Alberto Rollo

ARTICOLO n. 82 / 2024

QUELLI CHE CAMMINANO PER STRADA

intorno a "paradiso" di Stefano dal bianco

C’è intorno a Paradiso di Stefano Dal Bianco una sorta di distanza e di silenzio. Se ne comincia la lettura per presto dar conferma di un ingresso avvenuto. Entriamo in un luogo che l’autore non teme, titolando il volume, di identificare con paradiso, senza articolo (non l’incontestabilità del determinativo, non la languida vaghezza dell’indeterminativo), quasi si potesse fermarlo nella permanenza di un bene.

Siamo dunque in un luogo, e si tratta di un luogo che si lascia individuare toponomasticamente: c’è Orgia, c’è l’alta valle di Merse. Siamo sulle colline senesi, siamo dove il poeta ha riconosciuto dei confini entro cui dimorare e deambulare, entro cui esercitare i sensi – il suo la vista, quello del cane che lo accompagna l’olfatto. Nessuno è chiamato a manifestarsi se non questa coppia compresa fra l’altezza del cielo e la prossimità della terra. Benché si muovano entrambi, esploranti e complici, è come se fossero entrambi accarezzati dal fantasma dell’immobilità. Avverti i passi che rallentano, lo sguardo confitto, la tensione perlustrativa che vibra «…in questa mattinata quasi astratta / dove nessun pensiero giunge a compimento / si fa strada l’idea di un nostro posto, qui, / un dolore calato dal cielo di piombo / che ci atterra e ci libera nel tutto».

È come se fosse il vibrare «di vita immobile» a disegnare la mappa dettagliatissima di bipede e quadrupede. L’avvicendarsi del giorno e della notte, il cangiare della qualità della luce e delle stagioni, del vegetabile e del tempo atmosferico riempiono i righi musicali insieme alla erogazione degli odori: tutto è compreso dentro una scena che si sottrae alla tentazione allegorica e che tuttavia desta un affanno gioioso, sempre sul punto di dire, sempre sul punto di essere detto.

Nei quindici versi che portano in esergo «Acero di Arquà / che quest’anno compie quarant’anni» si dice per l’appunto di questo acero che si muove, che par sorrida, e che il suo provare «qualcosa di nostro» è un tentativo «di essere nel vento / un accordo di foglie / un fremito di luci nella luce». A una contemplazione così ravvicinata, il poeta accerta l’evidenza di una serenità senza secondi fini (per usare un’espressione destinata a ritornare) che dunque non è né impettita dichiarazione di autorevolezza, né ipotesi di salvezza: èsemplicemente, non esibisce significati, fa «quello che deve fare», è «nel suo chiuso riso, / paradiso». 

Dal Bianco fa un moderato uso della punteggiatura, di virgole soprattutto, ma qui la cesura è forte, è un respiro, una pausa, prima di lasciar scivolare sull’acero quarantenne l’attributo cruciale. Paradiso è una condizione, dunque, una serenità che si consuma e si disperde in riso, nel puro «riso dell’universo» di dantesca memoria. 

Che questo “riso” stia nella prima sezione del libro, Appuntamento al buio, ci consente di continuare a leggere senza mai confondere il paesaggio naturale con un fondale. 

Dovessimo registrare l’azione del racconto che formicola in Paradiso – racconto filtrato da una cautela narrativa più discreta che minimale – la sentiremmo come avventura, l’avventura di un poeta che si cala, persino con un cenno di sfida sperimentale (i versi dettati a un cellulare), nella residualità della natura richiamandone, senza attrito drammatico, l’assiduità, il suo irresistibile, antichissimo dispiegarsi.

All’evidenza quasi invisibile dei sentieri fa riscontro la deambulazione assetata del vedere: il vagare di Paradiso non è quello preromantico presago di mete, ma neppure quello della Wanderung romantica così perduta nel mero transito, nella vanificazione di ogni forma di ritorno.

Qui si sta. Qui si coltivano serenamente una deliberata assenza, un affrancamento dall’umano, «perché non c’è niente di umano nell’umanità». Al paesaggio che diventa memoria nell’ultimo Andrea Zanzotto, presentissimo nella formazione di Dal Bianco, si oppone, ma forse non fa che succederne un altro non perente, non plastificato, non preda di vitalbe, lasciato tuttavia distendersi in concava e vitale «sovraimpressione».   

L’esercizio della solitudine non si consuma nel vuoto: al contrario, chi parla in questi versi non fa che avvertire la pienezza incompiuta dell’accadere, un accadere dal quale discendono ascolto e voce, che, se vengon meno, «tanto vale allora mutamente / uscir di bosco e andare fra la gente». 

Che cosa sia l’avventura del poeta lo dice il passo che avanza fra le ragioni di un giovane frassino, la «perplessa maestà dei castagni», la storia di una foglia che cade, i «fiordalisi sul sentiero», il verde leggero dell’erba nuova, il tappeto delle foglie secche, una coppia di daini, una volpe grigia arresa alla morte. 

Non si tratta di una restituzione della o alla natura: quelli citati sono dettagli che il luogo distribuisce acciocché l’avventura si compia, e per compiersi è bene che appaia un compagno, Tito il cane. I vaganti sono due, e ciascuno ha obiettivi suoi – condivisibili ma non reciprocamente assimilabili.

Per entrambi la geografia è decisiva: la geografia degli odori e degli eccessi di memoria, la geografia «di luci e ombre» e la soverchiante «fragranza del mondo». Uomo e animale dividono il pericolo e la grazia, il lancio del sasso nella corrente e la scoperta del mondo rasoterra; vanno esplorando l’aria ferma e i miraggi della paura.

