riduce al discorso dei due signori in attesa dal barbiere e basta.
Di solito quello che ci uccide non resta con noi, ma se ne va. A Milano, però, a Brescia e a Codogno è avvenuto qualcosa di culturalmente enorme. Qualcosa che ha fatto afflosciare la realtà del sogno imperialistico, e che è impossibile rimuovere con un massaggio thailandese. Qualcosa di vicario dell’assetto abitudinario del mondo. Qualcosa che va oltre l’aleggiare intermittente del virus, la tragicità della morte e le congetture del clan dei virologi. Sono stati questi i primi a dare a piena testa contro il capitale, senza manco accorgersene. Il problema è che se metti quattro scienziati a parlare della scienza non stanno facendo scienza, ma filosofia, e se metti quattro imprenditori a parlare di economia non stanno facendo economia, ma filosofia.
D’altra parte non potrebbero fare altro, visto che del virus non sanno niente. Credere che si sappia qualcosa di un evento solo perché in una certa misura, e per un certo periodo, si riesce a gestirlo è come credere che un pompiere conosce i meccanismi fisici del fuoco. Sono i virologi a confermare al mondo l’inattendibilità della scienza e di sé stessi, e di questo gli va reso merito, anche se chi tra loro alza le mani lo fa più per deresponsabilizzarsi che altro. È però fondamentale che agiscano, perché è da loro che gli idolatri dell’economia pretendono una soluzione, e immediata. Come se un ragazzino chiedesse al papà di uccidere qualcuno se la cosa gli farà aumentare la paghetta settimanale. Vagli a spiegare, a Sala e a Zingaretti, che la medicina non è la verità e che la cosa non implica l’inesistenza di un’altra verità. Pur trovandosi davanti al valico di frontiera tra due visioni contrapposte del mondo, ti risponderebbero che non c’è tempo di perdersi in chiacchiere, di disperdere le forze in litanie inutili, e che il paese non può permettersi un fermo ulteriore.
Loro si sono permessi di fare a pezzetti il pianeta, di trasformarlo in una discarica invivibile per i loro porci comodi e per i prossimi trentamila anni, ma il virus non può permettersi di fare la stessa cosa con noi. E poi il matto sarei io.
Anche i filosofi professionisti si piegano al riduzionismo più villano, pena l’ammutinamento. Non mi fido più nemmeno di Massimo Cacciari: se non semplificasse ogni suo pensiero fino all’osso, Lilli Gruber non saprebbe che farsene. Gli scrittori si limitano a fare figure di merda. Una scrittrice esordiente scrive un tweet per gridare al mondo che il nostro paese non può abbassare le serrande per evitare la morte di quattro vecchi. Dall’alto della sua malvagità, non si rende conto di essere l’unica a non delirare. Per quanto bastarda e nazistica, invera l’unica etica possibile. L’etica dello sterminio, dell’andare avanti tanto per andare avanti, tanto per navigare a vista dentro un fiume di contraddizioni. Anche se non si sa a che scopo, è fondamentale avere altri scopi, avanti marsch. Come dire che se non ammazzi qualcuno per arrivare a fine mese sei un immorale, e, fino a prova contraria, per il mondo in cui viviamo è esattamente così.
Milano, però, non è solamente così. Ci sono posti che, se uno volesse usare la più orrificante delle parole in voga, definirebbe «resilienti».
C’è solo un locale che è rimasto quasi identico a prima, e dove apologie d’olocausto non se ne sentono, e dove quindi non c’è etica, tranne quella del bicchiere.
È il Picchio, dove risiedono gli industriali dell’immaginazione.
Può arrivare Perseverance su Marte, può riaccendersi il corium dentro il Sarcofago di Chernobyl possono verificarsi fenomeni di spillover e ibridazioni di specie, ma il Picchio resta il wormhole di sempre. L’unico vero locale di Porta Venezia. L’omphalòs degli artisti, dei musicisti e degli studenti di cinema, la ribellione emotiva alle insufficienze immaginali dei lounge bar attorno e, in un certo senso, di tutta la città. Lounge bar che stanno al Picchio come un cantante di pianobar sta a Amy Winehouse.
Il Picchio è Leopardi. Leopardi e Amy Winehouse sono le persone che più stimo al mondo. La cortina-tripode utilitarie parcheggiate davanti ai tavolinetti esterni è la siepe. La siepe non cela le basse colline recanatesi, ma i sorseggiatori di cocktail del Botanical, la boulangerie parigina, e le allucinazioni di chi è convinto davvero che si ricomincia e che il virus è sparito. Quelli che bevono oltre il Picchio sono invecchiati di due anni e si vede. Hanno due anni di più, hanno sprecato due anni e li hanno persi per sempre.
Il Picchio, invece, è un mitologema, potrebbe essere il Caffè Giubbe Rosse o il Leoncavallo. E, in quanto tale, un mitologema non invecchia, anzi, con lo scorrere del tempo si salda ancora di più. Due mondi separati da un’arcadia di cinque metri, che non si incontreranno mai, che non devono incontrarsi mai.
