Alberto Barbera

ARTICOLO n. 64 / 2022

NUOVE PAROLE PER DIRE CINEMA

Intervista di Fabio Bozzato

Contro i film, contro il cinema, contro i festival e contro Venezia: si può celebrare così la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il più longevo festival di cinema al mondo? Alberto Barbera si lascia andare a una risata, ma non si tira indietro. Anzi, apre le riflessioni seguendo proprio quel filo. Intanto la Mostra che lui dirige dal 2011 (oltre a un precedente periodo dal 1998 al 2002), compie 90 anni ed è sul punto di inaugurare la sua 79ma edizione (31 agosto – 10 settembre). 

Fabio Bozzato: Possiamo dire che le parole “film” e “cinema” non bastano più? Possiamo archiviarle? Se si va in qualche grande esposizione d’arte, ci si imbatte spesso in artisti che usano il linguaggio filmico in modo strepitoso, magari multicanale o a 360°. Se si accede a una piattaforma, si finisce ammaliati dalle serie: hanno sfigurato durata e architettura narrativa dei classici film e non poche sfoggiano una qualità di scrittura e di direzione impeccabili. Dobbiamo inventare nuove parole?

Alberto Barbera: Sì, ci possono sembrare strette, a meno che non inglobiamo tutto ciò che viene realizzato in ambiti diversi dell’audiovisivo, contigui e strettamente collegati, sotto la stessa parola che è “cinema”. E forse è la cosa corretta da fare: il cinema non può essere ciò che abbiamo conosciuto nel XX secolo, canonizzato in uno spettacolo da 90 minuti, dentro una sala, con un certo sviluppo narrativo.

Il cinema, come le altre arti, cambia continuamente ma molto più velocemente rispetto alle altre. Questo dipende da un elemento che distingue il cinema dal resto delle espressioni artistiche: la base tecnologica. Proprio la rapidità della trasformazione tecnologica ha un’influenza così forte su quello che consideriamo “cinema”, in particolare sulla parte creativa, artistica, narrativa. Riscrivere la storia del cinema da questo punto di vista sarebbe estremamente interessante.

Il cinema è una storia di continue trasformazioni tecnologiche. Pensiamo al passaggio dal muto al sonoro: il muto nel giro di due decenni arriva a codificare un linguaggio che si fa maturo, espressivo, efficacissimo; ma quando appare il sonoro, è una rivoluzione: inventa un nuovo linguaggio e fa terra bruciata del vecchio, la parola prende centralità, cambia il rapporto con le immagini. È come se tra il 1926 e il 1929 fosse morta una lingua. Poi è cambiato il formato degli schermi e in seguito le tecnologie leggere, tra macchine e pellicole, hanno segnato la Nouvelle Vague; infine il digitale, il cambiamento forse più pesante e ancora in corso. Se ci pensiamo, il cinema è uscito dal Novecento stravolto. E così arriviamo alle piattaforme e al successo delle serie.

F.B. In questo caso la serie stravolge l’idea stessa di film.

A.B. Assolutamente e la chiave è il tempo. Una volta si faceva un film che doveva stare tra i 90 e i 120 minuti, con poche eccezioni. Le eccezioni si andava a vederle proprio perché erano un’eccezione. Nel film tutto finiva modellato su quella durata di tempo, compresa la narrazione, i dettagli, i caratteri, la psicologia dei personaggi. Le serie, con il loro ritmo di episodi e di stagioni, abbattono quei limiti e quelle convenzioni. E se incontriamo una straordinaria qualità, è perché spesso a dirigerle sono gli stessi registi che fanno film e portano nella serie tutto il know-how e il talento. Non hanno più i limiti che il cinema gli impone, scoprono una libertà espressiva inedita, percorsi narrativi di così ampio respiro prima impossibili. Non è un caso che molti romanzi storici non abbiano quasi mai avuto una compiuta traduzione filmica, che invece le serie permettono. Significa prendere il meglio del linguaggio cinematografico e trasferirlo in un marchingegno narrativo dalle opportunità enormi.

