ARTICOLO n. 64 / 2022
NUOVE PAROLE PER DIRE CINEMA
Intervista di Fabio Bozzato
Contro i film, contro il cinema, contro i festival e contro Venezia: si può celebrare così la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il più longevo festival di cinema al mondo? Alberto Barbera si lascia andare a una risata, ma non si tira indietro. Anzi, apre le riflessioni seguendo proprio quel filo. Intanto la Mostra che lui dirige dal 2011 (oltre a un precedente periodo dal 1998 al 2002), compie 90 anni ed è sul punto di inaugurare la sua 79ma edizione (31 agosto – 10 settembre).
Fabio Bozzato: Possiamo dire che le parole “film” e “cinema” non bastano più? Possiamo archiviarle? Se si va in qualche grande esposizione d’arte, ci si imbatte spesso in artisti che usano il linguaggio filmico in modo strepitoso, magari multicanale o a 360°. Se si accede a una piattaforma, si finisce ammaliati dalle serie: hanno sfigurato durata e architettura narrativa dei classici film e non poche sfoggiano una qualità di scrittura e di direzione impeccabili. Dobbiamo inventare nuove parole?
Alberto Barbera: Sì, ci possono sembrare strette, a meno che non inglobiamo tutto ciò che viene realizzato in ambiti diversi dell’audiovisivo, contigui e strettamente collegati, sotto la stessa parola che è “cinema”. E forse è la cosa corretta da fare: il cinema non può essere ciò che abbiamo conosciuto nel XX secolo, canonizzato in uno spettacolo da 90 minuti, dentro una sala, con un certo sviluppo narrativo.
Il cinema, come le altre arti, cambia continuamente ma molto più velocemente rispetto alle altre. Questo dipende da un elemento che distingue il cinema dal resto delle espressioni artistiche: la base tecnologica. Proprio la rapidità della trasformazione tecnologica ha un’influenza così forte su quello che consideriamo “cinema”, in particolare sulla parte creativa, artistica, narrativa. Riscrivere la storia del cinema da questo punto di vista sarebbe estremamente interessante.
Il cinema è una storia di continue trasformazioni tecnologiche. Pensiamo al passaggio dal muto al sonoro: il muto nel giro di due decenni arriva a codificare un linguaggio che si fa maturo, espressivo, efficacissimo; ma quando appare il sonoro, è una rivoluzione: inventa un nuovo linguaggio e fa terra bruciata del vecchio, la parola prende centralità, cambia il rapporto con le immagini. È come se tra il 1926 e il 1929 fosse morta una lingua. Poi è cambiato il formato degli schermi e in seguito le tecnologie leggere, tra macchine e pellicole, hanno segnato la Nouvelle Vague; infine il digitale, il cambiamento forse più pesante e ancora in corso. Se ci pensiamo, il cinema è uscito dal Novecento stravolto. E così arriviamo alle piattaforme e al successo delle serie.
F.B. In questo caso la serie stravolge l’idea stessa di film.
A.B. Assolutamente e la chiave è il tempo. Una volta si faceva un film che doveva stare tra i 90 e i 120 minuti, con poche eccezioni. Le eccezioni si andava a vederle proprio perché erano un’eccezione. Nel film tutto finiva modellato su quella durata di tempo, compresa la narrazione, i dettagli, i caratteri, la psicologia dei personaggi. Le serie, con il loro ritmo di episodi e di stagioni, abbattono quei limiti e quelle convenzioni. E se incontriamo una straordinaria qualità, è perché spesso a dirigerle sono gli stessi registi che fanno film e portano nella serie tutto il know-how e il talento. Non hanno più i limiti che il cinema gli impone, scoprono una libertà espressiva inedita, percorsi narrativi di così ampio respiro prima impossibili. Non è un caso che molti romanzi storici non abbiano quasi mai avuto una compiuta traduzione filmica, che invece le serie permettono. Significa prendere il meglio del linguaggio cinematografico e trasferirlo in un marchingegno narrativo dalle opportunità enormi.
