ARTICOLO n. 20 / 2023

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE

E se per una notte, solo una, la parità fosse davvero realizzata?

Inizia così un mio ormai vecchissimo post, ispirato al lavoro del collettivo transfemminista sudafricano chiamato @girlsagainstoppression.

Decido infatti di tradurre un loro sondaggio, previo consenso da parte delle amministratrici della pagina, rivolgendomi a quella immaginaria audience che è il mio Instagram.

Domando dunque alle donne che mi leggono – per donne intendo sempre tutte le donne, da chi si identifica nel genere femminile a chi è una donna trans e a chi è donna cisgender, poiché alcune – molte, troppe – delle discriminazioni che viviamo ci accomunano tutte – e chiedo loro: se per una notte non esistessero la violenza e le discriminazioni, cosa fareste?

Lo chiedo consapevole dell’ondata di vittimismo maschile piccato che riceverò in risposta, ma so esattamente dove voglio andare a parare, posso perfino immaginare e condividere quelle risposte che mi arriveranno a breve.

Premo invio, il post è online. Dopo pochi secondi iniziano ad arrivarmi le notifiche, una dopo l’altra, come un fiume in piena.

Non faccio in tempo a cliccare su una che ne arrivano altre, a decine. 

È come un diario segreto, la storia di una notte immaginaria che tutte, tutte quante, più di una volta abbiamo sognato con gli occhi aperti.

Le risposte sono devastanti.

Vorrei uscire a correre da sola, di notte. Vorrei vestirmi come meglio credo. Farei un viaggio da sola. Andrei in Interrail da sola. Farei finalmente il figlio che non posso permettermi di avere. Chiederei un aumento. Cambierei lavoro. Avrei una cura per la mia malattia. Guadagnerei di più. Non verrei molestata. Da donna nera, non verrei sessualizzata costantemente. Non mi chiederebbero se faccio sesso a pagamento mentre sto facendo la spesa. Non verrei discriminata in quanto donna trans. Non avrei paura a fare la strada da sola. Non metterei il reggiseno. Non avrei paura a denunciare il mio abuser. Andrei in campeggio da sola. Metterei vestiti corti, non sai da quanto vorrei metterli per uscire ma poi non lo faccio mai perché ho paura. Potrei ubriacarmi senza paura. Potrei camminare con gli auricolari mentre passeggio per strada da sola la sera. Non dovrei girare con lo spray al peperoncino in borsa. Prenderei lo stipendio che merito e che mi spetta. Troverei lavoro. Farei coming out senza paura. Mi sentirei felice di essere rimasta incinta. Farei sesso con chi voglio senza rischiare di passare per puttana. Non userei le chiavi come tirapugni. Metterei i tacchi la sera, tanto non dovrei scappare da nessuno. Firmerei un contratto per approfittare del momento e ricevere la stessa paga di un uomo. Passeggerei di notte. Avrei già abortito, ma non trovo medici non obiettori. Cambierei la legge sul congedo parentale. 

Camminerei per strada la notte: chissà come è bella la città piena di lampioni quando non hai paura. 

Come un fiume in piena mi trovo tramortita dalla quantità di messaggi che ricevo: tutti simili, tutti così puri, tutti incredibilmente agrodolci. 

Se li leggesse un alieno che nulla conosce della nostra società penserebbe che siamo un branco di imbecilli o strafatti di LSD. 

Rimango ferma per un po’, fissando lo schermo che continua a riempirsi di notifiche: voci di donne che raccontano stralci brevissimi delle loro vite, ferite sottili come quelle fatte con la carta, millimetriche ma dolorosissime. 

Sento, riesco a percepire la dolcezza di ogni pensiero che si accompagna a doppio nodo con l’amarezza del sapere di non poter fare nessuna di queste cose, vuoi per una logica e giustificabile mancanza di coraggio, vuoi per una impossibilità strutturale, vuoi per una impossibilità politica. 

Annuso un profumo che conosco benissimo: è familiare questo sentimento di sconforto sognante, ha un cuore di rabbia e una nota di fondo di tristezza quotidiana. 

Sono passati più di due anni da quel post e il sentimento che provo ogni volta che mi pongo la domanda con cui ho iniziato questo mio scritto è sempre il medesimo.

Mi sento sognante, ma ho ancora moltissimo amaro in bocca. 

In questi giorni che precedono l’8 marzo – data in cui uscirà il pezzo che sto scrivendo in questo esatto momento – la discussione sui diritti femminili si fa sempre un po’ più calda. E, con il governo Meloni, si è fatta sicuramente più aspra.

Negli anni abbiamo iniziato a lasciarci dietro il concetto di otto marzo come festa in cui le donne entrano gratis nei club, hanno sconti sugli shot – ma da bere rigorosamente senza mani – e possono infilare banconote negli slip degli spogliarellisti. Eppure, quando si parla di otto Marzo si continuano a non comprendere alcune questioni centrali di quella che storicamente è una giornata di lotta, non di gif animate coi glitter da mandare a tutte le donne che si conoscono (che è una variante degli “auguri a tutte le befane”, immancabile tragedia di ogni 6 gennaio).