A ben vedere le contaminazioni sono state reciproche. Negli ultimi anni, ad esempio, è aumentata la durata di molti film e oggi le tre ore sono assolutamente accettate: è come se quel regista dopo aver sperimentato la serie non voglia più rinunciare alle possibilità del tempo lungo e profondo. Ma la durata dei film ha implicazioni anche sulle sale, sulle programmazioni, sul pubblico.

Quindi, per tornare alla parola “cinema”, possiamo davvero non considerare le serie una forma di cinema? Così è per la realtà virtuale: Venezia è il primo festival a fare una sezione ad hoc, cercando di capirne tutto il risvolto creativo e artistico, al di là della tecnologia; in questo caso non solo osserviamo tutte le conseguenze sulla durata (più breve, anche per gli effetti di disorientamento che ancora produce), ma pure sullo spazio filmico che diventa tridimensionale, sullo spettatore che non è più fuori dalla pellicola ma è dentro, immerso nell’universo filmico. Allora quella parola, “cinema”, sembra davvero resistere a tutto: sborda, si espande, ingloba, ha una capacità di adattamento incredibile. 

F.B. Accennava alle sale: è l’altro elemento cardine, un luogo che è già rito. Tuttavia, sarà effetto della pandemia e dei lockdown, ma il desiderio della sala non sembra esserci tornato. È uno dei pezzi della filiera che più ha sofferto e soffre. Ci può essere cinema senza le sale?

A.B. C’è un bellissimo libro di Francesco Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene (Bompiani, 2015, pag.442). Casetti è uno dei migliori teorici italiani di cinema, che da anni insegna a Yale negli Stati Uniti. In questo libro si interroga sulla possibilità di vedere film a casa, sull’iPad, sul cellulare seduti in metro o in bus. E si chiede: quello è ancora cinema? Lui dice: certo che lo è. Il fatto che per decenni siamo andati a vedere il film in una sala è in realtà legato a una limitazione tecnologica, un limite non connaturato ontologicamente alla natura del linguaggio cinematografico.

Certo, se la domanda invece è: qual è la forma migliore per vedere un film? La risposta sarà sempre: in sala. Non c’è paragone, è un’esperienza di visione impagabile. Penso al fatto che sul grande schermo si vedono dettagli impercettibili rispetto a uno piccolo; penso alla dimensione collettiva della visione che innesta nel film qualcosa in più rispetto a una esperienza individuale. Ma il fatto di poterlo vedere da soli e su un altro supporto non toglie nulla al suo essere un’esperienza di cinema.

In questo processo di trasformazione, che la pandemia ha solo accelerato e reso più visibile, le sale sono l’anello più debole. Siamo in un momento di transizione così forte che riusciamo a intravvedere la direzione ma non sappiamo il punto di caduta. Secondo me si andrà verso un assestamento, nella coesistenza di vari sistemi di visione, distribuzione, programmazione. Ma sapendo che in questa molteplicità di soluzioni, solo in una sala si potrà fare un’esperienza sensoriale che non ha rivali: penso al nuovo film di James Cameron, Avatar 2, sarà qualcosa senza precedenti, una forza d’urto che si vivrà solo in sala.

Ma penso anche ad un’altra cosa: molti film passano nei festival e non arrivano alla distribuzione; una volta si pregava di trovarli in un cine-club, ora invece li si può trovare in una piattaforma: questo ha fatto solo del bene al cinema.

F.B. A proposito di festival, Venezia festeggia i 90 anni. Un tempo i festival misuravano la temperatura della cinematografia, testavano lo stato dell’arte in giro per il mondo, qui si incontravano produttori, distributori, critici, erano il tempio del glamour. Ma oggi, che tutto questo sembra smarrito e smaterializzato, a cosa servono i festival, al di là della messinscena di un grande evento?