A ben vedere le contaminazioni sono state reciproche. Negli ultimi anni, ad esempio, è aumentata la durata di molti film e oggi le tre ore sono assolutamente accettate: è come se quel regista dopo aver sperimentato la serie non voglia più rinunciare alle possibilità del tempo lungo e profondo. Ma la durata dei film ha implicazioni anche sulle sale, sulle programmazioni, sul pubblico.
Quindi, per tornare alla parola “cinema”, possiamo davvero non considerare le serie una forma di cinema? Così è per la realtà virtuale: Venezia è il primo festival a fare una sezione ad hoc, cercando di capirne tutto il risvolto creativo e artistico, al di là della tecnologia; in questo caso non solo osserviamo tutte le conseguenze sulla durata (più breve, anche per gli effetti di disorientamento che ancora produce), ma pure sullo spazio filmico che diventa tridimensionale, sullo spettatore che non è più fuori dalla pellicola ma è dentro, immerso nell’universo filmico. Allora quella parola, “cinema”, sembra davvero resistere a tutto: sborda, si espande, ingloba, ha una capacità di adattamento incredibile.
F.B. Accennava alle sale: è l’altro elemento cardine, un luogo che è già rito. Tuttavia, sarà effetto della pandemia e dei lockdown, ma il desiderio della sala non sembra esserci tornato. È uno dei pezzi della filiera che più ha sofferto e soffre. Ci può essere cinema senza le sale?
A.B. C’è un bellissimo libro di Francesco Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene (Bompiani, 2015, pag.442). Casetti è uno dei migliori teorici italiani di cinema, che da anni insegna a Yale negli Stati Uniti. In questo libro si interroga sulla possibilità di vedere film a casa, sull’iPad, sul cellulare seduti in metro o in bus. E si chiede: quello è ancora cinema? Lui dice: certo che lo è. Il fatto che per decenni siamo andati a vedere il film in una sala è in realtà legato a una limitazione tecnologica, un limite non connaturato ontologicamente alla natura del linguaggio cinematografico.
Certo, se la domanda invece è: qual è la forma migliore per vedere un film? La risposta sarà sempre: in sala. Non c’è paragone, è un’esperienza di visione impagabile. Penso al fatto che sul grande schermo si vedono dettagli impercettibili rispetto a uno piccolo; penso alla dimensione collettiva della visione che innesta nel film qualcosa in più rispetto a una esperienza individuale. Ma il fatto di poterlo vedere da soli e su un altro supporto non toglie nulla al suo essere un’esperienza di cinema.
In questo processo di trasformazione, che la pandemia ha solo accelerato e reso più visibile, le sale sono l’anello più debole. Siamo in un momento di transizione così forte che riusciamo a intravvedere la direzione ma non sappiamo il punto di caduta. Secondo me si andrà verso un assestamento, nella coesistenza di vari sistemi di visione, distribuzione, programmazione. Ma sapendo che in questa molteplicità di soluzioni, solo in una sala si potrà fare un’esperienza sensoriale che non ha rivali: penso al nuovo film di James Cameron, Avatar 2, sarà qualcosa senza precedenti, una forza d’urto che si vivrà solo in sala.
Ma penso anche ad un’altra cosa: molti film passano nei festival e non arrivano alla distribuzione; una volta si pregava di trovarli in un cine-club, ora invece li si può trovare in una piattaforma: questo ha fatto solo del bene al cinema.
F.B. A proposito di festival, Venezia festeggia i 90 anni. Un tempo i festival misuravano la temperatura della cinematografia, testavano lo stato dell’arte in giro per il mondo, qui si incontravano produttori, distributori, critici, erano il tempio del glamour. Ma oggi, che tutto questo sembra smarrito e smaterializzato, a cosa servono i festival, al di là della messinscena di un grande evento?