Ci si chiede dove sia questo luogo, chi lo ha voluto così. Non è dagli uomini abbandonato: tanto che gli ulivi son potati, i prati falciati, il fango inciso dalle ruote. Si suppone che oltre l’uomo e il cane ci sia gente dei borghi che si chiude «silenziosamente in casa», contadini, lavoratori, e se non ci sono son passati, hanno lasciato tracce; e di tracce è fatto il permanere, tanto che il poeta lo dice esplicitamente: ci si può stancare del paesaggio, e allora «basta posare gli occhi sull’asfalto / che tanta parte ha nella geografia del luogo / e nella storia che restituisce». Ci son le crepe della gelata del duemiladieci, le toppe lasciate dagli operai dell’acquedotto, i lavori del gas: non si tratta di «paesaggio alternativo» ma di tracce, per l’appunto, che possono portare «a casa di qualcuno», all’eco «di un pensiero che era stato / e di uno che verrà». E tracce sono anche quelle lasciate dai grandi ungulati sulla terra argillosa della Merse («bassorilievi / che il sole ha avuto il tempo di fissare»), e che all’acqua conducono come esortazione a proseguire. 

Se è paradiso, è questo: il luogo in cui per segni minimi, per voci, per voli, per nuvole e notturni arpeggi di luce si suppone timida ma audace una certezza dell’essere e dell’essere lì, proprio lì.

Se non ci fosse Tito che ha bisogno di te «per essere felice / ma se ne infischia della tua felicità», questa avventura cederebbe la scena tutta intera a una natura insensibile all’accadere, all’imprevisto, insomma al sospetto che una storia esista. E invece ecco il «paradiso di riflessi» che in primavera attrae Tito, ecco lo sguardo che chiede un altro sasso lanciato, il ruolo «tanto difficile da sopportare» al quale inchioda il suo compagno. Sì, perché Tito «non è costretto a dominare niente / mentre il suo amico si fa serio / dall’alto della sua incostante umanità». Mitologicamente uomo e cane si sentono dèi, l’uno con il naso rasoterra «perché tutto / profuma di qualcosa», l’altro con il naso per aria «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra».

Questo «niente mi basta sulla terra» mi sembra perno cruciale della poesia di Dal Bianco, il rovello, grave e sorridente insieme, che inventa, dal luogo traendo le coordinate, un paradiso come lui l’ha pensato, come, totus in illis, il viandante l’ha trovato. Senza stabilire alcuna forma di discendenza diretta, si pensa al Zanzotto dialettale, quando, in Idioma, evoca una Maria Carpela degna – sia pur dopo aver cacciato all’inferno «tuta, tuta quanta ‘la realtà’» – di un paradiso suo, «gnentaltro che ’l paradiso / come che ti tu l’à pensà». 

Può ben darsi che niente gli basti sulla terra, ma il poeta sa di cosa sono fatti i colori fra i quali almeno «è quello che fa per noi», presume l’«ultrasuono d’angelo» che accende la mente di Tito, la paura di una vipera che ha sbarrato il passo, la luce del tramonto «senza secondi fini», la «luce azzurra delle nubi» e via citando dal catalogo del vedere, e del sapere, del dirsi uomo con un cane.

Umanità torna più volte a segnalare un limite, una condizione, certamente un’assenza: chi sia stato messo al bando (se mai ci furono peccato e condanna) o chi sia stato chiamato a dimorare (se mai ci fu premio o fuga) non è dato sapere. Il paradiso di cui parla Dal Bianco è compreso nel raggio di uno schivo ma forse anche esitante auspicio che i confini del mondo coincidano con il profilo del Monte Amiata, e che siano i crepuscoli, o meglio che sia il valore della luce (anzi delle luci: non sono esclusi azzurrità di nubi, lucciole, lampioni), a consegnare l’azione e l’inazione alla «voce del mondo». Siamo di fronte a un’esclusione consapevole, come se l’umanità (e così pure la terra) rischiasse di creare confusione. In questo luogo non ci sono né arcadie né appartenenze, c’è il semplice emergere di un teatro naturale.

Il compagno di Tito è un uomo orazianamente contemplativo, Tito è cane che perlustra e scopre diversivi», talora si sottrae, sparisce ma riappare, ma soprattutto è misura del tempo («non mi va di aspettare Tito / più di una vita») e di quanto nel tempo, ferinamente, si muove. Tito, che pur porta sul muso un sorriso, ha avuto in dotazione la certezza animale del nemico: «che cosa vede nella notte un cane che non sia / sacrosanta illusione che vi sia / un nemico nascosto e invisibile nel bosco».

Si dà conto di spazi talora percorsi almeno in parte in auto: si avverte la presa di fiato di un avvio, «Come ormai tante altre volte stamattina». Il disegno ritmico distende una visione che si vuole innestata nel tempo: questa mattina ripete altre mattine, uomo e cane attraversano in auto «uno sterrato pianeggiante»; lo fanno perché poi si va a piedi «in un grande prato verde seminato a foraggio». Sul prato ci sono apparizioni di volatili (un airone, una garzetta, un fagiano, due ghiandaie) che alzandosi in volo da un fosso attizzano la vergine curiosità di Tito su «gli abitanti dell’acqua», creature nuove, non incontrate ancora. Nella sequenza di versi distesi, descrittivi, si situa, netto, al centro della poesia, l’endecasillabo piano «ha scoperto finalmente Tito» ovvero il verso eroico, lo schiocco dell’avventura. Raganelle e pesci entrano nel suo privato catalogo di viventi. Ma il fosso divide il prato da un altro prato, e di là ecco il calare delle nubi, il vento che fischia, nulla si vede più, né più si sente «l’animale di dentro»: la scena si spoglia, si spoglia di presenze insieme all’animale «che scappava in lontananza / in fondo a ogni prato / portandosi con sé una parte di noi». Nell’intervallo fra dentro e fuori sembra venir meno la certezza che il trasferimento del mattino aveva promesso. Come ormai tante altre volte stamattina ci si dispone a vivere e, consumata l’esperienza della scoperta e dunque di un’acquisizione, ci si dispone a perdere. Non ci sono strappi, neppure traumi, semmai l’aderenza a sconfessare, dentro l’abituale, l’abitudine.

