ARTICOLO n. 63 / 2023

VUOTI A RENDERE

La temperatura dell’estate

Estate. È una canzone che circola nell’aria fredda dell’inverno. Il brano lo compose Bruno Martino nel 1960, testo di Bruno Brighetti. Titolo, in origine, “Odio l’estate”. Quando Lelio Luttazzi ne fece una parodia, Odio le statue, il verbo, dunque la ripugnanza, venne eliminato. È rimasto nel testo, ha avuto fortuna la melodia, per le versioni meravigliose e dolenti di Chet Baker o di Joao Gilberto. 

Un amore, ovviamente. Estivo e perduto. Con il portoghese virato Brasil ad accentuare il sapore. Un sapore che ciascuno di noi conosce e ritrova, nel freddo di un febbraio, tra il rimpianto e la speranza, perché è quella la stagione, quella la temperatura più densa e colma di memorie. Con ampio, persistente accompagnamento musicale. 

Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso, eccola qui. La cerca Paolo Conte, la cerchiamo un po’ tutti. Un grande fotografo scomparso, Carlo Orsi, verso aprile, ogni anno, ripeteva: “dai che ci facciamo un’altra estate”. L’ha ripetuto sino all’ultimo giugno, convinto di farcela, povera stella mia. Diceva: “Eccola, eccola che arriva”. 

Prepariamoci, dunque, perché tutto può accadere in un pomeriggio azzurro, persino troppo azzurro per noi. È una questione banalmente meteorologica che adesso, con la quantità enorme di sciocche chiacchiere sul caldo, che caldo, non se ne può più, viene un po’ maltrattata nella significanza profonda. Il caldo spoglia, spalanca, apre, permette, illumina, autorizza. Cambia il modo di fare, stare e immaginare. Toglie il telo da una moto, mette il grasso sulla catena di una bici, ripristina un guardaroba. Alleggerisce gli abiti, altri pesi perché il momento della prova costume riguarda anche chi del costume se ne sbatte altamente, figuriamoci della prova.

Cuore caldo, testa calda, sangue caldo, calde lacrime. Picchi, comunque. Di passione, di esuberanza, di emozione. Fanno parte del pacchetto, del viaggio, di una obbligatoria, accurata, delirante ipotesi vacanziera. Vanno su i gradi nel termometro, cresce il desiderio. Di cogliere, finalmente, un’occasione mancata, l’estate scorsa, due estati fa…; di progettare escursioni interminabili, visto che sarà interminabile questo tempo nuovo in arrivo. Un regalo da personalizzare, in relazione alla voglia accantonata per mesi, per una vita; all’età, al godimento di un’altra, metti ultima, stagione felice. 

Nel Nord della Scozia o a Samoa puoi andarci solo lì, quando la fantasia circola in un’afa provvidenziale. Le dita che indugiano davanti a un vecchissimo o nuovissimo numero di telefono, ma dài, ma sì. Si farà vivo un figlio lontano, così come un padre, una madre distratta. Attese, progetti. Sbocciano, al pari dei gelsomini. Emanano un profumo che tira, spinge, moltiplica le aspettative. Un colossale Sabato del Villaggio, inaugurato puntualmente, quando la primavera segnala, via meteo, il passaggio. Aprile, maggio, giugno, luglio. Poi viene la domenica, torrida e fastidiosa, a questo punto. Le piante, i fiori, le nuvole, indicano un nuovo transito. Il culmine dura pochi giorni, ore. Colme di ombre, perché ciò che è stato, soprattutto ciò che non è stato, diventa irreparabile. Si accorciano le giornate e si allungano le malinconie. Da domenica, appunto, con appresso, inesorabile il lunedì. 

Scozia? Macché. Salento, una bolgia. Flirt? Ma dài, cosa vuoi? Giacomino? In Scozia, lui sì, con gli amici. Mentre io… beh, io neanche un prete per chiacchierar.

Mica vero, non per tutti. Non per Giacomino o Giulia, o Marianna che hanno il fisico, l’età, la sfrontatezza di attraversarla, l’estate; di sguazzare in questo sole, di amare e farsi amare, di rischiare un dolore, quel dolore lì, assoluto, da cuore caldo e infranto. Di partire davvero, come immaginato, senza tante balle, uno zaino e si va. I bilanci, dopo, casomai. Molto dopo, perché l’adolescenza, la giovinezza, come l’estate, sono infinite.

Dunque, dipende. Dall’anagrafe, dal coraggio. E, magari, dalla consapevolezza di avere a che fare con la temperatura e la stagione del vuoto. Sta qui il baricentro. Nel vuoto, ecco. Che è il compendio stagionale più certo, abbinato ai 30 gradi. Si spopolano i palazzi, le strade, la città. Vanno. Vanno via tutti, ma dove cazzo vanno? In un altro vuoto, protetto da un ombrellone o da una mulattiera, simile al tuo che resti.

