ARTICOLO n. 6 / 2023

WALTER BENJAMIN, LA CITTÀ COME IPERTESTO

I profeti del presente

Tra il 1997 e il 1998 il fotografo americano Christopher Rauschenberg, figlio di Robert Rauschenberg e Susan Weil, si è recato in oltre 500 dei luoghi immortalati da Eugène Atget nel suo lavoro pionieristico di documentazione della trasformazione di Parigi alla fine dell’Ottocento, raccogliendo in Paris Changing: Revisiting Eugene Atget’s Paris (Princeton Architectural Press, 2016) la testimonianza di un paradosso: la città vecchia che Atget aveva fotografato per quasi quarant’anni nel tentativo di preservarla dalla furia modernizzatrice del Barone Haussmann e dei suoi eredi non era affatto scomparsa, anzi rimaneva pressoché immutata un secolo dopo gli scatti originari. Credo che il détournement sarebbe piaciuto allo stesso Atget, che non fu solo il primo fotografo di strada e il primo sociologo urbano a documentare il modo in cui nascono e muoiono le città moderne ma anche, nel suo modo dimesso e obliquo, un surrealista (pensiamo alla straordinaria fotografia della folla che guarda l’eclisse solare in Place de la Bastille nel 1912 che Man Ray volle come copertina di un numero de La Révolution Surréaliste). Come nell’hauntology contemporanea, la nostalgia per il passato si tramuta in qualcosa di più inquietante: un passato che non passa mai.

L’opera di rephotography di Rauschenberg è interessante non solo perché porta alla luce il carattere spettrale del lavoro di Atget, ma anche perché dice qualcosa sul rapporto unico che Parigi intrattiene con il proprio passato culturale e la modernità: prima città moderna dell’Occidente, Parigi è però sempre identica a sé stessa. Le varie mitologie della modernità parigina (dalla Rivoluzione francese alla Cité Lumiere, dalla Nouvelle Vague al Sessantotto) richiedono di essere interpretate in maniera tradizionale, e ancora oggi non è raro sedersi in un caffè di Pigalle e veder entrare una coppia di giovani in basco e dolcevita nera in un flashback dalla città esistenzialista. È un’ideologia della libertà che lascia poco spazio alla libertà, e che fa eco all’idea francese per cui i valori libertari della République possono essere imposti dall’alto. Ci ripenso mentre l’Eurostar partito da Londra mi lascia alla Gare du Nord: è possibile passeggiare a Parigi senza ripercorrere le strade già camminate da Baudelaire, Benjamin, Debord, Pajak? La flanerie è obbligata, nella città della psicogeografia è impossibile perdersi. Come in tutto il resto, anche da questo punto di vista Londra è l’opposto speculare di Parigi. A Londra tutto cambia incessantemente, non c’è nostalgia, né bellezza, ad ancorare il passato. La libertà è più profonda, più fredda, più inumana.

Poche cose incarnano questa permanenza dell’uguale in una città simbolo della modernità e della trasformazione come i bouquinistes del lungosenna, che compaiono immutati in ogni rappresentazione di Parigi dal XVI secolo: ogni volta che mi imbatto in un filmato dell’inizio del Novecento, o in una stampa del Settecento che li rappresenta, ho l’impressione di trovarmi di fronte a Jack Nicholson che in Shining rivela di essere sempre stato il custode dell’Overlook Hotel. Sarà che vivendo oltremanica ho interiorizzato una maniera britannica di guardare alla cultura, ma mentre ci passo davanti un pomeriggio di novembre mi viene in mente la prima traduzione inglese del titolo della Recherche proustiana: Remembrance of Things Past. Quel “things” così materiale, come se i ricordi fossero oggetti solidi, spine che ti si piantano nel cervello e di cui non riesci a liberarti. Passano i secoli, re vengono decapitati, sparano i mitra dell’Isis ma quelle “cose” rimangono lì, immutabili, impersonali, come spettri. Sono sempre stato il custode.