C’è nella poesia di Stefano Dal Bianco un’attitudine geometrica che dà misure e le confonde, un’ondulazione prosodica non meno collinare del paesaggio con il quale progressivamente si prende confidenza.

Mi piace che i suoi versi calchino la terra, che non smettano di tornare alla terra sia attraverso la pertinenza della contemplazione sia attraverso l’esperienza del cane Tito, un’esperienza che talora diventa pensiero, un pensiero «contagioso», «grande abbastanza da comprenderti / come farebbe un prato / di una tana di talpe». Sono, quelli di Paradiso, versi che si lasciano contenere da uno spazio in cui leggiamo continuità, insistenza, ammaliata vigilanza, nonché latebra (quella «tana di talpe»), ma anche quella sorta di rumore che fanno «quelli che camminano per strada», «nell’aderire al suolo / dove ogni storia che trova un inizio / a ogni passo rinnova la sua fine in sé / in sé soltanto».

Il tempo si consuma e si rinfranca, e pure si annulla, eppure i confini dai quali l’umanità sembra esclusa lasciano palpitare un sentore del mondo che non si smemora, che, anzi, è l’avventura vegetale e animale di cui Tito e il suo compagno conoscono le quotidiane stazioni.

Credo che Paradiso sia opera della cui importanza dovremo prendere atto come di uno scarto, di un segnale, di una soglia. Da qui in avanti, e non solo ora mentre tentiamo di rincorrere il generoso sgomento che ci ha lasciato.

ARTICOLO n. 46 / 2024

L’ILLUSIONE FEBBRICITANTE DELL’AMERICAN DREAM

La favola realista di Steven Millhauser

Il mondo di Steven Millhauser è un mondo di creatori e sognatori. Quanto più è forte la coscienza del sogno, tanto più è determinata l’azione che li proietta dentro la concretezza del reale. E quanto più quest’ultima si arricchisce, tanto più i confini del sogno si dilatano. Martin Dressler è un sognatore perché agisce, fa, crea. È, come esplicita il sottotitolo, un “sognatore americano”, ma al contempo, eccentrico com’è rispetto all’epica del self-made man, rappresenta una singolare disfatta del proverbiale american dream

Millhauser è un autore legato a una sua molto personale idea di realismo e di letteratura fantastica. È autore dominato, non meno dei personaggi che è venuto creando, da una generosa ossessione che dà luogo a modalità diegetiche, a tensioni psicologiche, a spinte e controspinte strutturali, e soprattutto a un bagaglio iconico che si dispone puntualmente intorno allo stringersi di un nodo drammatico e al manifestarsi di una significativa contraddizione: l’ambizione del sognatore muove la realtà, ma la realtà risponde solo fino a quando quell’ambizione è contenibile dentro una logica che cede alla norma.

Da quando esordisce nel 1977 con Portrait of a Romantic alla raccolta di novelle The King in the Trees del 2003, Millhauser ha saputo rimanere fedele alla sua “favola” realista. E dico favola per cercare di rendere ragione di quella singolare tonalità di racconto che sembra iscrivere le storie dentro un loro allarmante e spiazzante «c’era una volta». Per lo più infatti Millhauser rivolge lo sguardo al passato, un passato mai generico, ma più definito dalla concretezza figurale dei paesaggi urbani e suburbani che dalla Storia in senso stretto. E anche quando si avvicina di più al presente (la cittadina del Connecticut de La notte dellincanto, 2022) o se ne allontana drasticamente (il Medioevo, per esempio, de La principessa, il nano e la segreta del castello, 1993) ciò avviene tenendo fede agli stessi criteri di favola realistica. 

«There once lived a man named Martin Dressler», così l’incipit del romanzo. Un attacco tradizionale, caro soprattutto alla forma della ballata che tanta parte ha avuto nella formazione della cultura popolare americana. Il fatto che di lì a poco ci rendiamo conto che l’azione è situata negli anni a cavallo fra Otto e Novecento non incrina – anzi semmai rafforza – un senso di vertigine temporale funzionale allo svolgersi della vicenda. 

È come se si stabilisse da subito un fecondo rapporto tra la concretezza visiva delle cose del secolo e la lontananza di esistenze che dobbiamo considerare strappate a leggende orali, ad apparati semi-documentali, a repertori mitologici attivi solo nel patto di verosimiglianza imposto dall’autore. E non è un caso che Millhauser faccia molto sovente uso di nomi e cognomi, quasi a invocare un’esistenza non fittizia: Martin Dressler ma anche Edwin Mullhouse del romanzo eponimo (1979), John Franklin Payne e Edmund Moorash delle novelle di Little Kingdoms (1993). Quelle che abbiamo chiamato le “cose del secolo” sono, in questo romanzo, New York e l’entusiasmo della modernità, la frenesia dell’eclettismo che si traduce, sulla pagina, in appassionati cataloghi descrittivi.

La città di Millhauser è innanzitutto la percezione di un bazar, di una galleria di meraviglie, di una fiera delle «novità» che si moltiplicano e si allineano orizzontalmente come nell’American Sales Catalogue (o come in quel circo Barnum che ricorre a dar spessore alla molteplicità e alla varietà della meraviglia: The Barnum Museum, 1990).

Lo si avverte distintamente quando Dressler incontra Rudolf Arning, scenografo e architetto: «Quella attuale, spiegò l’architetto, era l’epoca dell’eclettismo esteriore, come chiunque aveva modo di constatare: bastava osservare gli edifici in ferro e marmo carichi di volute e decori pseudo-rinascimentali, che catturavano lo sguardo in ogni via di New York, ma, ancor più di questo, era l’epoca dell’eclettismo interiore o da interni, definizione con la quale Arning non si riferiva alla solita combinazione di stili antiquati e tecnologia moderna, come ascensori o telefoni, bensì alla tendenza delle strutture a contenere e racchiudere il maggior numero di elementi possibile». E cita come esempio massimo «… quella meraviglia del mondo moderno, quel modello di ingegnosità e sapere, che era il catalogo di vendita a domicilio nordamericano, con la sua multipla offerta di colli per camicie staccabili e aratri in acciaio, giocattoli di latta e carrozzine per poppanti e sacchi di noccioline, il tutto racchiuso nelle pagine di uno stesso libro: un libro più onnicomprensivo di qualsiasi epopea. Quella tendenza all’eclettismo interiore era una nota che Arning aveva sentito risuonare nelle parole di Martin riguardo a un grande albergo per famiglie…». 