A.B. Paradossalmente servono ancora più di prima. C’è stato un momento, all’inizio del nuovo millennio, in cui i festival sono apparsi poco attrattivi. Ad eccezione dei film indipendenti, per i quali i festival da sempre sono il luogo di visibilità per eccellenza, ai grandi studios partecipare è sempre stato estremamente costoso e con rischi di flop inutili da correre. Così, a un certo punto hanno pensato ad altri strumenti più controllabili, ad esempio portare i giornalisti a una convention di lancio, in un posto magnifico: a volte non facevano neanche vedere il film, eppure ottenevano una visibilità a pioggia in tutto il mondo. Per un po’ è sembrato il modo migliore. Ma si sono resi conto molto rapidamente che mancava quel qualcosa in più che solo un festival sa dare: il rituale. È il rituale che crea un effetto di moltiplicazione dell’attesa e di svelamento. È impagabile l’esperienza del festival, tant’è che se un film non viene scelto o la produzione non può partecipare, quel qualcosa in più viene ricreato artificiosamente per il lancio: il tappeto rosso, l’attesa, la selva di fotografi. L’esperienza fisica torna ad essere imperdibile.

F.B. È l’effetto della prossimità dei corpi. 

A.B. Esatto, non a caso, per ritornare al discorso sulle sale, quando si discute su come trasformarle, si finisce sempre per puntare su un di più di esperienziale. Per cui si parla di ambienti multi-funzioni e molto curati, sempre più accoglienti ed eleganti; si parla di poter incontrare il regista, l’autore o l’attore alla fine del film. Insomma, poter vivere in piccolo l’unicità dell’esperienza. È questo che spiega come, invece di tramontare, i festival nel lungo periodo si siano rafforzati. Prendiamo una grande produzione che lavora con le piattaforme, pensiamo a Netflix: tre quarti dei film che produce sono commerciali e pop, ma per quelli su cui investe centinaia di milioni di dollari vuole il meglio dell’esperienza di marketing e di visibilità. Pensiamo a Roma di Alfonso Cuarón o Il potere del cane di Jane Campion e a tutti quei lavori per cui Netflix fa l’impossibile per portarli prima di tutto a un festival. Sembra un paradosso, no? Queste grandi imprese, che hanno puntato tutto sulla smaterializzazione della filiera cinematografica, sentono di dover dipendere dall’esperienza fisica più tradizionale per rendere il prodotto un must.

F.B. Restiamo sui festival. È storica la rivalità tra Venezia e Cannes. L’anno scorso Variety ha definito Cannes «la più ricercata, sfavillante, elegante celebrazione del cinema al mondo». Il critico Gian Piero Brunetta, che ha appena dato alle stampe la prima storia della Mostra del Cinema di Venezia, edito da Marsilio e dalla stessa Biennale, ha detto: «Il primato di Cannes non è messo in discussione». Cosa resta allora di Venezia dopo 90 anni?

A.B.
Il primato riguarda le dimensioni del festival di Cannes: è quello che attira il mercato più grande del mondo, ha il maggior numero di accreditati e smuove la maggior parte dei professionisti che lavorano nell’industria cinematografica. Non è sempre stato così. Ma Venezia sconta varie cose. Prima di tutto il decennio dopo il Sessantotto, in cui è rimasta smarrita e ha rinunciato ad assegnare i premi ai film.

È ripartita nel 1979, peraltro molto curiosa, sperimentando nuove formule di festival, anticipando soluzioni che poi gli altri hanno copiato. Ma nel frattempo le strutture sono rimaste ferme, sia di sale che di ammodernamento tecnologico: tutte cose che gli altri hanno invece fatto, prima di tutto Cannes, che ha investito e costruito e ha scommesso sul mercato del cinema e su tutto il mondo del business legato al cinema. Produttori, distributori, buyers, finanziatori: tutti quelli che fanno affari con il cinema si trovano là. Venezia non può competere su quel terreno, ma sì sulle anticipazioni, le innovazioni, gli immaginari, i nuovi orizzonti creativi e tecnologici, il prestigio. In questo senso Venezia e Cannes primeggiano su fronti diversi a livello internazionale.

F.B. Tutto questo in un contesto italiano in cui si produce una montagna di film. Lei stesso ha lanciato l’allarme per la pessima qualità e per il «rischio di una bolla speculativa», come l’ha definita presentando questa edizione del festival. Perché è così desolante il panorama italiano?

A.B. In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni ’60, lo dico sempre un po’ esagerando perché a quei tempi si arrivava a 400 titoli. Nell’ultimo anno ne abbiamo contati 250, più del doppio degli anni scorsi ed erano già troppi. Erano troppi per la capacità di assorbimento del mercato, visto che non più di 80 o 85 hanno mai trovato una distribuzione nelle sale. Il nostro è un mercato piccolo, abbiamo la metà del numero di sale che ci sono in Francia, meno che in Germania e Inghilterra.