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In questa storia, l’anno della svolta è il 1927: lo stesso in cui Heisenberg formulava il principio di indeterminazione e in California Philo Farnsworth trasmetteva la prima immagine televisiva. Può esserci un momento più rappresentativo dell’arrivo della modernità per come abbiamo imparato a intenderla nel Novecento? Il 1927 è anche l’anno in cui moriva Atget, poverissimo, poco dopo la compagna Valentine; è l’anno in cui veniva finalmente completato il lavoro del Barone Haussmann, iniziato 74 anni prima, con la realizzazione del boulevard tra l’VIII e il IX arrondissement che avrebbe preso il suo nome; è l’anno in cui veniva pubblicato l’ultimo volume della Recherche, quello in cui il tempo perduto viene infine ritrovato. È anche l’anno in cui per la prima volta Walter Benjamin menziona in una lettera a Scholem un progetto a cui ha cominciato a lavorare dall’anno prima e dedicato proprio alla trasformazione di Parigi voluta da Haussmann, i Passages: siamo di fronte a quelle che Daniel Mendelsohn, parlando di W.G. Sebald (un autore che evidentemente a Benjamin deve molto) ha chiamato “near-coincidences”coincidenze apparentemente significative.

In realtà, come sempre è il caso nell’esperienza erratica e contraddittoria di Benjamin, è difficile stabilire una vera data d’inizio dei Passages. Pare che la raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo fosse iniziata fin dai vent’anni, da quando aveva messo piede nella capitale francese per la prima volta nel 1913, arrivato in treno da Berlino con due compagni di università. Se così fosse, potremmo dire che i Passages furono l’ossessione di tutta la sua vita, visto che ancora mentre scalava i Pirenei in fuga dai nazisti nel settembre del 1940 portava con sé una valigia il cui contenuto, aveva detto ai suoi compagni di viaggio, era più importante della sua stessa sopravvivenza. Sembra che la valigia contenesse materiali per i Passages. Dopo il suo suicidio a Portbou la valigia fu probabilmente sequestrata dalle autorità spagnole e perduta: cosa contenesse davvero non lo sapremo mai.

Sappiamo però il momento in cui questi materiali raccolti fin dalla giovinezza avevano cominciato a condensarsi in un progetto. Era il 1926, e se il surrealismo era stato il punto d’arrivo parzialmente involontario di Atget, non stupisce forse che il punto di partenza dei Passages sia proprio il libro di un surrealista: Le Paysan de Paris di Louis Aragon racconta come le vetrine di un negozio del Passage de l’Opéra vengano trasformate dall’immaginazione del poeta-flaneur in un panorama marino popolato di sirene. L’applicazione del merveilleux quotidien ad un luogo simbolico della nascente cultura consumista, nella città che più di ogni altra aveva incarnato la spinta progressista del capitalismo, non poteva lasciare indifferente Benjamin, che a quel tempo si era già convertito al marxismo, aveva conosciuto Adorno e Horkheimer, e aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze della riproducibilità tecnica sull’opera d’arte e la sua “aura”. I pezzi del puzzle erano andati a posto: coincidenze apparentemente significative.

È come se nell’opera incompiuta, e impossibile da compiere, dei Passages Benjamin avesse trovato una sorta di centro instabile, di nucleo in continua trasformazione della sua esperienza intellettuale centrifuga, che non si lascia rinchiudere in nessuna definizione perché quella definizione non era chiara al suo autore: per tutta la vita Benjamin si sarebbe mosso per illuminazioni improvvise e strappi, continuando a smarcarsi dalle strade che si era autoimposto (filosofo, critico letterario, pensatore politico) in un rivolo di derive esperienziali (gli stati alterati di coscienza, la marijuana, la stessa flanerie). Parigi, e il lavoro sui passages, furono l’unica costante nelle peregrinazioni che l’avrebbero portato a Ibiza e Mosca, in Italia e a Marsiglia, in fuga dalla Storia, certo, ma anche dai suoi fantasmi, come quello della depressione, e in fin dei conti da se stesso. La “vita segreta delle città” che intendeva indagare nei Passages era la vita segreta della sua anima; il futuro dell’Occidente lanciato verso il baratro la sua apocalisse personale; la nostalgia consumistica delle vetrine la stessa malinconia che permea Infanzia berlinese. Così Benjamin, tramontato come tutto il resto il tentativo impossibile di un’autobiografia, raccontava sé stesso rifratto in uno specchio che non ne restituiva mai pienamente l’immagine: parlava d’altro perché era l’unico modo di parlare di sé.