Il grande albergo per famiglie è solo il nucleo originario del progetto prometeico, del sogno, della scommessa, della sfida che occupa da sempre l’immaginazione di Martin Dressler e che prenderà forma nel Grande Cosmo. Un edificio destinato in parte a tendere verso l’alto come un grattacielo, in parte a svilupparsi sottoterra, e a replicare, sopra e sotto, tutto lo spazio del vissuto, sincronicamente e diacronicamente, a “rifare” insomma la città e in qualche modo a cancellarla. Teatro, museo, grande magazzino, il Grande Cosmo si rivela tutto meno che un hotel. 

Martin Dressler è il figlio di un negoziante di sigari che viene illuminato sulla via di Damasco il giorno in cui entra per la prima volta in un grand hotel: da fattorino a direttore, da imprenditore a “inventore” di alberghi, egli sente in quella forma particolare dell’abitare che coincide con l’ospitalità alberghiera una potenzialità di espressione prima confusamente illuminata da rivoluzionarie concezioni della “comodità”, poi sempre più nettamente fusa con l’agonistico progetto di sottrarre vita alla comunità reale per farla rifluire in un’altra comunità, in tutto simile alla prima, ma separata e onnicomprensiva. 

Va da sé che il sogno di Dressler nasce nella New York in piena trasformazione della fine dell’Ottocento, e può nascere solo lì, ma è pur anche vero che la spinta onirica finisce con il coincidere con una drammatica, tragica sospensione del tempo. Tutto quello che si muove, come sviluppo, come invenzione, come trionfo di un capitalismo dinamico e onnivoro, è riassorbito, metamorfizzato nel disegno di un altro sviluppo, di un’altra frenesia inventiva, di un altro dinamismo, tanto luminoso nel suo ardire, quanto oscuro nelle sue componenti di lucido delirio, di deriva onirica.

Come Millhauser ben fa dire a Harwinton, il nuovo genio della pubblicità, interprete e “comunicatore” dei progetti di Dressler e Arling, i nuovi alberghi incarnano il bisogno «attuale» di stare nel cuore delle cose (la città), ma di poter contemporaneamente dar seguito a quei “riti bucolici” di allontanamento che ruscelli e prati più veri del vero consentono all’interno di uno spazio concepito all’uopo e raggiungibile con un taxi. 

Nel Nuovo Dressler, seconda tappa della prometeica avventura del nostro eroe, il dodicesimo piano è tutto intitolato Museo dei Mondi Esotici con «… scrupolose riproduzioni di località come un villaggio eschimese, una valle scozzese, i giardini delle Tuiléries, i canali di Venezia (con acqua e gondole vere), uno scavo archeologico nella valle tra il Tigri e l’Eufrate, il luogo natale di Shakespeare e la giungla amazzonica, ciascuna illuminata da luci di scena multicolori e popolata di attori in costumi autentici, cosicché il visitatore aveva la sensazione parallela di trovarsi in un luogo reale, ma anche di godersi un ingegnoso effetto scenico». 

La favola che Millhauser racconta qui – e anche nel resto della sua opera – è la favola dell’adolescente, del bambino che compulsivamente continua il suo gioco per impedire alla luce dell’età adulta di scoprire il trucco. Più il gioco produce illusione, più l’illusione difende il suo trucco. Ma più l’illusione è opera, più è – contemporaneamente – approssimazione infinita alla perfezione ed esposizione al fallimento.

La nozione di american dream contiene un aspetto di forte tensione ideologica che fa dipendere il sostantivo dall’aggettivo. Nelle storie di Steven Millhauser si assiste a un ribaltamento che inverte l’ordine di dipendenza. L’americanità è inglobata e quasi divorata dal sogno. La storia del cartoonist John Franklin Payne (prima novella della trilogia Little Kingdoms) non diversamente fa perno intorno a un’idea di progresso e perfezione, a un confronto con la modernità che tuttavia si contrae intorno alla necessità della bellezza, all’esaustività promessa dall’accanimento della fantasia e dalla messa a fuoco delle tecniche espressive: lì, addirittura, l’artista-artigiano combatte la sua solitaria, sempre più solitaria, battaglia per ottenere un film d’animazione perfetto che non ha bisogno degli sviluppi ulteriori della tecnologia. E anche lì c’è New York, ci sono i piloni dei ponti inchiodati nell’oscurità della terra, i cunicoli sotterranei della metropolitana, le redazioni dei giornali, il clima eccitato degli anni Venti. C’è insomma un mondo figurale da cui discende una sorta di febbre che accende l’immaginazione.

Gli eroi di Millhauser sono di fatto febbricitanti – spesso in senso stretto –, soffrono di crisi psichiche che si traducono in alterazioni dell’equilibrio fisico: sono visionari à la Nerval, e quello che vedono sono manifestazioni molto, molto veritiere della realtà. La loro “favola” è quella di una Cenerentola che si ferma a contemplare la magia o se si vuole la magica bellezza delle scarpe da ballo, della carrozza, dei cavalli sorti dal nulla, del palazzo del principe, della notte incantata che precede l’incontro e lì si ferma, perdendo l’occasione e sviando il corso dei fatti dal lieto fine.