Cosa è successo? Per una serie di fattori, il settore audiovisivo si è trovato d’improvviso sommerso di risorse economiche: la tax credit al 40%, le sovvenzioni ministeriali che ogni anno contribuiscono a finanziare almeno 80 titoli, e poi Rai Cinema che ci mette 82 milioni di euro, cui si aggiungono i 280 milioni del Ministero della Cultura. Sommiamo l’attivismo in crescita delle Film Commission che sono soprattutto agevolazioni e contributi indiretti e siamo di fronte a una cosa mai vista.

Il problema è che sono stati usati male: tutti sono corsi a fare film, sono sbucate dai cassetti sceneggiature ferme da anni, si è girato in tempi rapidissimi con attori, tecnici, autori, montatori, direttori della fotografia tutti iper-impegnati e che si accavallavano nelle produzioni. Tutto questo poteva non influire nella qualità dei film? La prova ci è apparsa sotto gli occhi durante le selezioni: qui sono arrivati almeno 200 di quei 250 titoli e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili. A parte i film selezionati e pochi altri che purtroppo non siamo riusciti a inserire in programma, il resto era inguardabile.

Così, se l’anno scorso avevo spezzato una lancia a favore del cinema italiano, provando a dare fiducia, quest’anno ho dovuto lanciare un allarme. Gli standard minimi di qualità sono la garanzia del rapporto di fiducia con lo spettatore, è una relazione che non puoi spezzare. Il risultato è che il pubblico non va a vedere film italiani, siamo tornati un po’ come negli anni ’90 quando la credibilità era precipitata. Certo, tutti sono contenti per aver fatto un sacco di soldi, ma per cosa?

F.B. Allora proviamo a tornare a novant’anni fa: cosa è rimasto di quella prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia? 

A.B. Forse è rimasta l’intuizione di fare qualcosa senza precedenti. E di farlo in quel contesto: le prime tre edizioni del festival sono state fatte con grande libertà, il regime non aveva ancora compreso fino in fondo il potenziale del festival. Ma quell’idea iniziale, di valorizzare il cinema come espressione d’arte, riconosciuta come tale dalla Biennale d’arte da cui prende forma, beh è qualcosa di unico.

È il cinema di qualità, il cinema d’autore, l’abilità nel combinare autorialità e capacità di rivolgersi a una platea vasta di spettatori. Peraltro, quest’ultimo elemento mi sembra prezioso e non scontato. C’è stato un tempo in cui si credeva che l’impatto sul pubblico fosse secondario, che l’importante fosse il gesto creativo che il pubblico doveva subire. Oggi non è più possibile, oggi il pubblico è uno dei protagonisti dell’opera. Prima ancora di mettersi a scrivere e a girare, ci si deve chiedere: per chi faccio il film? A chi mi rivolgo? E soprattutto: come faccio a coinvolgere chi mi guarda dentro al mio atto creativo? È stato questo anche il criterio di selezione che ci ha caratterizzato in questi ultimi dieci anni.

Quindi, per tornare a quelle primissime edizioni: questi interrogativi erano già presenti come intuizione. C’era il meglio della produzione dell’anno, in arrivo da tutti i paesi con scuole di cinema, dagli Usa al Giappone, dalla Russia alla Francia. Si presentava una vera forma d’arte con una curiosità e un’attenzione sorprendenti per l’epoca, articolando la scelta anche tra i film per ragazzi, i film documentaristici e scientifici, lo sguardo alle tecnologie. Quell’idea, il provare in qualche modo ad anticipare le trasformazioni del cinema, cos’è se non una tensione al futuro?

ARTICOLO n. 23 / 2021

Quale futuro per i festival?

Dazed and confused. Così ci siamo sentiti. Ancora lo siamo. Come nella canzone dei Led Zeppelin, involontaria colonna sonora di questa lunga e inconclusa pandemia. Tuttavia, da pochi giorni, anche in Italia le sale cinematografiche hanno ottenuto il via libera alla riapertura, seppure con molte restrizioni. Pochi Paesi ci avevano preceduto, anche se di poco (Spagna, Inghilterra, Stati Uniti), altri seguiranno (la Francia).