La stessa ispirazione originaria dei Passages è profondamente indicativa a riguardo: nella lettera a Scholem del 1926 racconta come abbia deciso di dedicarsi a un lavoro sulla Parigi del Barone Haussmann per compiere una sorta di esorcismo. Lo scopo dell’opera, spiega, è quello di “svegliarci” dal “sogno dell’Ottocento”. Siamo di fronte a Benjamin nella sua essenza più pura: oscuro al limite dell’impenetrabilità, eppure stranamente spontaneo; impersonale e autobiografico; teorico e intimo; con l’attenzione sempre rivolta da qualche parte che non è il centro, come se l’unico modo per dire le cose che contano fosse non menzionarle mai direttamente. Perché evidentemente il “sogno dell’Ottocento”, quello da cui il giovane Benjamin sente l’esigenza di risvegliarsi, è il sogno della generazione dei suoi padri, la grande utopia ottocentesca ridotta a frammenti fumanti di città e carne umana dalla guerra mondiale in attesa di nuovi e più atroci orrori. Come sempre nel corso di tutta la sua vita, Benjamin ha già prefigurato il futuro: l’operazione è psicanalitica e surrealista nella sua essenza, ma senza redenzione. Sembra di sentire il Rust Cohle di True Detective quasi un secolo dopo quando dice che alla fine di ogni sogno c’è un mostro: gli occhi del sognatore si sarebbero aperti sul buio.

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Benjamin si stabilisce definitivamente a Parigi nel 1935. Non è la prima tappa del suo esilio: tra il 1931 e il 1932 ha già compiuto due viaggi a Ibiza, ospite di una congrega di expat tedeschi. Come tutti a Ibiza si è innamorato, entrando forse in contatto in maniera più pura con quell’anima dionisiaca che per tutta la vita avrebbe corteggiato e respinto in egual misura; al ritorno dal primo viaggio ha meditato per la prima volta di uccidersi. Quando il Reichstag è bruciato nel febbraio del 1933, ed è stato costretto a lasciare la Germania una volta per tutte, Parigi è diventata la sua base.

Non è un caso, credo, che nella capitale francese arrivi ufficialmente come traduttore della Recherche, un altro progetto che non avrebbe mai portato a termine. Invece di lavorare a Proust riprende i fili della sua ossessione per Baudelaire. Si intrattiene nei locali di Montparnasse, specialmente al Dôme. Passa i pomeriggi a fare ricerche alla biblioteca nazionale, che interrompe solo quando viene a prenderlo l’amica Hannah Arendt. Il lavoro deve essere stato intenso, quell’anno, perché nello stesso 1935 lo studio per i Passages confluisce in un libro, Parigi capitale del XIX secolol’unico tentativo fatto in vita da Benjamin per dare una forma editoriale alla sua ossessione. Per il resto, l’umore non è dei migliori. Si sposta da una pensione economica all’altra, totalmente dipendente dai soldi che gli spediscono Adorno e Horkheimer. “Parigi cambia”, aveva scritto Baudelaire immerso nel sogno dell’Ottocento, “ma niente nella mia malinconia è cambiato”. Benjamin potrebbe sottoscrivere queste parole.

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Remembrance of Things Past è anche il titolo di una conferenza che si è tenuta al Warburg Institute di Londra nel 2012. Il suo autore, Matthew Rampley, oggi insegna storia dell’arte alla Masaryk University di Brno, in Repubblica Ceca, e a Birmingham. Nel 2000 ha pubblicato un libro da cui la conferenza trae lo spunto, oltre che il titolo, e che sostiene un’idea curiosa: quella delle influenze di Benjamin sul lavoro di Aby Warburg. Un paradosso, visto che Warburg è morto nel 1929 quando Benjamin era virtualmente sconosciuto (l’unico dei suoi lavori principali già pubblicato, Origini del dramma barocco tedesco, era uscito l’anno precedente).