A.B. Paradossalmente servono ancora più di prima. C’è stato un momento, all’inizio del nuovo millennio, in cui i festival sono apparsi poco attrattivi. Ad eccezione dei film indipendenti, per i quali i festival da sempre sono il luogo di visibilità per eccellenza, ai grandi studios partecipare è sempre stato estremamente costoso e con rischi di flop inutili da correre. Così, a un certo punto hanno pensato ad altri strumenti più controllabili, ad esempio portare i giornalisti a una convention di lancio, in un posto magnifico: a volte non facevano neanche vedere il film, eppure ottenevano una visibilità a pioggia in tutto il mondo. Per un po’ è sembrato il modo migliore. Ma si sono resi conto molto rapidamente che mancava quel qualcosa in più che solo un festival sa dare: il rituale. È il rituale che crea un effetto di moltiplicazione dell’attesa e di svelamento. È impagabile l’esperienza del festival, tant’è che se un film non viene scelto o la produzione non può partecipare, quel qualcosa in più viene ricreato artificiosamente per il lancio: il tappeto rosso, l’attesa, la selva di fotografi. L’esperienza fisica torna ad essere imperdibile.
F.B. È l’effetto della prossimità dei corpi.
A.B. Esatto, non a caso, per ritornare al discorso sulle sale, quando si discute su come trasformarle, si finisce sempre per puntare su un di più di esperienziale. Per cui si parla di ambienti multi-funzioni e molto curati, sempre più accoglienti ed eleganti; si parla di poter incontrare il regista, l’autore o l’attore alla fine del film. Insomma, poter vivere in piccolo l’unicità dell’esperienza. È questo che spiega come, invece di tramontare, i festival nel lungo periodo si siano rafforzati. Prendiamo una grande produzione che lavora con le piattaforme, pensiamo a Netflix: tre quarti dei film che produce sono commerciali e pop, ma per quelli su cui investe centinaia di milioni di dollari vuole il meglio dell’esperienza di marketing e di visibilità. Pensiamo a Roma di Alfonso Cuarón o Il potere del cane di Jane Campion e a tutti quei lavori per cui Netflix fa l’impossibile per portarli prima di tutto a un festival. Sembra un paradosso, no? Queste grandi imprese, che hanno puntato tutto sulla smaterializzazione della filiera cinematografica, sentono di dover dipendere dall’esperienza fisica più tradizionale per rendere il prodotto un must.
F.B. Restiamo sui festival. È storica la rivalità tra Venezia e Cannes. L’anno scorso Variety ha definito Cannes «la più ricercata, sfavillante, elegante celebrazione del cinema al mondo». Il critico Gian Piero Brunetta, che ha appena dato alle stampe la prima storia della Mostra del Cinema di Venezia, edito da Marsilio e dalla stessa Biennale, ha detto: «Il primato di Cannes non è messo in discussione». Cosa resta allora di Venezia dopo 90 anni?
A.B. Il primato riguarda le dimensioni del festival di Cannes: è quello che attira il mercato più grande del mondo, ha il maggior numero di accreditati e smuove la maggior parte dei professionisti che lavorano nell’industria cinematografica. Non è sempre stato così. Ma Venezia sconta varie cose. Prima di tutto il decennio dopo il Sessantotto, in cui è rimasta smarrita e ha rinunciato ad assegnare i premi ai film.
È ripartita nel 1979, peraltro molto curiosa, sperimentando nuove formule di festival, anticipando soluzioni che poi gli altri hanno copiato. Ma nel frattempo le strutture sono rimaste ferme, sia di sale che di ammodernamento tecnologico: tutte cose che gli altri hanno invece fatto, prima di tutto Cannes, che ha investito e costruito e ha scommesso sul mercato del cinema e su tutto il mondo del business legato al cinema. Produttori, distributori, buyers, finanziatori: tutti quelli che fanno affari con il cinema si trovano là. Venezia non può competere su quel terreno, ma sì sulle anticipazioni, le innovazioni, gli immaginari, i nuovi orizzonti creativi e tecnologici, il prestigio. In questo senso Venezia e Cannes primeggiano su fronti diversi a livello internazionale.
F.B. Tutto questo in un contesto italiano in cui si produce una montagna di film. Lei stesso ha lanciato l’allarme per la pessima qualità e per il «rischio di una bolla speculativa», come l’ha definita presentando questa edizione del festival. Perché è così desolante il panorama italiano?