Non ha rilevanza alcuna il dove. È la percezione di un’ora da riempire, di un pomeriggio silente, di un caos gioioso che, in definitiva, non ti riguarda affatto. Così, nello spazio soltanto estivo, con un libro tra le mani, una granita di primo mattino, il cellulare spento, non a caso, insomma in uno stallo acustico improvviso e provvidenziale, si spalanca una voragine vagamente prevista certamente straordinaria. Il caldo, allora, diventa un tappeto, uno sfondo, persino un conforto, mentre incappi in un pensiero che in quel vuoto si fa largo e lì resta, come un salvagente sulla superficie mossa del mare. 

È un invito quasi perentorio alla riflessione, a una lentezza rimossa nella ritmica consueta e quotidiana. È un’occasione in forma di domanda. Su te stesso e sul senso del tuo fare. Su un vizio non necessariamente assurdo, su trascuratezze trattate come innocenti sbadataggini. Sospensioni intime, dunque provviste di implacabili specchi. Una vera vigilia, equivalente alla Vigilia di Natale, l’anno che svolta, come ai tempi della scuola. Il momento dei buoni propositi. Sinceri in quanto segreti, azzardati in relazione alla fatica. Di essere e di far finta di essere. Di peccare e di far finta di farla franca. Di tirare dritto quando sarebbe il momento di osservare, accogliere, dare una mano. Meglio, di più, forse, vedremo. Con il caldo che, invece di esaltare, fa sudare, una gnagnera da sfinimento. 

Sono pause mute e sconcertanti. Sono abissi necessari. Istanti, questi sì, nei quali progettare il viaggio, seguendo una mappa solo interiore, da scansionare con ciò che resta della nostra più onesta vitalità. Un caffè, una birra in meno, un’attenzione in più, una sincerità liberata, lo sguardo che passa da se stessi all’altro, quello là, che anche di me avrà avuto, ha di certo bisogno. Piccoli o enormi proponimenti che, comparendo, giustificano e rilanciano, tirano una riga. Sulla sabbia, sul pavimento, sull’anima di chi, la propria anima, in questo caldo stagnante riesce a far volare.

Il pensiero dell’estate, modestamente, per quanto mi riguarda, riporta a pieno schermo il viaggio di Nanni Moretti con la sua Vespa. Caro Diario, il film. Le immagini contengono quella libertà nota ai vespisti, ai motociclisti da agosto in città; l’odore dell’asfalto molle delle strade periferiche, l’abbandono e la solitudine di chi, dentro appartamenti dimessi e bui, dietro tende sfilacciate e verdi da balcone, sopra letti di ospedale, nel silenzio tremendo di un corridoio da penitenziario, fa i conti con un doppio vuoto. Interiore e agostano, assoluto e dimenticato. Per loro, per chi sa cosa lo aspetta, l’estate rappresenta un supplemento di pena, una condanna al nulla spaventosa. Penultimi che diventano ultimi, ultimi che diventano invisibili. Tagliati fuori da ogni condivisione, da ogni percorso euforico, destinato a fallire o meno non importa. 

Il caldo, qui, diventa un tormento che lo scorrere lento dei giorni amplifica. Quale Sabato del Villaggio? Domenica, si spera, in grave ritardo. In desolata attesa del lunedì. Del momento in cui l’estate degli altri, i vuoti irrisori degli altri, le solitudini relative altrui, avranno termine. Con la debole speranza che un qualche proposito buono, elaborato tra una granita e le pagine di un romanzo, in qualche modo li riguardi. 

A piedi, intanto, senza Vespa. Una camicia azzurra, dopo una doccia tiepida. Ogni prospettiva comparsa in primavera si è dissolta, come previsto da un inconscio allenato all’imbroglio. Meglio, bene così. Lo sguardo per aria, lungo facciate di case che il traffico impediva di osservare. Targhe sulle facciate, a ricordare residenti celebri. Parchi senza bambini, giostre deserte, roba da saltare sul camioncino dei pompieri con la certezza di afferrare il codino sospeso, giro gratis, uno via l’altro, cosa tieni aperto a fare?

Macchie di sudore sulla camicia. Ghiaia che scricchiola. Anziani con il Corriere. Anziani con la badante. Badanti annoiate con anziani che leggono il Corriere da tre ore. Il profumo di una crema solare, spuntato non si sa come e perché, forse una babysitter rimasta senza baby. Arriva, piglia e scarica ai Bagni Scogliera. Odore di vernice fresca, cabina appena ridipinta rosso vivo. Il molo per i tuffi. La mia estate migliore è vecchia di cinquant’anni ed è bellissima ancora adesso. Eccola qui. La intravvedo per un attimo di nuovo, mentre perlustro il vuoto di agosto, riempito dai miei vuoti.

ARTICOLO n. 96 / 2024