ARTICOLO n. 32 / 2024
VIVA L’ITALIA ANTIFASCISTA
Fa molto strano parlare di antifascismo, uno dei principi cardine – se non IL principio cardine – della nostra Costituzione, in questo 25 aprile 2024.
Fa strano perché “antifascismo” negli ultimi due anni è diventata una parola-jolly, alle volte insulto, alle volte scomoda, alle volte arma, usata da sempre più persone per indicare qualcosa di quasi anacronistico, una paranoia démodé.
Quando di scomodo questo termine non dovrebbe avere niente, a meno che non si sia, per l’appunto, fascisti.
L’uso smodato e quasi sempre improprio del termine mi fa comprendere con non poco rammarico che la nostra classe politica ha una fottuta paura del significato della parola “antifascismo”. Sulle prime per me era piuttosto imbarazzante avere degli esponenti di Governo che non solo non la pronunciano mai, ma pensano che antifascismo sia il termine gemello di anticomunismo. Poi ho compreso che questo silenzio sulla nostra purtroppo recente storia – durata un Ventennio, e che è piaciuto moltissimo ai partiti-satellite di questa maggioranza e al presidente del Senato, che ne conserva i cimeli in casa propria – aveva e ha uno scopo ben preciso.
Già, perché se i fenomeni non li nominiamo, questi non esistono.
E nessuno al Governo ha a quanto pare intenzione di pronunciare quelle dodici lettere che formano il fondamento della nostra costituzione. Perché pronunciarle vorrebbe dire dover dare fin troppe risposte a quesiti – quelli sì – divisivi per la maggioranza e i grandi supporter di Meloni.
Da due anni, davanti ai nostri occhi sta infatti avvenendo quello che potremmo chiamare il teatro dell’assurdo meloniano: pur di non arrendersi all’inevitabilità dell’antifascismo come principio fondativo della nostra Repubblica, gli esponenti di Governo stanno facendo dei numeri di prestigio che Houdini a confronto era un principiante un po’ goffo.
È dai primi mesi di questa legislatura che le domande su talune vicinanze tra Ministri, presidenti, parlamentari con ambienti fascisti e neofascisti affollano i (tele)giornali italiani.
Il primo rappresentante dello Stato – la seconda carica di questo paese – a cui è stato chiesto da alcuni giornalisti di dichiararsi antifascista è Ignazio La Russa.
Complici forse quel saluto romano in Parlamento, il busto del Duce in cucina, i cimeli del colonialismo fascista in Africa, la camicia nera esposta in casa sua, il suo secondo nome dal sapore retrò (Benito) e la vicinanza in gioventù all’MSI, i dubbi su una sua possibile affiliazione – se non più partitica quantomeno di cuore – agli ideali fascisti sono sorti piuttosto spontaneamente.
Riuscito quasi sempre a tergiversare e a lanciare deliziose e fantasiose supercazzole (tra cui: «siamo tutti eredi del Duce, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, nonni e bisnonni» in risposta a Michele Emiliano), non è riuscito a scappare alla redazione di Repubblica, a cui lo scorso aprile ha dichiarato che la nostra Costituzione di riferimenti all’antifascismo non ne fa.
Chissà quale Costituzione ha letto, ma corriamo oltre.
Neanche Lollobrigida è stato particolarmente espansivo nel parlare di antifascismo con i giornali.
Dopo aver travisato Pasolini e aver dichiarato di odiare il “fascismo degli antifascisti”, qualche settimana fa davanti ai cronisti presenti al congresso romano di Fratelli d’Italia ha dichiarato che il concetto di antifascismo non gli piace molto, perché, cito, il concetto di “anti” non lo convincerebbe molto. Preferisce la preposizione propria “per” (per fascismo? Freud lo chiamerebbe un lapsus). Subito dopo ha ricordato con affetto i tempi dell’MSI e ha aggiunto anche che Mussolini andrebbe storicizzato.
Valditara sembrava promettere meglio a parole: nel 2023 aveva perfino pronunciato la parola antifascismo senza aver conati o rash cutanei improvvisi. Poi però si è lanciato in una brutta, violenta, prepotente accusa alla preside Savino che, in una circolare scolastica destinata al suo istituto fiorentino in seguito alle aggressioni da parte dei movimenti studenteschi neofascisti agli studenti del Michelangiolo, aveva difeso proprio i valori dell’antifascismo.