Benjamin conosceva Warburg, lo cita nell’introduzione alle Origini e può darsi che si sia ispirato a lui nel costruire la propria carriera, se di carriera si può parlare, di studioso indipendente. Da Warburg, Benjamin ha quasi certamente tratto l’idea della cultura come qualcosa di vivo, in cui frammenti eterogenei alti e bassi, popolari e colti, possono essere ricombinati per trarre un senso più ampio; e l’analogia tra i Passages e Mnemosyne Atlas, due lavori incompiuti e ipertestuali basati su un’idea di classificazione fluida e mai definitiva, è fin troppo evidente: gli stessi faldoni che contengono i materiali dei Passages richiamano i pannelli di Mnemosyne per il carattere eterogeneo delle loro denominazioni (Baudelaire, Casa di sogno, Le strade di Parigi, Specchi, Sistemi di illuminazione, Moda, etc.). Quello che Rampley sostiene nel suo libro è che il lavoro di Warburg, rimasto nella relativa oscurità fino agli anni Ottanta, deve la sua notorietà a Benjamin, che al contrario è stato soggetto di studio critico fin dagli anni Trenta. Leggiamo, dice Rampley, Warburg attraverso la lente di Benjamin nello stesso modo in cui leggiamo Shakespeare attraverso la lente di T.S. Eliot.

In questa idea del futuro che influenza il passato c’è qualcosa di affascinante, come se il tempo fosse un cerchio, o una casa di specchi. È seguendo questa intuizione che nel 1920 Benjamin acquista l’Angelus Novus di Paul Klee, “l’angelo della storia” con “lo sguardo rivolto al passato”? È una prefigurazione della tragedia personale che lo attende o un riconoscimento nicciano dell’eterno ritorno? O entrambi?

Benjamin aveva probabilmente in mente Mnemosyne Atlas quando pensava ai Passages, ma la sua idea di ipertesto era più definita, e insieme più concreta, dello studio del movimento dionisiaco di Warburg. Se Parigi è il prisma attraverso cui si manifesta l’intera storia dell’Occidente, il “sogno dell’Ottocento” così come la catastrofe ventura, il pubblico e il privato, l’intimo e l’impersonale, i grandi movimenti della Storia così come gli echi dell’autobiografia, se insomma Parigi è un Aleph che tutto contiene, è anche vero che in Benjamin è la città stessa, con le sue infrastrutture materiali, i vetri e l’acciaio, i tunnel e le gallerie, a farsi per la prima volta ipertesto. Mnemosyne Atlas era un teatro della memoria rinascimentale, e attraverso la sua struttura fluida portava nella modernità la logica spaziale dell’organizzazione della conoscenza dei sistemi mnemonici. Ma nei Passages è il reticolo della città, con le sue strade e i suoi passaggi, a farsi informazione organizzata. I passages sono piuttosto chiaramente link: scorciatoie che portano da un luogo all’altro più rapidamente e, in maniera metaforica, collegano punti diversi dell’ipertesto culturale.

Warburg aveva già immaginato internet; Benjamin immagina la smart city, o l’Internet of Things. La Parigi di Benjamin è una realtà virtuale, informazione stratificata in un sistema semantico. Chissà se Christopher Nolan aveva in mente questo parallelismo quando ha pensato alla scena di Inception ambientata a Parigi. Altre coincidenze apparentemente significative.

Quello che è certo è che il futuro preconizzato da Warburg e Benjamin, la modernità che entrambi inseguivano (e che inseguivano, significativamente, rivelando i segni del passato che non passa nel tessuto della modernità), avrebbe finito per distruggerne il lavoro prima, e le vite poi: Warburg sarebbe impazzito dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, e la sua Bibliothek trafugata lungo l’Elba fino a Londra per sfuggire alla persecuzione nazista; l’idea di città ipertestuale immaginata da Benjamin avrebbe portato alla morte del flâneur, come ha scritto ormai dieci anni fa Evgeny Morozov in un celebre articolo. Nel frattempo Benjamin era già stato obliterato, distrutto dal nazismo che Warburg aveva scampato in extremis. Alle spalle dell’Angelus Novus, dove gli occhi non guardano, si sta sempre compiendo una catastrofe: storica, tecnologica, semantica.