Non a caso, Millhauser si perde e fa perdere i suoi personaggi nella contemplazione della “macchina” che produce trucchi e illusioni: i luna park, i giardini delle meraviglie, i manichini e le marionette, gli effetti di luce, le smaglianti opere (siano esse macchinari o edifici) della tecnologia. Martin Dressler ha uno spiccato senso degli affari e lo usa, ma proprio mentre costruisce la sua fortuna si rende conto che se il successo dipende dalla capacità di dar forma a persuasive illusioni, queste illusioni sono anche il vero unico obiettivo, la poesia dell’esistente, e in quanto tale ostile alla normalizzazione e, di conseguenza, allo stesso successo, quale che sia il senso che si voglia dare a questa parola. 

Uno dei sintomi in cui viene puntualmente a rivelarsi la natura controversa dello streben dei suoi personaggi è l’eros, l’attrazione e più in generale il confronto con l’area del femminino. È lì che, con una specie di presago anticipo, comincia a manifestarsi la febbre morbosa di un equilibrio che non tiene. Il desiderio si palesa come una forza imprevista e l’amore si insinua come una domanda di alleanza o una minaccia. Il giovane Martin è sì sedotto da una donna più grande di lui, ma è solo quando diventa, nolente, oggetto delle attenzioni di una bambina che si manifesta formicolante e vertiginoso lo stordimento dell’eros dando forma a una sorta di allucinata visione: «… si accorgeva a un tratto del fruscio lieve delle sottovesti, degli scricchiolii prodotti dai corsetti, dello sfregamento delle calze di seta, un cupo e seducente suono di sete e di merletti in sottofondo, l’improvviso lampo scuro delle occhiate; intanto, passandogli accanto o sprofondando con un sospiro in divani soffici, le signore dell’atrio cominciarono a sfilarsi i lunghi abiti, a slacciarsi i bustini stretti, a lanciare in aria camiciole come palle di neve, gettando all’indietro la testa e respirando forte con le vene che pulsavano nel collo…». Come un uomo che sa di dover obbedire a un solo pensiero dominante (il lavoro, la creazione, il sogno), decide di «prendere provvedimenti per quella parte della vita alla quale aveva raramente prestato attenzione» e comincia a frequentare un bordello sulla Venticinquesima Ovest, alle spalle della Sesta Avenue, «la casa dalle finestre che vibrano». Ma non basta. Quando entrano in scena le sorelle Vernon, Caroline ed Emmeline, si instaura un rapporto complesso, misterioso, fuor di squadra, che corre parallelo alla febbre creativa (e che si apre ad ancora più intricati sviluppi attraverso gli amori ancillari). Anche qui la dipendenza amorosa scatta attraverso un processo semi-allucinatorio (un capello biondo immaginato su un divano vuoto e poi penetrato in un sogno notturno come una guizzante verminosa creatura) e somma il silenzio della svagata sonnambulica Caroline con la grazia confidente di Emmeline. Il matrimonio con Caroline coincide in realtà con la comunanza intellettuale e spirituale con Emmeline. Febbre nella febbre, il rapporto con le sorelle Vernon duplica e complica la tensione onirica di Martin Dressler, riproponendo la nervosa intesa sentimentale che Millhauser ha già evocato in Catalogo di una esposizione: larte di Edmund Moorash 1810-1846 (in Little Kingdoms). 

Là la figura fittizia di un pittore americano visionario, qui l’altrettanto visionario creatore di alberghi-mondo, e per entrambi la sofferta corona di una devozione femminile, il confronto agonistico con una tensione erotica letale, con la gravità caotica del desiderio e la sua negazione forzata. 

Molto romanticamente quello dei sognatori di Millhauser è un destino che sfocia in solitudine; nondimeno le figure femminili che li accompagnano virano dalla rapacità ansiosa della femme fatale alla specularità nevrotica dell’assenza-presenza e del tradimento. Quando Caroline si ritira, fisicamente, nelle sue stanze, in preda a una sorta di cupa regressione fra veglia e sonno, e lascia il posto alla sorella, non fa che obbedire al “progetto” nevrotico di Martin Dressler, sdoppiando ed enfatizzando i vettori tragici del sogno. Castellana («a princess in a castle») prigioniera in un maniero che quanto più cresce tanto più isola, Caroline è il sintomo di uno squilibrio e la inconsapevole battistrada del fallimento: «… Caroline era proprio come la principessa delle fiabe, sposata con il principe potente». 

Attraverso il ruolo delle figure femminili risulta evidente come Steven Millhauser abbia fatto, a suo modo, i conti con il gotico e con il racconto fantastico: creature umbratili, dominatrici e sorelle-in-spirito, le sue donne hanno una qualità di abisso o, per contro, di antidoto all’abisso. Affondano le radici nelle muliebri ossessioni di un Poe, ma guardano come di sguincio verso quelle kafkiane. Portano addosso il languore tardo-romantico di una sensibilità morbosa, ma entrano nella pagina come figure che, spiccandosi da un arazzo, mettono in scena, nel loro pallore, nei loro trasalimenti, nella stessa vitalità nervosa, una distanza che è insieme letteraria e di un realismo che attinge all’incubo.

Distanza e vicinanza. Siamo ancora lì. Millhauser è autore che porta consapevolmente in sé questi due tratti e, sommandoli, ne trae una cifra di originalità che lo consegna a una posizione difficilmente classificabile nella letteratura americana contemporanea. Leggibile come un tardo erede della post-modern fiction (dei Barth, dei Barthelme, dei Coover), Millhauser rivela tuttavia una spiccata tendenza al tragico, o quantomeno al conflitto di opposti, che attenua o addirittura spegne la dimensione ironica che è parte integrante di quella narrativa: i suoi personaggi assumono il peso del sogno con drastica determinazione e lo lasciano cadere sulla superficie liquida dell’accadere. Ne discende un racconto come progressiva immersione e dilatazione di eventi, che, mentre procede, fa percepire la tensione di uno scontro insolubile. Se per certi versi la sua opera suona “restaurativa” (il romanzo, il racconto a tutto tondo), d’altro canto la ricchezza immaginativa, la giostra del meraviglioso, la seduzione del catalogo, l’esibizione della ricostruzione (che, va sottolineato, non è mai “storica” nel senso stretto del termine) spingono l’attenzione del lettore sugli snodi, sulle giunture, sulla macchina piuttosto che sulla rotondità della narrazione. 