Sangiuliano a gennaio invece ha deciso di rispondere alla domanda di un cronista dell’Ansa, che gli chiedeva se si dichiarasse apertamente antifascista, strappandogli il microfono dalle mani e chiedendogli con brutalità se lui – il cronista – fosse pronto a dichiararsi anticomunista.
Piantedosi si è allineato alla linea di Governo e, alle domande di un’intervista di un paio di mesi fa, ha risposto di essere fermamente antifascista. Così come è anticomunista e antitotalitarista. Insomma, sembra che tra i vari Ministeri sia passata una circolare con la formula standard da usare in caso di emergenza.
Salvini è un maestro nell’arte dell’escapismo sul tema: per anni – soprattutto nel periodo in cui era appassionato sostenitore e frequentatore di CasaPound – si è sempre dichiarato lontano dall’antifascismo. Solo recentemente, a “Belve”, il programma di Francesca Fagnani, si sarebbe dichiarato antifascista. E subito dopo anticomunista. Per bilanciare, non avesse a venirgli un travaso di bile in studio.
Meloni è come il mostro finale del videogame: farle ammettere di abbracciare i valori antifascisti è difficilissimo. È diventata sempre più scaltra nel rigirare frittate, fingere problemi tecnici, fare finta di nulla davanti alla domanda e passare subito alla successiva.
Ha condannato i nazisti, i lager, il comunismo russo, Mao, ma mai il fascismo.
A capo del partito – e poi del Governo – che ha raccolto le briciole dell’MSI, con una gioventù in Alleanza Nazionale e una ormai storica dichiarazione del 1996 alla tv francese in onore di Mussolini – “è stato un buon politico, il migliore degli ultimi cinquant’anni” (cit) – Meloni è talmente refrattaria nel voler prendere le distanze dalle proprie radici che qualche giorno fa a Bruxelles, al termine del Consiglio Europeo, alla domanda di un giornalista che le chiedeva se si dichiarasse antifascista non ha risposto, lasciando un silenzio piuttosto eloquente davanti a quei microfoni.
In questo meraviglioso panorama, che se non fosse preoccupante farebbe anche ridere, il gioco di risemantizzare alcune parole portato avanti dagli esponenti del Governo Meloni sta purtroppo funzionando.
A forza di ripetere che dichiararsi antifascisti sarebbe come dichiararsi anticomunisti – non serve, vero, che vi dica perché in Italia questa frase non solo non abbia senso, ma sia anche un pessimo, ridicolo, puerile artificio retorico? – si è svuotato il termine legato alla liberazione del nostro paese dal regime mussoliniano.
Continuare a spostare l’attenzione dal tema al suo contorno (la parola, gli altri totalitarismi, la presunta mancanza di complessità, la necessità di apparire sempre come vittime di un complotto della sinistra) sta riuscendo a cancellare la già precaria memoria di un popolo in crisi d’identità.
Unitamente a questa risemantizzazione del termine “antifascismo”, le politiche del Governo Meloni remano nella direzione della censura, ovvero l’alleato più potente di ogni organismo politico con tendenze estremiste.
Prima le nomine Rai, poi l’esodo dalla tv pubblica, poi l’editto – quello “bulgaro” di Berlusconi a confronto fu una passeggiata di salute per la democrazia e il pluralismo di questo paese – con cui sono stati cancellati i palinsesti radio Rai, le voci storiche della televisione di Stato, i programmi scomodi – su tutti quello di Saviano – l’essenza del contraddittorio stesso. Poi la censura del monologo di Nadia Terranova a “Che sarà”, in cui la scrittrice avrebbe voluto parlare delle cariche della polizia a studenti e studentesse durante la manifestazione di Pisa a sostegno del popolo palestinese. Questa censura è passata in sordina rispetto alle altre (sarà perché Terranova è donna? Lancio il dubbio a voi lettori e lettrici, io la mia triste idea la ho già) ma non è meno grave, anzi. Fa ben capire la linea editoriale di Telemeloni.
Fino ad arrivare alla censura di Scurati, che avrebbe dovuto tenere un monologo a “Che sarà”, il programma condotto da Serena Bortone, e che la dirigenza Rai ha cancellato a poche ore dalla diretta prevista.