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Nachleben, la “vita postuma”, è la memoria: Warburg l’aveva perfettamente chiaro. Warburg era già scomparso dietro la propria Bibliothek prima di morire; Benjamin era già diventato il suo mito, la traccia dei suoi spostamenti, i suoi progetti mai finiti, le sue pagine di diario, le lettere, i racconti, gli aneddoti, prima di essere costretto a ingoiare la morfina a Portbou. C’è il sogno del passato, poi c’è il futuro che spazza via tutto, e poi c’è la memoria, che è il luogo in cui sopravvivono i fantasmi. Per questo ogni scrittore interessato alla memoria è un bibliofilo, e per questo i nazisti bruciavano i libri: i due atti, quello dell’accumulazione e quello del rogo, possono sembrare opposti, ma in realtà sono facce della stessa medaglia, entrambi tentativi di fare i conti con il mondo dei padri. Ingraziarsi Mnemosyne o aggredirla con il fuoco nel tentativo di addomesticarne i moti imprevedibili. La modernità, come aveva capito Atget, ha sempre bisogno di bruciare il passato, ma il passato non brucia mai. Anzi nel fuoco si calcifica, come in un procedimento alchemico, e si fa permanente: Nachleben, appunto.

È anche per questo che quando Benjamin si trova infine costretto a lasciare anche Parigi, circondato ormai su tutti i fronti (esule dalla Germania perché ebreo, internato in un campo di lavoro nella Francia libera perché tedesco, poi braccato in quella occupata di nuovo perché ebreo, guardato sempre con sospetto perché marxista) lascia i faldoni contenenti i materiali per i Passages alla biblioteca nazionale. Ma sarebbe ingenuo pensare che la memoria sia neutrale. O meglio, la memoria è neutrale, come ogni dio e ogni fantasma, ma le sue istituzioni no. I Passages sarebbero stati probabilmente sequestrati e dati alle fiamme se il bibliotecario a cui Benjamin aveva lasciato i faldoni non li avesse nascosti poco prima della caduta di Parigi. Quel bibliotecario era Georges Bataille: coincidenze apparentemente significative.

Mentre la catastrofe si fa sempre più pressante, mentre il risveglio dal sogno si fa imminente, e il sogno si trasforma in maniera via via più concreta in quello che è sempre stato, e cioè in un incubo, anche l’ossessione di Benjamin si acuisce, sfiorando la mania. Leggendo i Passages oggi una cosa mi colpisce: la totale assenza di spiegazioni, come se il semplice accumulo di citazioni, di rimandi, di frammenti fosse sufficiente a creare un senso. È la stessa sensazione che si avverte guardando Mnemosyne Atlas: quella di trovarsi nella mente di qualcuno, all’interno di un progetto privato. Perduti nel sogno di qualcun altro, come i necronauti di Philip Dick intrappolati nella mente di Runciter. C’è una coerenza nel fatto che mentre il senso della Storia si fa sempre più incerto, mentre il mondo discende nel caos e nella morte e nella psicosi nazista, la storia personale abbia sempre più bisogno di cercare un proprio senso, diventi sempre più importante salvare il proprio mondo intimo. Benjamin sapeva probabilmente di essere spacciato dal giorno dell’incendio del Reichstag, sapeva che il momento del risveglio poteva essere procrastinato ma non evitato: per questo era più importante salvare il contenuto della valigia che la sua stessa vita.

Certo è che non abbandona Parigi finché ormai è troppo tardi. In quegli ultimi mesi è sempre più solo e più povero. Adorno e Horkheimer si sono trasferiti in California dal 1938, e da tempo cercano di convincerlo a lasciare l’Europa per raggiungerli. Dora, la sua ex-moglie, è fuggita a Londra con il figlio Stefan: basterebbe arrivare fino a Calais e salire su una nave per mettersi in salvo, ma Benjamin rifiuta. La ragione: vuole continuare a lavorare ai Passages. Solo quando Parigi cade, il 14 giugno del 1940, un mese dopo che la Wehrmacht è entrata in Francia, accetta il permesso di ingresso negli USA che Adorno è riuscito faticosamente a ottenere per lui. Ma a quel punto l’Europa è una trappola mortale: la nave per New York parte dal Portogallo, ma per arrivarci bisogna attraversare tutta la Francia nazista e la Spagna di Franco. Benjamin ha 48 anni, soffre di cuore, ha problemi a camminare. Quest’ultima fuga dura tre mesi e si conclude appena passato il confine spagnolo: al Portogallo mancano ancora 1344 km, trecento ore di cammino. Il futuro è sempre stato troppo lontano.