A.B. In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni ’60, lo dico sempre un po’ esagerando perché a quei tempi si arrivava a 400 titoli. Nell’ultimo anno ne abbiamo contati 250, più del doppio degli anni scorsi ed erano già troppi. Erano troppi per la capacità di assorbimento del mercato, visto che non più di 80 o 85 hanno mai trovato una distribuzione nelle sale. Il nostro è un mercato piccolo, abbiamo la metà del numero di sale che ci sono in Francia, meno che in Germania e Inghilterra.
Cosa è successo? Per una serie di fattori, il settore audiovisivo si è trovato d’improvviso sommerso di risorse economiche: la tax credit al 40%, le sovvenzioni ministeriali che ogni anno contribuiscono a finanziare almeno 80 titoli, e poi Rai Cinema che ci mette 82 milioni di euro, cui si aggiungono i 280 milioni del Ministero della Cultura. Sommiamo l’attivismo in crescita delle Film Commission che sono soprattutto agevolazioni e contributi indiretti e siamo di fronte a una cosa mai vista.
Il problema è che sono stati usati male: tutti sono corsi a fare film, sono sbucate dai cassetti sceneggiature ferme da anni, si è girato in tempi rapidissimi con attori, tecnici, autori, montatori, direttori della fotografia tutti iper-impegnati e che si accavallavano nelle produzioni. Tutto questo poteva non influire nella qualità dei film? La prova ci è apparsa sotto gli occhi durante le selezioni: qui sono arrivati almeno 200 di quei 250 titoli e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili. A parte i film selezionati e pochi altri che purtroppo non siamo riusciti a inserire in programma, il resto era inguardabile.
Così, se l’anno scorso avevo spezzato una lancia a favore del cinema italiano, provando a dare fiducia, quest’anno ho dovuto lanciare un allarme. Gli standard minimi di qualità sono la garanzia del rapporto di fiducia con lo spettatore, è una relazione che non puoi spezzare. Il risultato è che il pubblico non va a vedere film italiani, siamo tornati un po’ come negli anni ’90 quando la credibilità era precipitata. Certo, tutti sono contenti per aver fatto un sacco di soldi, ma per cosa?
F.B. Allora proviamo a tornare a novant’anni fa: cosa è rimasto di quella prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia?
A.B. Forse è rimasta l’intuizione di fare qualcosa senza precedenti. E di farlo in quel contesto: le prime tre edizioni del festival sono state fatte con grande libertà, il regime non aveva ancora compreso fino in fondo il potenziale del festival. Ma quell’idea iniziale, di valorizzare il cinema come espressione d’arte, riconosciuta come tale dalla Biennale d’arte da cui prende forma, beh è qualcosa di unico.
È il cinema di qualità, il cinema d’autore, l’abilità nel combinare autorialità e capacità di rivolgersi a una platea vasta di spettatori. Peraltro, quest’ultimo elemento mi sembra prezioso e non scontato. C’è stato un tempo in cui si credeva che l’impatto sul pubblico fosse secondario, che l’importante fosse il gesto creativo che il pubblico doveva subire. Oggi non è più possibile, oggi il pubblico è uno dei protagonisti dell’opera. Prima ancora di mettersi a scrivere e a girare, ci si deve chiedere: per chi faccio il film? A chi mi rivolgo? E soprattutto: come faccio a coinvolgere chi mi guarda dentro al mio atto creativo? È stato questo anche il criterio di selezione che ci ha caratterizzato in questi ultimi dieci anni.
Quindi, per tornare a quelle primissime edizioni: questi interrogativi erano già presenti come intuizione. C’era il meglio della produzione dell’anno, in arrivo da tutti i paesi con scuole di cinema, dagli Usa al Giappone, dalla Russia alla Francia. Si presentava una vera forma d’arte con una curiosità e un’attenzione sorprendenti per l’epoca, articolando la scelta anche tra i film per ragazzi, i film documentaristici e scientifici, lo sguardo alle tecnologie. Quell’idea, il provare in qualche modo ad anticipare le trasformazioni del cinema, cos’è se non una tensione al futuro?