Il monologo di Scurati verteva proprio sull’incapacità di questo Governo di prendere le distanze da un passato con il quale il nostro paese non ha mai fatto i conti.
Il premio Strega, docente universitario, nonché uno dei maggiori conoscitori e studiosi contemporanei del Ventennio fascista, analizzava come l’inedia nel trattare quella parte della nostra storia abbia fomentato movimenti neofascisti e portato a un tentativo di riscrittura del passato.
Incapaci di ripudiare il fascismo, come Costituzione invece prevede, il nostro gruppo dirigente post-fascista (come lo chiama Scurati e a cui io mi accodo con convinzione) sta cercando di confondere le acque di un paese in crisi. Una crisi sociale, economica e culturale che porta facilmente alla nostalgia di un passato che viene – in primis dagli esponenti di questo Governo – troppo spesso glorificato e mai saldamente condannato o quantomeno dipinto per quello che realmente fu: un disastro di morte, distruzione, violenza e carestia che rovinò il nostro paese, portando alla morte di centinaia di migliaia di persone e alla distruzione di una generazione intera.
Ma questo non è possibile, non è uno scenario contemplabile, perché questo Governo si nutre da sempre del supporto di associazioni, partiti-satellite e movimenti neofascisti.
I resti dell’MSI sono seduti nelle aule del Parlamento, e persone indagate per stragi nere premiate con promozioni (vedasi De Angelis alla comunicazione della Regione Lazio). Casa Pound è stata sorella e alleata di Ministri della Repubblica, Forza Nuova e Casaggì sono i luoghi da cui è partita la militanza del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana: rinnegare il fascismo sarebbe una mossa kamikaze per un organizzazione paragovernativa come questa.
E non solo.
Perché forse queste sono solo tante giustificazioni che mi voglio dare davanti al silenzio e al revisionismo storico portati avanti da questo Governo.
Perché forse la risposta più semplice è anche quella più veritiera e terribile: è infatti impossibile rinnegare il Ventennio per chi è ancora fascista nel 2024.
Alle soglie di questo 25 aprile provo un grosso scontento e una lacerante preoccupazione per quelle che saranno le sorti di questo nostro paese, sempre più vicino al modello ungherese che alle forme virtuose di democrazia.
Mi chiedo cosa direbbe il mio nonno paterno, oggi, vedendo glorificare lo scempio per cui la sua generazione ha dato la vita.
Meloni, Salvini, Valditara, Sangiuliano, Piantedosi e gli altri escapisti di professione non sapranno dire cosa sia davvero l’antifascismo.
Ma io sì. E come me migliaia, centinaia di migliaia di altre persone, centinaia di altri e altre intellettuali, attiviste e attivisti, giornaliste e giornalisti.
L’antifascismo fu il movimento più trasversale della nostra storia politica.
Comunisti, monarchici, cattolici, anarchici, preti, avvocati, contadini, donne, ragazzini, medici, disertori decisero di resistere davanti alla violenza cieca e poco intelligente del fascismo e ci donarono quella che oggi chiamiamo democrazia.
Lo sforzo di un intero paese ci ha regalato con il sangue, e con la Resistenza, lo strumento prezioso che è la nostra Repubblica. Lo stesso strumento con cui questo governo vuole riaffermare ideali e metodologie fasciste.
Ma se Meloni e compari, anziché evitare la storia, l’avessero studiata, saprebbero che nessun popolo davanti all’ingiustizia si fa prendere a lungo per il culo.
E che, di tutte le virtù, quella dell’intelligenza non è tipica dei nostalgici del Ventennio.
Proprio per questo, evidentemente, le voci libere degli intellettuali fanno così paura da meritare la censura.
In questo clima di tensione, un clima in cui si può essere licenziati senza preavviso o censurati per un monologo, sta nascendo per fisiologica risposta un movimento antifascista sempre più eterogeneo e coeso, che ricorda benissimo le radici di questo termine e che non ha mai avuto paura, tantomeno adesso, di urlare a gran voce Viva l’Italia antifascista.
Che questo 25 aprile sia un giorno di festa, di ricordo e di militanza.
Alla faccia di chi ci vuole insegnare una storia diversa dalla nostra.