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C’è un’ultima somiglianza tra la vita di Benjamin e quella di Sebald, e ha a che vedere con la fine: due autori che hanno passato l’esistenza a cercare la “vita segreta”, a tessere trame di senso nel caos del mondo, muoiono in maniera casuale. Le coincidenze sono apparentemente significative finché all’improvviso, senza ragione, smettono di esserlo, e il tessuto asignificante del mondo si sfalda, torna all’indifferenziazione primigenia. Kronos, il tempo umano, indirizzato, si disfa in kairos, il tempo come successione di momenti disordinati ed eterogenei. Kronos, cioè Saturno, il dio della depressione e del limite, della morte e della catastrofe, non può essere eluso per sempre: non ci sono più derive, non ci sono più luoghi da visitare, non c’è più fuga. Saturno, la cattiva stella, il dis-astro, alla fine arriva sempre. Porta la fine, e con sé anche la pace.

Sebald muore un giorno di dicembre del 2001 in un incidente stradale, a 57 anni: un punto finale conclude la vita dello scrittore della divagazione infinita. La morte di Benjamin non è casuale nelle ragioni ma lo è nelle circostanze. Si conclude in un paese qualsiasi, un villaggio di mille anime che per Benjamin, così legato al senso dei luoghi, non significa nulla. Ciò che segue è tanto preda dell’entropia da risultare quasi comico. Il medico legale che arriva sul posto non si accorge della capsula di morfina e classifica la morte come aneurisma cerebrale; in una mossa degna di una commedia degli equivoci, le autorità spagnole leggono male la carta d’identità: pensano che il morto si chiami Benjamin Walter, invece che Walter Benjamin. Non capiscono che è ebreo e lo seppelliscono nel piccolo cimitero cattolico del paese. Chissà che hanno fatto della valigia, cos’avranno capito di quella raccolta di materiali sulla Parigi del XIX secolo. Avranno pensato che fosse un urbanista, probabilmente. Sicuramente non conoscevano la parola “flaneur”.

Eppure mi sembra che proprio in questo finale insensato si apra lo spazio di una possibilità: alla tragedia segue la commedia. Benjamin riposa in un paese affacciato sul mare, nel clima mite della Catalogna: immagino un vento dolce che scuote il cespuglio di bosso piantato da chissà chi a vegliare sul suo sonno. La psicosi nazista che l’ha ucciso si è uccisa a sua volta, alla guerra è seguita la pace. Alla pace seguiranno altre guerre, altre morti, altre catastrofi. E tornerà ancora una volta la pace.

A Parigi, la Wehrmacht non ha mai trovato i Passages, ben nascosti da Bataille: la memoria, incarnata in un servitore ribelle e infedele, ha fatto bene il suo lavoro. 

“Un bambino”, appunta Benjamin nella sezione dedicata alla Noia, eterno ritorno, “con sua madre al Panorama. Il Panorama raffigura la battaglia di Sedan. Il bambino trova tutto molto bello: ‘Solo, peccato che il cielo sia così cupo’. ‘Così è il tempo in guerra’, ribatte la madre”.

Il tempo di Proust, quello perduto e ritrovato, è kronos o kairos? Se il tempo è un anello, e non una linea retta (e se la noia è l’esperienza che facciamo di questo eterno déja vu) allora l’Angelus Novus, rivolgendosi all’indietro, ha lo sguardo fisso sul futuro. L’hauntology non è un glitch nel tessuto del tempo: è il tempo nella sua circolarità.

La lapide a Portbou, sormontata dal suo piccolo cespuglio di bosso, è sempre esistita in attesa dell’unico finale possibile. “Una gabbia andò in cerca di un uccello”, scrisse Kafka. Sono sempre stato il custode.

Niente passa perché tutto, incessantemente, passa. Dal sogno non ci si sveglia veramente mai, si salta solo di sogno in sogno, come in Inception. Anche il mostro alla fine è una fantasmagoria. “Peccato che il cielo sia così cupo”. Ma in fondo è solo un diorama.

ARTICOLO n. 93 / 2024