La “leggenda” che i suoi personaggi tendono a incarnare è sempre compresa in un orizzonte percettivo che soverchia lo stesso svolgersi della vicenda: la luce e il buio, la sfera diurna e la sfera notturna, l’emerso e il sommerso. È come se la sua ispirazione venisse, piuttosto che da un apparato documentale, da una forma mediata di oralità (voci di voci, racconti di racconti, immagini di immagini) che dilata l’esperienza convulsa del visitatore di piacevoli orrori e sgomentanti meraviglie (e in ciò verrebbe voglia di accostare lo scrittore americano all’Italo Calvino delle Città invisibili). In realtà non sappiamo mai con esattezza a quale distanza temporale e figurale le sue storie si dispongano (anche quando sono così situate come in Martin Dressler) rispetto a noi. 

Nella novella La principessa, il nano e la segreta del castello piace a Millhauser ricondurre la varietà del racconto leggendario alla molteplicità delle fonti, ma soprattutto alla duplicità del tono con cui la narrazione è stata tramandata: «Ciascuno di noi ha sentito innumerevoli versioni del racconto della Principessa. […] Il proliferare di versioni scartate, scadenti e tuttavia mai dimenticate confluiscono in un repertorio noto come “racconti del sottosuolo”, poiché nascono dalle tenebre, misteriosi come tuberi o elfi. […] Benché i racconti del sottosuolo non siano mai compresi nel ciclo principale dei racconti del castello, nondimeno son ben lontani dall’esaurirsi, anzi si moltiplicano instancabilmente, lasciando sugli altri racconti i loro ignoti colori, esercitando una misteriosa influenza. C’è chi dice che verrà un giorno in cui i racconti diuturni si sfibreranno per mancanza di nutrimento e allora i racconti del sottosuolo si leveranno dai loro luoghi di tenebra e invaderanno la terra». (La principessa, il nano e la segreta del castello, trad. di Alberto Rollo, Einaudi, Torino 1993, p. 51.)

Dunque la tenebra e il giorno. Non è un caso che, con addestratissimo senso pittorico, Millhauser accompagni questi scavalcamenti narrativi con una gamma di sostantivi e aggettivazioni relativi alla qualità della luce, alla sua intensità e all’intensità delle varianti che connotano l’oscurità. Come costantemente compresi fra il sonno e la veglia, i suoi personaggi passano la soglia dei due mondi o addirittura, come accade in Martin Dressler, quella soglia la si crea artificialmente, acciocché finalmente sia patrimonio di tutti. Dressler e i suoi collaboratori, che vivono in era pre-televisiva, pre-virtuale, pre-informatica, costruiscono, facendo sentire il rumore e la perizia delle maestranze, i mondi finti che noi – e con noi, l’autore – abbiamo imparato a riconoscere come possibili. 

Eppure lì – come in Vathek e nella vicenda biografica di William Beckford, un classico del gotico – è l’ardore dell’impresa a dare spessore all’immaginazione. Vathek e William Beckford hanno molto in comune con Martin Dressler. Il primo fa ampliare il palazzo di famiglia facendo costruire cinque palazzi che siano, ciascuno, la risposta ai sensi dai quali dipende il piacere di esistere (L’eterno e inconsumabile banchetto, Il tempio della melodia o il nettare dell’anima, La delizia degli occhi o il conforto della memoria, Il palazzo dei profumi o L’incentivo dei piaceri, Il rifugio dell’allegria o l’insidioso), a cui aggiunge una torre di millecinquecento gradini; il secondo ingaggia l’architetto James Wyatt perché trasformi la proprietà di famiglia, Fonthill, in un palazzo dominato, anch’esso, da una torre così alta che, costruita troppo velocemente, crolla e fa sì che tutta la residenza sia presto venduta. Lo scrittore William Hazlitt ebbe accesso a Fonthill dopo che era stata venduta e la descrisse come «una cattedrale trasformata in un negozio di giocattoli». 

Ed è qui che l’immaginazione di Beckford sembra allacciarsi a quella di Dressler e dunque di Millhauser. Come Vathek-Beckford, Dressler-Millhauser vede crescere il suo teatro-mondo come offerta di uno «stile di vita». La storia, la geografia, la natura e l’opera dell’uomo: tutto riunito in un solo luogo, perché il fanciullo non cresca più e possa fermarsi – nel non luogo che l’albergo può diventare – con tutto il sogno intatto prima che il giorno ridistribuisca la vita nel tempo e nello spazio. Qualcosa di analogo accade anche nel romanzo La notte dellincanto, ambientato nel Connecticut contemporaneo: una chiamata notturna di tutti i dreamers per le strade di una cittadina sprofondata nel sonno. 

Ha detto Steven Millhauser a proposito di quest’opera: «Mi piace attirare il mio lettore lontano dalla realtà convenzionale, verso un mondo parallelo che solitamente definiamo, semplificandolo, come fantastico ma che io preferisco chiamare il mondo segreto, il mondo che eclissa il reale. Questo mondo parallelo mette il primo con le spalle al muro, lo rimette in questione e impone la sua forma specifica di realtà. In generale, preferisco che il mio lettore resti là, sul sottile confine compreso tra l’uno e l’altro, gli occhi rivolti di qua e di là, contemporaneamente». 

Un tunnel. Steven Millhauser è scrittore di tunnel. Scavati fra il possibile e il terribile. Fra la Storia e l’estatica immobilità dell’incantamento. C’è in Martin Dressler qualcosa che potremmo chiamare “epica dell’impossibile”, che, in forza della sua dettagliata declinazione, in forza della ostinata pazienza con cui la scrittura la sostiene e la sfida, ci lascia inquieti e stupiti come se un “mondo segreto” ci fosse sfuggito, continuasse a sfuggirci, e Millhauser fosse lì a evocarlo, fantasma del tempo, da un passato mai trascorso, che ci riguarda.