Gli interrogativi legati a questa ripartenza che ci si augura definitiva – dopo quella illusoria dello scorso settembre, vanificata dalla seconda e dalla terza ondata del virus – sono numerosi e alimentati da un’aura d’inquietudine neppur troppo sottile. Tornerà il pubblico a frequentare le sale dopo la lunga abitudine alla comodità che le piattaforme hanno generato e continueranno a sfruttare con cinica determinazione? Saprà l’industria cinematografica risollevarsi dopo essere stata messa in ginocchio dalla pandemia, al pari di tutti gli altri settori dedicati alla creazione artistica?

Altri interrogativi riguardano le possibilità di sopravvivenza dei distributori, soprattutto quelli indipendenti, che hanno garantito il funzionamento di un modello di diffusione dei film che dura da più di un secolo; o la capacità di tenuta delle produzioni tradizionali a fronte dell’enorme potenziale d’investimento dei nuovi soggetti che sono i veri padroni delle piattaforme web. Alcuni iniziano anche a chiedersi quale futuro si stia ridefinendo per i festival di cinema.

Tra i molti a farsi queste e altre domande, anche Paul Schrader, grande sceneggiatore e regista (American Gigolo, Mishima, il recente First Riformed), molto attivo sui social e la sua pagina Facebook.

Anche lui, come altri, ritiene che il cinema così come abbiamo imparato a conoscerlo, ad appassionarcene e ad amarlo, sia in remissione. Che la pandemia abbia disabituato lo spettatore alla tradizionale forma di spettacolo della durata canonica di 90-120 minuti. Che sia in atto una sorta di mutazione antropologica messa in moto dalla dipendenza dalle serie, caratterizzate dalla loro lunghezza indefinita e dal rituale episodico della narrazione. Che il futuro dello spettacolo in sala sia legato alla capacità di dar vita a esperienze basate su eventi per i quali si renda necessario e inevitabile uscire dalla propria casa, o alla costruzione di un vincolo come quello che s’induce in uno spettatore quando è spinto a diventare membro di un cineclub.

Ascoltiamolo: «Penso che questa trasformazione corrisponda al terzo cambiamento tettonico nella storia del cinema. Il primo avvenne dopo Nascita di una nazione, quando ci si rese conto che si potevano fare un sacco di soldi mettendo una moltitudine di persone dentro una grande sala buia senz’aria condizionata. Così nacquero i grandi cinema dell’epoca del muto, e tutte quello che ne seguì. Il secondo cambiamento si produsse quando il cinema dovette fare i conti con la televisione e, ironicamente, ciò avvenne nello stesso momento della comparsa dei film intelligenti, i film seri che da noi John Frankenheimer e Arthur Penn furono tra i primi a realizzare, mentre in Europa tutto era iniziato con il Neorealismo italiano. Improvvisamente, c’era stata data un’altra ragione per andare al cinema. Quanto al terzo cambiamento…beh, tutto mi è risultato più chiaro quando, parlando con un mio parente che abita nel Michigan, alla domanda “Che tipo di film guardi?”, mi sono sentito rispondere: “Io guardo Netflix”. In quel momento ho compreso il genio di Reed Hastings (il fondatore di Netflix, ndr.)».

Detto in estrema sintesi, la grande intuizione di Hastings consiste nell’aver ribaltato una consuetudine durata alcuni decenni, che consisteva per lo spettatore nella scelta del film per il quale avrebbe deciso di uscire di casa per andare al cinema.

Con Netflix, oggi è sufficiente accendere il proprio televisore e scegliere da un menù vastissimo, che contiene film per tutti gusti (polizieschi, commedie, film di guerra, documentari, persino grandi film d’autore – Martin Scorsese, Alfonso Cuaron e, a breve, Jane Campion – con la produzione dei quali il colosso del web sembra volersi vendicare degli studios hollywoodiani che gli avevano dichiarato guerra agli inizi). Paul Schrader muove considerazioni interessanti in merito ai cambiamenti che questo modello di consumo induce nell’estetica del cinema. Per esempio, il fatto che l’arte del film consista «nella capacità di comporre storie concise che atterrano come un pugno in faccia», mentre nel caso della serialità televisiva il primo episodio serva a costruire un modello che i registi successivi (che possono essere persone diverse) si limitano a seguire e a duplicare.

