ARTICOLO n. 35 / 2025
WHERE ARE WE GOING?
Pubblichiamo un estratto da Il detective sonnambulo (Mondadori), l’ultimo romanzo di Vanni Santoni che ringraziamo per la disponibilità.
All’aeroporto Andrés Expedito Florentino Sabella Gálvez di Santiago del Cile trovammo ad aspettarci un orientale, anzi a ben guardare un indio, in completo crema, camicia nera con colletto appuntito anni Settanta, auricolare e RayBan, che reggeva un iPad impostato su una pagina bianca con la scritta
DISTEL
SUCKERT
Al So, where are we going? di Tanya, quello strinse le labbra e ci condusse con cortesia a un furgone NCC Mercedes simile a quelli del WEF, ma bianco. Così, l’unica cosa che pareva certa, o almeno in cui potevamo sperare, era che ci avrebbero condotti a un incontro con lui e forse anche con lei, e che questo incontro sarebbe avvenuto in un luogo inusuale, mentre dai finestrini serrati, polarizzati, nel gelo dell’aria condizionata immaginavamo il caldo che poteva esserci fuori via via che lasciavamo l’Andrés Expedito Florentino Sabella Gálvez International Airport, e ovunque all’orizzonte prendeva a distendersi un deserto rosso, ocra, bianco, financo azzurro e viola.
– Please stop! – disse Tanya quando eravamo giusto in mezzo al viola.
L’autista la guardò male, o almeno così ci sembrò nella triangolazione dal retrovisore (comunque schermata dagli occhiali scuri), ma obbedì.
Tanya aprì la portiera a scorrimento, scese nel viola, e vomitò. Poi, con un po’ di stupore, la vidi raccogliere uno dei fiori che formavano quella infinita spianata fatta di pezze di colore diverse e uniformi.
La raggiunsi lì fuori: – Stai bene?
– Pata de guanaco, – disse con un’espressione vaga che non le avevo mai visto, – il fiore della resistenza contro…
– Tenemos que ir, – disse l’autista, – el maestro ordenó no hacer más de una parada.
L’autista si fermò in mezzo a una spianata vasta ma non sterminata come quelle fiorite di prima; inoltre era priva di vegetazione, salvo un paio di arbusti secchi alla distanza; era tanto uniforme da sembrare fatta di terra battuta, eppure si capiva che era naturale. All’orizzonte, ovunque sui costoni affilati che si dipartivano in ogni direzione, formando strette valli, fino a congiungersi con colline basse ma aguzze come sommità di montagne, una punteggiatura colorata e delirante fatta di milioni, ma che dico milioni, centinaia di milioni, miliardi di stracci, di vestitini, di cappotti e sciarpe e gonne e abiti d’ogni genere. In lontananza, sotto una Venere già spuntata nel cielo rossastro, uno sbuffo di polvere annunciava l’arrivo di un veicolo. Il viaggio era stato lungo ed eravamo scesi tutti e tre, sebbene fuori facesse ancora molto caldo.
Guardai l’autista, che restava imperscrutabile. Poi Tanya, che se ne andò cinque passi più in là, a guardare da vicino un grosso fiore rosso spuntato da un cespuglio spinoso dove erano impigliati diversi di quei vestiti dall’aria economica.
Il veicolo si avvicinava col suo codone di polvere. Era una di quelle jeep di plastica da deserto, una Citroën Méhari, verde pisello. Arrivò davanti a noi e scese una specie di, boh, come potevamo definirlo, segretario di stilista? Un cileno allampanato, in completo business attillatissimo, capelli all’indietro grigi sulle tempie, occhiali con grossa montatura nera e cartellina da presentatore:
– Good evening. The artistic director will be here any minute.
Poi tirò giù uno dei lati della zona di carico della Méhari, rivelando un minifrigo con la porta trasparente, dove ristavano, illuminate da un neon azzurrino, vari soft drink in bottigliette di vetro da 25CL. Presi una coca; Tanya l’unica birra, mentre nel cielo fattosi indaco cominciava ad avvicinarsi un elicottero. Stavamo cominciando a scoprire il gusto di Manfredi Contini della Torre per le messe in scena. Guardai Tanya, che sorrise blasé, con un tocco di sbruffoneria. Ma vedevo bene che era tesa quanto lo ero io.
L’elicottero atterrò, coprendoci di polvere mentre stavamo lì coi drink in mano. Si vedeva solo il pilota, casco, occhialoni e cuffie, perché il finestrino sul lato passeggeri era oscurato. Poi si aprì il portello e…
… doveva essermi entrata la polvere negli occhi, perché, pur con lo sguardo fisso sul portello, senza rendermene conto mi ero voltato, dato che la prima cosa che vidi, e che ricordo adesso, fu l’espressione perplessa, e delusa, di Tanya. Poi mi voltai di nuovo verso l’elicottero, e vidi Johanna.
Le pale, che stavano pian piano rallentando, le alzavano i capelli rossissimi, di quel rosso Pantone 1807 (che andava in 1805 e in 188) che mille volte mi ero sognato in quelle settimane, e pure l’andatura era la sua, ma per il resto era diversa, diversissima, dalla Johanna che conoscevo.