Postfazione di Alberto Rollo a Martin Dressler, di Steven Millhauser
© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 87 / 2022

MILANO MONIMENTO

Un racconto e una visione

Mi chiede: «Dove?» E io: «All’angolo fra viale Bligny e via Röntgen». Ci sono consuetudini toponomastiche. Avanzo veloce anche perché non so lui da dove viene. È stato mio ospite e si prepara a ripartire. Abbiamo due ore e poi parte. Ci assottigliamo. Ci diamo appuntamenti da fantasmi. Eppure eccomi qui: sono anche il noto io che veloce arranca, e arrancando si stanca, ma non teme i chilometri. Soprattutto sulle strade sghembe di questa città. Evito tram e motori, mi piazzo sull’altro lato del traffico, posso restare qui per una mattinata. Non è la prima volta che do appuntamento in questo punto preciso, che non è un bar, una banca o un grande magazzino: do le coordinate, dico cosa vedo e come posso essere visto, e chi mi raggiunge mi trova. Mi piace stare lì, perché da lì comincia o finisce una storia che non è solo quella dell’Università che prendendo il nome dal suo fondatore fa pensare a una pronità sofferta o a un’assunzione di cibo sproporzionata. 

Mi piace portare lì i miei ospiti stranieri, perché suona più semplice raccontare la città. Ma sarà poi un racconto o semplicemente una visione che si è insinuata in me con la sobria autorità di una sineddoche? La nuova Bocconi. Così si dice, quando si arriva a quell’incrocio: siamo di fronte a un episodio di architettura contemporanea che ha toccato l’intelligenza urbana di chi sa guardare – e non è detto che chi passa la attivi veramente. So dove mi trovo e vedo un filo, una sorta di filo sospeso che dalle strade alle mie spalle arriva lì e continua dritto davanti a me e continua, tagliando le cerchie, prima di perdersi oltre la via che, milanesizzata nel dialettizzato roeghen, suonava, nella mia infanzia, benefico trattamento terapeutico. Nel 1931 al 17 di via Beatrice d’Este abita un poeta grande. I fantasmi, me compreso, son benvenuti, giacché in fondo siamo, in quanto fantasmi, pura attesa, sospensione del tempo, attributo del vuoto. E qui il vuoto si colma con discrezione. Il Tessa scriveva in un dialetto che suggeva piuttosto che apprendere dalle bettole, dai postriboli, dagli inferni di ladri e di puttane, e, con una voracità ignota alla piccola borghesia, butterava la sua lingua e la lacerava forte, lasciandola stracciata e seminata che cantasse. Dal 17 di Beatrice d’Este a piazza Vetra il passo è breve. Collo lungo, occhialetti tondi, s’aggirava qui intorno, dove da un anno avevano tirato su case nuove e per un anno luci poche alle finestre, come dire niente affitti. Come in una tela di Boccioni, ci sono fabbriche “né su né giò” e impalcature tante, case che crescono come funghi, e un operaio disoccupato che chiede a gran voce lavoro. Ci vedeva bene il Tessa,  vede la ragazza-bambina con il pacco chiuso con la corda (“Hoo mai vist,/ Ciana, / ona povera tosa/ come ti”) che se ne va, chissà dove. Nell’Italia “volitiva e guerriera”.  

Lui viene da una lingua insofferente, abrasiva, ed è uomo di quasi quarant’anni capace di morire di un ascesso dentale non curato – una morte che accade un anno dopo lo strazio di Antonia Pozzi suicida a Chiaravalle in una notte d’inverno. Come se ci fosse un filo in quei giovani milanesi, e una volontà. Ci vedevano bene. Milano si vede bene. Come l’aveva vista bene Umberto Boccioni, vent’anni prima, attraverso il rumore delle officine, che poi vennero definitivamente “su” a sud-ovest della città, e sono gli stessi opifici per i quali , giovane, mio padre andava fiero della classe a cui apparteneva. Avanzo in questo intreccio. Dove avesse imparato, mio padre, che il vero snodo della cultura operaia milanese fosse il “lavoro ben fatto”, non so ricostruirlo con esattezza. Più che nell’aria il concetto era nelle cose. Anche nelle cose sperate a cui guardava. Per certo il suo lavoro principiava dall’esattezza del disegno che anticipa la produzione dell’utensile. 

Devo mostrare a Mark certi disegni che mi sono rimasti. Li capirebbe. Hanno uno spessore di carta che resiste, sciami di inchiostri blu. Fu la sua – la nostra? – una tensione viva che passa immateriale anche in questo incrocio di strade e che magari ispira la dignità dei blocchi sospesi e dei canons à lumière, il cemento a vista e il ceppo grigio di Gré. Farò sentire all’amico Mark, architetto alla Georgia Tech University di Atlanta, con quanto senso del tempo e del luogo han lavorato, fra il 2002 e il 2008, Yvone Farrell e Shelly McNamara, irlandesi. Il ceppo è una citazione lombarda, ed è pietra metamorfica che, dove c’è, fa scattare la memoria urbana e, allo stesso tempo, racconta la pazienza dei fiumi, il ciottolo imbrigliato, il rosso e il bruno, il velluto quando tocchi. Anche in via Sarfatti quattro strade più in là, ah come si sente, e come si torna al Giuseppe Pagano che disegnò e distribuì spazi, filtrando luce fra i serramenti di quel verde scuro che fu per sempre suo. Quanta città di ferro. E quanta città di pietra. Quanta pensosa geometria nell’uno e nell’altro caso.Geometria che qui è diventata monumento prima ancora di sentire la presenza dei suoi interlocutori e destinatari, ed è significativo che diventi memoria prima di produrla, quasi l’intenzione fosse quella di volgere in monimento la disciplina – e qui ha un senso – delle scienze economiche e sociali. 