Eppure, nonostante ci sia stato un significativo miglioramento nel recepire l’importanza di questa data, il tono della discussione è ancora acerbo, e a tratti piuttosto stupido.

Tra le centinaia di commenti sull’inutilità di una festa come questa “visto che la parità è ormai cosa già raggiunta” (ultimo a dirlo, il tassista che mi ha portata a casa lo scorso sabato sera: mi duole ribadire anche a voi che se così fosse non avrei mai usufruito di un servizio così caro per fare due chilometri di notte), vedo anche proclami politici poco incoraggianti in termini di autodeterminazione della donna.

In questo senso è emblematica la copertina dell’ultimo numero di Grazia, uscito qualche giorno fa, che ritrae il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – non è misgendering, è che mi andava di rispettare le circolari: sanno essere divertenti, di tanto in tanto – affiancata dal titolo “Ragazze, liberiamo il nostro potere”.

Sorvolando sulla non parzialità dell’informazione offerta da Grazia (la direttrice Silvia Grilli è da mesi che endorsaMeloni dalle pagine di un magazine “femminile” che si vanta spesso di essere super partes), quello che possiamo leggere nell’intervista al presidente del Consiglio è un fotogramma incredibile della percezione della disparità di genere, a oggi. 

Da un lato, Meloni attacca la mono e omogenitorialità facendo leva sul suo personale trascorso di vita: terribile e doloroso, ma da qui a farne un modello per lo Stato mi pare vagamente egomaniaco. Segue subito un trafiletto sull’interruzione volontaria di gravidanza, dipinta come esperienza triste, solitaria e dolente: è una narrazione incredibilmente funzionale, per chi sta cercando di svuotare la legge 194 dall’interno. Poco più avanti, possiamo leggere una lunga riposta sulla prevenzione della violenza di genere in cui Meloni elogia la formazione sul tema a polizia e carabinieri e anche gli interventi legislativi per punire chi commette i crimini previsti dalla legge in materia (per precisare, nessuna di queste cose è prevenzione, bensì risoluzione del danno: prevenzione equivale a fare cultura e offrire lavoro e spazi sicuri, ma nessuna delle due voci è presente nel testo). Sul lavoro femminile, tutto tace. Gender pay gap pure. 

Il punto però più interessante è quello in cui Meloni si aggrappa al femminismo per proteggere le donne.

Le parole che usa il presidente del Consiglio sono le seguenti: «Oggi per essere donna si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

È un abbraccio alla linea TERF (femminismo transecludente) che fa intuire che la femminilità (qualsiasi cosa questa parola voglia ancora dire, nel 2023) sarebbe in pericolo.

Di cosa, non ci è dato sapere.

Ma a livello propagandistico funziona bene: sarebbero a rischio le facoltà per cui una donna è ritenuta importante, ovvero quelle riproduttive (che poi sono proprio quelle che spesso ci tengono lontane dal mondo del lavoro), carissime alla destra.

Eppure, non esiste niente di più falso.

E le voci che due anni fa mi hanno scritto quei messaggi sulla notte di libertà – perché quando parliamo di parità parliamo sempre, sempre, ostinatamente di libertà – lo sanno bene.

Sanno bene che le parole di Meloni su Grazia sono propaganda fatta per mantenere intatto il sistema di accesso a numero limitato per i diritti civili e sociali. Sanno anche che pubblicare questa intervista è un ottimo tentativo di pesca a strascico tra le file delle donne, magari lontane dagli ambienti di lotta, che vedendo la parola femminismo possono pensare che finalmente la prima donna al governo farà qualcosa per loro.

Ma in uno Stato in cui l’accessibilità all’interruzione di gravidanza sicura e non giudicante è ormai complicatissimo, in cui il lavoro di cura non retribuito ricade ancora sulle donne (per il 74% del totale), in cui il gender pay gap fa guadagnare ancora il 15% in meno degli uomini a parità di impiego e l’accessibilità dei lavori full time è ancora riservata principalmente agli uomini, capiamo bene quanto non ci servano nuovi nemici da incolpare: abbiamo già i nostri e mi sembrano anche piuttosto determinati.

Viviamo in una condizione che è estremamente precaria su ogni fronte, su ogni diritto di autodeterminazione. Il dibattito è molto attivo e le voci di attiviste, intellettuali e scrittrici sono sempre di più.

In questi anni di dibattito sui temi civili e sociali interconnessi al femminismo si è però venuta a creare una netta spaccatura, soprattutto nella destra e in alcuni ambienti del movimento stesso. 

Da un lato è innegabile che si sia fatta luce su alcuni temi che non possono più essere ignorati, ma dall’altro si cerca di tamponare nuove, legittime, importanti richieste di tutela e inclusione semplicemente facendole passare come pericolose. E, nel primo otto marzo di questa nuova destra al governo, appare subito lampante di quanto ancora abbiamo bisogno di una data di lotta come questa. Ma che sia una data di lotta per tutte.