Un’altra differenza consiste nel fatto che il cinema è un director’s medium (cioè il frutto della creatività di un regista, che controlla l’intero processo), mentre la serie è un writer’s medium, cioè il risultato del lavoro di uno sceneggiatore (salvo eccezioni, come nel caso di David Fincher, ideatore regista e produttore della serie Mindhunter). Anzi di una writers’ room, cioè un gruppo di sceneggiatori che sono costretti a lavorare insieme e debbono per forza scendere a compromessi tra di loro: «così viene meno l’idea di una voce forte, singolare, ciò che rende un film di Woody Allen, per esempio, una sua inconfondibile creazione. Non puoi guardare un film di Allen senza renderti conto che stai guardando un film di Allen, mentre un sacco di serie rivelano l’impronta della committenza».

Ancora. Vedere Nomadland (da poco premiato con l’Oscar per il miglior film) al cinema non è la stessa cosa che vederlo sulla piattaforma che pure lo ospita in contemporanea. Perché se hai scelto di andare a vederlo in una sala provi un diverso tipo di coinvolgimento: resti a vederlo fino alla fine anche se non ti piace, mentre a casa puoi mollare la visione in qualunque momento, se non ti soddisfa fino in fondo.

Facciamo un passo indietro, anzi di lato. Abbiamo seguito sinora Schrader nella conversazione con Richard Brody, pubblicata su The New Yorker il 22 aprile scorso (ci torneremo fra poco). Proviamo ora a domandarci che cosa sia cambiato invece nell’universo parallelo dei festival cinematografici in seguito alla pandemia. Moltissimi sono stati costretti a cancellare la loro edizione, alcuni per due volte di seguito. Lo sappiamo dall’assillante bollettino delle perdite non solo umane con il quale i media ci hanno tenuto costantemente informati, durante il lockdown totale o parziale che dura da quindici mesi. Sappiamo anche che molti di questi non troveranno la forza e le risorse per ripartire, una volta che saremo ritornati a una qualche forma di normalità.

Pochissimi si sono potuti svolgere «in presenza», benché costretti a rinunce e limitazioni imposte dai protocolli di sicurezza, con meno film in programma e la capienza delle sale ridotta alla metà. Poi c’è il caso, molto interessante, di numerose altre manifestazioni che hanno scelto la via del web, affidandosi alle risorse della virtualità pur di non scomparire o, in alcuni casi, optando per soluzioni ibride in grado di garantire una qualche forma di fruizione in presenza per un numero limitato di spettatori, mentre agli altri potenziali fruitori veniva offerta la possibilità di collegarsi in streaming per vedere i film che altrimenti sarebbero stati loro negati.

Doveroso chiedersi, a questo punto, se quest’ultimo sia destinato a diventare il paradigma festivaliero del futuro, se sia possibile e/o auspicabile una coesistenza di diversi modelli di fruizione a vantaggio di tutti, o se non sia invece necessario un grande sforzo collettivo per garantire la sopravvivenza di spazi reali, fisici, non virtuali, destinati alla tutela e alla valorizzazione dei prodotti artistici.

La risposta non può che essere plurima, a seconda delle diverse tipologie di festival con cui si ha a che fare. Non credo ci possano essere dubbi sul fatto che l’enorme quantità di piccole e medie manifestazioni specializzate, destinate alla circolazione e alla promozione di cortometraggi, documentari e film minori che difficilmente possono contare su di un mercato in grado di garantire loro una circolazione ampia e uno sfruttamento commerciale di dimensioni significative, siano enormemente avvantaggiate dalla possibilità di servirsi delle risorse offerte dallo streaming per mostrare i film selezionati.