Mark è un uomo alto, più corpulento che grasso, d’un biondo mite da svedese. Gli piacciono i sapori e del piatto italiano lo convince anche la quantità. Averlo a tavola è una festa per chi cucina. Come artista si è inventato autore di alte cortine di tessere di carta colorata (tiles le chiama lui) che pendono a creare nubi di luce. Mark ritarda e io mi muovo. Direi quasi che precipito nel cuore della cittadella universitaria. All’angolo di via Lepoldo Sabbatini cerco in alto il balcone, la finestra da dove al ventenne redattore che ero allora il grande vecchio Cesare Musatti indicava le inferriate verdi di Pagano e indulgeva, abile nel restituire il sogno, nell’evocare l’aneddoto. Vedi, diceva, all’alba al primo risveglio non so più se son qui o nella mia Venezia e quei verdi telai orizzontali non siano riverberi delle Procuratie Vecchie. Che direbbe ora contemplando i trilli di luce metallica del Campus, la grazia nipponica di Kazuyo Sejima e di Ruye Nishizawa? Dovrebbe sporgersi, cercare in fondo alla strada. 

Sono forme. E le forme dicono la città e dicono anche il mio esserci dentro, figlio di uno spirito che non teme metamorfosi. Dove la superficie si muove in giri morbidi, ad accogliere futura classe dirigente, c’era una Centrale del Latte, anzi la Centrale del Latte – azienda municipale, sentita con orgoglio, quasi la garanzia di crescita della gioventù post-bellica si materializzasse (o si smaterializzasse?) nell’idea dell’alimento primo. 

E il bianco opaco, ricco, si scioglie per liquidità nella ricchezza trasparente dell’acqua della città, che ha una sua fama – Pinin Carpi raccontava l’incanto di scoprire, prima della guerra, in pieno centro, complice lo scavo delle fondamenta di un istituto bancario, un lago azzurro di acque sorgive. E quelle acque le si continua a immaginare sotto di noi, incanalate per condotti e vasche e fossi, tanto che, solo cinquecento metri più in là, colano, muschio rugginoso, dagli sfiatatoi della Centrale dell’acqua di via Crema. 

Mi attraversano senza fare caos, le pietre del Brembo, le frese mangia acciaio, le visioni crepuscolari di un grande investigatore d’anime, l’acqua che traluce limpida nel buio, la danza bianca del latte imbottigliato e puttane morte e bambine povere. Tutto defluisce in me, con decenza fantasmatica. 

Mi piace pensare che Milano non abbia mai smesso di nascere, e che quindi ci si possa trovare davanti a una faccia che non ha mai coinciso né con chi l’ha governata né con chi ne ha voluto dettare una presunta identità. Forzo questa sensazione, ma so anche che non è eccessiva.  Nelle forme di Milano la Storia si manifesta solo attraverso una sorta di guizzante didascalia che sfarina, che sgruma.  

C’è una folla di studenti che preme fra portici e giardini.  Portano in giro facce. Cerco Mark sul cellulare ma non risponde – lo so, è suo costume. Come fossimo quarant’anni fa ci troviamo comunque. Anzi, sono io che lo trovo.  Tiene il palmo della mano premuto sui blocchi di ceppo in via Sarfatti. L’altro Ceppo, quello di Giuseppe Pagano. Mark comincia dal principio. Io lo aspettavo a un punto del tempo più vicino. E invece lui è qui ed è perciò che ritardava. Ha una passione per il razionalismo, dice Milano ha avuto fortuna di stare negli anni Trenta senza il rischio della magniloquenza. Dice che, ad Atalanta, tiene in casa un ingrandimento della fotografia in cui appaiono intorno a una scrivania, seri e giocosi al contempo, i quattro BBPR in camice bianco, Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Perassutti ed Ernesto Nathan Rogers. Dice che sotto la targa che li ricorda a due passi da San Simpliciano puntualmente si commuove.

E allora dove vanno anche queste sue lacrime americane? Cos’è che ci tiene insieme e tiene insieme l’avventura di saperci fra gli storditi cespugli della nostra Storia? Ci sediamo a terra davanti a una vetrata del Campus: ci sono sedie, tavoli, computer e al di là un cortile verdissimo. Mark deve partire per Barcellona, ma siede tranquillo: è venuto per mettere ancora un po’ della mia Milano dentro la sua Milano. Una sua parola chiave è detail. Vede dettagli ovunque, e io gli sono grato perché li vedo, a volte, per la prima volta insieme a lui: una maniglia, un corrimano, un marcapiano invisibile, una fonte di luce. Lo rivedo salire la scala elicoidale di Casa Corbellini-Wassermann di Piero Portaluppi e tutto carezzare, assorbire, tradurre via pelle alla memoria, anche le ombre artigliate ai marmi. Vien da chiedersi senza indulgere al vittimismo cosa faremo di tutta questa ricchezza. Dice che non abbiamo idea di quanti dettagli invisibili è fatta questa città. E i dettagli risvegliano l’arte del “far bene” sulla quale si intestardiva mio padre. Lui forse non sarebbe stato preda di queste forme, ma altre avrebbe esaminato con il lentino e avrebbe provato la letizia dell’opera compiuta e utile. Dove sono gli strappi la città si ingorga, soffoca, non parla. Da troppo tempo sappiamo che il presente è l’accadere degli inciampi, e di inciampi sarebbe bene discettassero i nostri libri di lettura. La grammatica. Le frasi giuste. La bella scrittura. Perché di tutto si dia conoscenza. 

Mark si allontana, lo seguo, ritorniamo assieme alla “nuova Bocconi”: gli racconto di Tessa e del suo ascesso letale e dei suoi versi ferali (traduco all’impronta dal milanese e all’inglese, con soddisfatta approssimazione). Abbiamo bisogno dell’amicizia dei fantasmi, d’una bambina povera come mai ne ho viste, d’un poeta a cui si ferma il cuore davanti a un pioppo caduto, d’un architetto che, fascista per vent’anni, muore in un lager quindici giorni prima che arrivino i russi a liberarlo. Sia lode ora, agli uomini di fama, che ci crescono dentro prima che torni un altro buio.