Se infatti rileggiamo bene l’intervista al presidente del Consiglio, vedremo subito quanto sia subdola la promessa di potere che il titolo di copertina vuol far credere. 

Quel potere non viene infatti mai dato alle donne che vogliono abortire, ad esempio: nel testo Meloni promette aiuti a chi vorrà tenere il bambino, non a chi vuole ricorrere con facilità e sicurezza alla propria autodeterminazione. Nel testo non si cita mai la responsabilità politica del mantenimento del soffitto di cristallo, si invitano invece le ragazze (generico ma, vedendo le sue posizioni TERF, molto cisgender) a impegnarsi per distruggerlo, ignorando ovviamente la questione di classe. Glissando sulla monogenitorialità ignora il dolore di tante di noi donne single, che vorremmo procreare o adottare ma non possiamo. E ignora ancora di più le coppie omogenitoriali, contrapponendole alla famiglia naturale. 

La lotta tra “vere donne” e tutte le altre non esiste, perché ogni rivendicazione è profondamente interconnessa e la matrice – sic – è sempre la stessa cultura patriarcale che si nutre di un capitalismo insaziabile che mette in ginocchio le categorie marginalizzate.

Le donne cisgender non hanno nessuna lotta contro le donne trans. Non siamo in pericolo. O meglio, il pericolo non sono le nostre sorelle trans.

Il pericolo è questa sciapa, scialba, stupida propaganda fatta sulle paure ataviche di una classe dirigente vecchia, stantia, bigotta e borghese, che del perbenismo ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Senza che ce ne rendessimo neanche troppo conto ci siamo ritrovate a doverci accontentare di carezze e pacche sulle spalle, in un continuo, paternalista e petulante coro di “ragazza, se vuoi puoi”.

Se vuoi, puoi.

Ditelo alle donne trans quando si vedono usare come spauracchio da una fazione politica. O che non vengono assunte. 

O alle persone che vorrebbero abortire in regioni piene di medici obiettori.

Alle madri che non possono far altro che abbandonare il lavoro o alle donne che vorrebbero un figlio ma la loro famiglia è arcobaleno. 

Ditelo a chi vorrebbe uscire di sera senza paura, a chi vorrebbe fare un viaggio serenamente, a chi vorrebbe avere il coraggio di denunciare le violenze subite ma non lo fa perché la cultura è inesistente in questo paese. 

Se non facciamo figli è anche perché non possiamo permettercelo. Se non rompiamo il soffitto di cristallo è perché il mondo del lavoro ci schiaccia e quello familiare ci soffoca, perché il carico non viene diviso (anche per colpa dei congedi di paternità inesistenti). Se le donne muoiono non è soltanto perché mancano leggi, ma perché manca cultura. Se non possiamo permetterci di fare coming out è perché viviamo nella paura. Se non possiamo avere tutele speciali contro i reati d’odio è perché alcune categorie sono ritenute ancora invisibili. E non vederlo è impossibile: i corpi delle donne – tutte le donne, mi piace ripeterlo – sono ottimo terreno di propaganda da secoli. Da sempre.

Sulla nostra vita – e sulla nostra fica: sono tutti ossessionati da ciò che abbiamo o meno nelle mutande – si fanno politica e soldi, come se fossimo merce di scambio.

E sottobanco, con il favore delle tenebre – sic bis – hanno provato a farci credere che volere fosse potere e che le donne fossero di nuovo nemiche delle altre donne, come il vecchio adagio ci insegnava.

Il problema è che adesso noi vediamo benissimo anche nel buio, come gli animali notturni.

Abbiamo abitato con paura nel buio per secoli. 

A forza di stare nel buio, abbiamo adattato la vista alla mancanza di luce.

Per questo, nella merda di questo quadro politico attuale di sotterfugi, mascherati più o meno bene, noi ci vediamo benissimo. 

E sappiamo dunque che dell’otto marzo c’è ancora moltissimo bisogno.

La nostra sempre ostinata ricerca della libertà non ci ha mai fermate.

Il mondo è cambiato, e con lui anche i nomi che diamo ai fenomeni e alle cose (nomina sunt consequentia rerum, lo scriveva Dante nella Vita Nova, che ai tempi era ritenuto un pessimo scrittore proprio per le sue forme lessicali innovative: non ditelo ai puristi della lingua italica, verrebbe loro un coccolone).

E con i nomi e i fenomeni di questo nuovo mondo abbiamo bisogno di nuovo spazio.

E in questo spazio i diritti e i nostri corpi non possono essere usati come mezzo di propaganda di una fazione politica o di un frammento ormai morto di movimento.

I diritti ci rendono libere, non averli ci rende ostinate. 

Occhio a quel soffitto di cristallo, che ve lo buchiamo.

ARTICOLO n. 93 / 2024