A fronte di una diminuzione dell’effetto di promozione territoriale (il legame con la città o la regione di svolgimento), l’occasione di aumentare in maniera significativa il numero degli spettatori virtuali risulta alquanto allettante e potenzialmente remunerativa. Recenti esperienze in questo senso suonano a conferma di quanto affermato: gli spettatori, abituati ad utilizzare le piattaforme, sembrano assai più propensi a connettersi da casa con un festival, piuttosto che affrontare spostamenti impegnativi a fronte di costi non indifferenti e incertezza sulla qualità delle proposte.

L’ampliamento della platea potenziale, che si affianca a quella reale, non ha solo un effetto di promozione dell’immagine di un festival e di gratificazione degli obbiettivi culturali della proposta, ma può tradursi in un ritorno economico che risuona positivamente a vantaggio di tutti i soggetti coinvolti: organizzatori, produttori dei film e gestori delle piattaforme utilizzate.

Diversa la situazione dei grandi appuntamenti che si suole definire con il termine di «generalisti», come Venezia, Cannes, Berlino, Toronto, San Sebastian, Telluride, New York, Locarno, Busan e Tokyo (per citare solo i festival più noti e di maggior prestigio). In questi casi, le funzioni principali che ne presiedono e giustificano l’esistenza – celebrare l’arte e la creatività cinematografica, contribuendo alla sua affermazione al di là delle ragioni economiche e produttive sottese, e servire nello stesso tempo alla giusta causa della promozione dei film in vista della loro imminente distribuzione nei circuiti esistenti (quello tradizione delle sale cinematografiche e quello nuovo rappresentato dalle piattaforme) – non possono prescindere dallo spazio fisco entro il quale interagiscono tutti i soggetti che partecipano alla sua realizzazione: autori, critici, giornalisti, operatori professionali, cinefili e semplici spettatori occasionali, attirati dalla curiosità dell’evento e dalla presenza delle star.

È una cerimonia complessa e articolata, affidata a riti che si ripetono sempre uguali, ciascuno dei quali (pur nella diversità dei pesi e dell’importanza che gli si vuole attribuire) svolge una funzione essenziale per il conseguimento del risultato finale: il tappeto rosso, la conferenza stampa, photo TV e radio call, la successione interminabile delle interviste, l’incontro con il pubblico, il rituale degli autografi, le master class, la cerimonia della consegna dei premi. E, naturalmente, su tutto e prima di tutto, l’esperienza della proiezione in una sala perfettamente attrezzata, che presuppone la garanzia delle migliori condizioni di visione possibili e la partecipazione all’emozione della scoperta di un film inedito con altri spettatori: elemento, questo, che nessun succedaneo virtuale è in grado di surrogare, né tantomeno di sostituire. La prevalenza del fattore umano: se mai la pandemia è servita a qualcosa, il suo apporto è consistito anche nell’aver favorito la riscoperta del valore insostituibile della condivisione dal vivo di uno spettacolo, di un evento.

Tutt’al più, nell’immediato futuro – in cui assisteremo all’istaurazione di una normalità nuova che avrà alcuni tratti in comune con quella a cui eravamo abituati e altri inediti – i festival impareranno a sfruttare al meglio le risorse che la tecnologia e l’intelligenza artificiale mettono a nostra disposizione per migliore la qualità dei servizi offerti ai partecipanti (conferenze stampa e interviste online, panel con protagonisti da tutto il mondo che non si sarebbero altrimenti potuti spostare, potenziamento delle occasioni di promozione degli autori e delle loro opere, anche proiezioni in streaming per i film ancora privi di distribuzione).

Una certa qual forma di contaminazione o, se si preferisce, di integrazione fra la dimensione fisica e quella virtuale sarà dunque inevitabile e persino auspicabile. Ma poiché si è fatto ripetutamente ricorso a termini quali cerimonia riti e rituale, conviene concludere con Paul Schrader che «in un certo senso, andare al cinema in passato era come andare in chiesa. Non esci dalla chiesa perché ti annoi. Ci sei andato per annoiarti». Diciamocelo allora, restando nella metafora: se la vita è noia (Sartre, Leopardi, Moravia), il cinema è pur sempre il miglior modo di annoiarsi, e un festival in presenza, in totale condivisione con una moltitudine di altri esseri umani, è la più alta forma di celebrazione di questo insondabile e insostituibile mistero noioso che è il culto della Settima Arte.