Vado a mettermi al centro della strada, a metà tra questi due mondi, e provo a concentrarmi sul punto a mezz’aria dove cozzano le voci. Il caldo zanzaresco si impregna di suoni molesti per l’urto dei contenuti espressi.
Da una parte i monoglotti dal contenuto nullo di cui sopra, gli archeologi della pratica che usano frasi come «hai bisogno di uno bravo», ma se dici «frocio» o «puttana» sgranano il rosario e gli occhi credendo sia più offensivo. La pandemia li ha colpiti nel fatturato e nella convivenza con il partner, ma, visto che il mito del «lavorare» è notoriamente l’altra faccia della poltroneria, hanno saputo procrastinare meglio degli altri. Hanno fatto yoga, hanno letto I leoni di Sicilia, hanno infornato pagnotte buone solo per essere mipiaciute da altri dodici fornai avventizi. Gli altri, invece, i picchi, sono gli sfaccendati che per i consimili davanti «avrebbero bisogno di uno bravo», salvo che se esiste non puoi che trovarlo fra loro. Gli infermieri e gli studenti del San Raffaele vengono qui, per mischiarsi agli studenti di Brera.
L’unico rischio, tra un artista naïf e l’altro, è quello di incontrarne uno che fa lo scettico, e che a sua volta si incontri con uno scienziato.
Gli artisti scettici mettono in discussione tutto ciò che produce risultati «concreti», proprio come me, ma se si scagliano contro il metodo scientifico non sono diversi dagli altri. E io mi fido più dei virologi, dei carabinieri e di De Luca. Mi rendo conto che il virus ha invertito la rotta del realismo fino all’estenuazione anche per loro, e che non è facile lavorare sull’astratto quando non si sa più cosa è il concreto (De Luca? Concreto?); ma hai voglia a ignorare che un virus è un animale, un alieno in terra che disperde le proprie cellule nell’invisibile. Perché invece di blaterare non ci fanno un’opera d’arte?
Insetti che crediamo ci si posino addosso per caso, dico a Carmen quando passa a raccogliere i bicchieri vuoti, l’unica che mi dà ragione. Insetti che ci scelgono, desiderano, si muovono, volano, ripeto a un mio amico osteopata. Non essendo attaccati ad alcuna presa di corrente, sono animali animati che «fanno anima». Se provi a dire una cosa così al barista sul lato opposto della strada indovinate che risponde?
Che avresti bisogno di uno bravo.
In palestra, intanto, per me sono i giorni della rivalsa. I finti pompati sono riemersi dalla quarantena ischeletriti e facendo mostra dei loro immensi occhi bovini. Alzano trenta chili di bilanciere sulla panca piana, non reggono nemmeno una trazione senza il supporto dell’elastico.
Nello spogliatoio si coprono il pacco con la mano. Prendere il testosterone a cicli regolari e poi lasciarlo quando non ci si può allenare equivale a distruggersi il pene, uno dei drammi peggiori di questa città, dove le diete detox convivono tranquillamente con cocaina e steroidi ma nessuno pensa di avere bisogno di uno bravo.
Quando poi arriva Carlo, che per due anni non ha fatto altro che ripetermi «secco», gli scoppio a ridere in faccia. Peserà sessanta chili, ma mi dice «stecchino» lo stesso, per un automatismo. Anche se sulla bilancia a gettoni della farmacia proprio stamattina facevo novanta chili. Non avendo mai usato il Diana, il mio corpo non si è modificato di una virgola, e nemmeno i miei organi riproduttivi, di cui ora come ora non saprei che farmene.
Quanto mi mancano gli animali. L’unica cosa che mi manca dell’Abruzzo.
E tutte le sere, prima di addormentarmi, ne abbraccio uno immaginario nel letto.
Un animale a caso, un cane o un puma perché come farò a reggermi con tutti questi farmaci se un animale non mi proteggerà?
Un animale che mi aiuti a restare in equilibrio tra questi due mondi in combutta, e che d’ora in poi battaglieranno ancora di più. Un animale che sia la forma biologica di un dio bipolare come me, destinato a morire come Pan. E come me.
Stanotte, comunque, ho fatto un sogno.
Ero con la piccola Greta in Abruzzo, ad attaccare pomodori in un campo assolato tra centinaia di uccellini canori. Lei indossava l’impermeabile giallo, non capivo come facesse a non sentire caldo, ed era triste. Io mi ero tagliato i capelli a zero e le ho chiesto se per settembre mi sarebbero ricresciuti. «Secondo te mi saranno ricresciuti fino a qua?» le ho chiesto toccandomi un orecchio.
«No, secondo me fino a qua» mi ha rassicurato lei con un sorriso, toccandosi una spalla.
E io mi fido. Non saprei di chi altro fidarmi.