…eh sì, doveva essermi entrata la polvere del deserto cileno negli occhi, ma dall’espressione perplessa di Tanya ero ormai passato a quella sostenuta di Johanna, della Johanna ritrovata che appariva però come un’altra Johanna, una nova Johanna che non ero sicuro mi piacesse, quantomeno per la distanza dalle dozzine, ma che dico dozzine, centinaia di diverse Johanne, tutte mie, che mi ero figurato di vedere al momento del nostro rincontro (oltre che dalle altrettante faccette già note del diamante-Johanna che avevo amato e amavo) mentre le pale dell’elicottero smettevano di girare e la polvere si adagiava a terra e su di noi.
Non mi piaceva ma era lei e il cuore diceva cose diverse dal cervello e così le ero già addosso: che importava in fondo se ora era diversa, le ero già addosso ma lei fece un movimento come per sfuggirmi. Aveva una parte da recitare, era chiaro, qualcosa da fare o da dire, e però non me ne importava niente, l’avevo ritrovata e adesso volevo che tornasse a essere lei, volevo la mia Johanna, subito, non una Johanna surrogata o trasfigurata o recitante.
– Ci pensi Johanna, – dissi mentre la prendevo per le spalle, la scuotevo, – sono io, Luther, siamo di nuovo insieme, ci pensi?
Johanna, che pareva come più adulta, come invecchiata o più precisamente ingrandita di qualche anno, si mantenne sostenuta, ma per poco: conoscevo troppo bene quell’espressione, che era quella di quando stava per incazzarsi, ma in quel turbinio di emozioni che non poteva, io mi dicevo, non stravolgere anche lei, le scappò un sorriso che era il suo, proprio il suo, e poi quella lucetta in fondo all’occhio sinistro… era chiaro che anche lei sapeva quanto fosse assurda la messinscena in cui ci trovavamo, ma prima ancora che potesse aprir bocca arrivò Tanya, la prese per il colletto del tailleur e le disse:
– Ascolta, balorda, dove sta Manfredi? Sta nell’elicottero? Digli di cacciare fuori la sua faccia da schiaffi.
Johanna parve quasi spaventata dal piglio di Tanya (e non sapeva che quella matta era pure capace di tirar fuori una lama), o spaesata dalla mia reazione, o delusa dal non esser riuscita a fare o dire quel che voleva o doveva, oppure davvero consapevole dell’assurdità della situazione, o tutto questo assieme, fatto sta che le si bagnarono gli occhi, le vibrò il labbro e allora me la presi con Tanya, la staccai da Johanna. – Non essere violenta! – Macché violenta, Manfredi deve uscire, subito! – Sì ma stàccati! – … scoppiò insomma un parapiglia.
Sapevate che gli elicotteri hanno una sirena? O almeno, quello l’aveva, e piuttosto assordante. Si alzò, in quell’urlo meccanico, il portello, da esso si dipanò una scalettina metallica – non verticale, proprio con i gradini – e una figura di donna in abito corto, tesa, gambe muscolose, accennò a uscire, ma qualcuno la fermò. Ecco il biondo: mi aspettavo di vederlo apparire in completo bianco, impeccabile come nel manifesto, invece aveva addosso un felpone grigio, il cappuccio tirato su, dei grossi occhiali da sole neri, un po’ come le star quando devono scender di casa gonfie per comprare il latte e vengono paparazzate. Durò un attimo: quello che serviva per fermare la donna dalle gambe muscolose, riportarla dentro l’aereo; poi, mentre noi aspettavamo sotto, si tolse quel che aveva addosso, intravvedemmo l’ultimo gesto, che fu di sistemarsi i capelli con la mano, e uscì, senza occhialoni né felpa, e più che un uomo pareva un pupone, giovanissimo, quasi un ragazzino, con quella T-shirt leggermente floscia e sotto un fisico da attor giovane, un dinamismo cosìesageratamente spontaneo da risultare in fondo innaturale, mentre scendeva la scaletta già guardandoci negli occhi; poi, quando arrivò all’ultimo scalino e mise il piede mocassinato, scamosciato (mocassino viola con fibbia d’oro in foggia di testa di Medusa, un tocco eccessivo, fuori tono rispetto al resto, che ne denunciava l’italianità), a terra, la sirena mutò in una specie di fanfara e dall’elicottero partirono due fumogeni bianchi e sulla loro nuvola una pioggia di coriandoli di lamé bianchi, azzurri, rossi e violetti.
Manfredi guardò verso la nuvola di fumo e coriandoli, un po’ imbarazzato e un po’ esasperato, e venendo verso di noi, le braccia aperte, un sorriso adesso disarmante, ma anche in qualche modo vulnerabile (o almeno così sembrò a me) disse: – Scusate, adesso mi prenderete per un esaltato, – (e giù un sorriso ancora più disarmante) – si tratta solo di un dispositivo che deve usare Johanna per i suoi video, qua nel deserto di Atacama: qualcuno deve averlo dimenticato acceso dopo le prove.
Poi, giunto alla distanza in cui ci si può guardare negli occhi (e in un solo giro di sguardi ci fu spazio per uno, truce, per Tanya; per uno, di disappunto, per Johanna; per uno, infine, affabile, profondo, all’apparenza di grande interesse, nei miei confronti), disse:
– Lasciali pure esprimere, Nanita.
– Esprimere?! – digrignò i denti Tanya e partì minacciosa verso di lui, mentre quel “Nanita” mi riverberava nel cranio, ma non quanto avrei creduto prima; non come lo scoppio di una flashball, ma più come un’eco dissonante, come il ricordo di un disappunto che già aveva mutato forma…