ARTICOLO n. 8 / 2024

VENEZIA E L’ORIENTE, NOI E MARCO POLO

Pubblichiamo un testo di Giovanni Montanaro dalla nuova edizione di Marco Polo, Il Milione (Marsilio). Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Che cos’è, Venezia? Ogni città è difficile da definire, ma Venezia lo è forse più di altre. Se la sua forza sembra la sua immutabilità, la sua identità, il corpo urbano in apparenza più intatto di tutto l’Occidente, in realtà Venezia è cambiata profondamente nel corso della storia. Nella sua funzione, nella sua essenza e persino nella sua struttura.

Nata come città di profughi e saline, divenuta città di pescatori, quindi emporio dei commerci, delle industrie, e dell’Arsenale più grande fabbrica del mondo, fu poi città degli spettacoli, delle arti e del teatro, nel decadente Settecento, e ancora meta dei grandi viaggiatori stranieri, durante l’Ottocento asburgico e quindi italiano, per diventare poi di nuovo industriale nel Novecento, con la scommessa di Porto Marghera. Oggi, invece, appare segnata da una triste vocazione turistica che a tratti pare irreversibile. 

La sua stagione più gloriosa appartiene certamente al Medioevo, quando Venezia era un impero commerciale senza veri confronti. A segnarne il destino, semplificando, furono due crociate; la prima, nel 1099, che le consentì una prima penetrazione coloniale nei mari. E la quarta, nel 1204, che aumentò in modo esponenziale il suo peso geopolitico nel Mediterraneo fino a farne la feroce dominatrice dell’Adriatico, capace per secoli di impedire a qualsiasi potenza rivale di crescere, perlomeno fino a Bisanzio e poi all’Impero Ottomano. 

Era merito dei veneziani, del sistema di governo, delle loro virtù e abilità, ma era senza dubbio frutto anche della collocazione della città nel mondo. La sua laguna era perfetta per costruire, varare, smontare e rimontare le navi, e per impedire le invasioni dei nemici, anche in assenza di mura. Era la sua natura anfibia a renderla concorrenziale. Senza treni e aerei, senza automobili, l’acqua era la rotta più rapida per i commerci, le comunicazioni, le scoperte. La città che oggi è la più lenta per antonomasia era un tempo invece quella più veloce.

È proprio da quel periodo che Venezia diventa la porta, o meglio il porto, per l’Oriente. Per i veneziani, ma anche per tutti gli Occidentali. C’erano i mercanti, prima di tutto, che andavano nel mondo a prendersi pepe e cotone, aromi, tinture, canapa, lino, lana, allume, ceneri di soda per fare il vetro. C’erano i militari, quando si presentava la necessità di combattere, conquistare, per sopravvivere o più spesso per nuovi affari. E c’erano centinaia di pellegrini, i veri “proto-turisti” dello spirito, con le loro guide odeporiche, le locande, gli itinerari. 

Andavano, tutti, sempre, verso Oriente. Non c’era altra destinazione se si partiva da qui. Certo, non c’era un Oriente solo. Ce n’erano numerosi, via via più remoti, esotici: i Balcani, l’Islam, la Persia, la via della Seta, fino appunto alla Cina.

A Venezia già si percepiva, l’Oriente. Non solo per l’architettura della città, vicina ai bizantini, con ori e colori così diversi dall’Europa profonda da cui tanti partivano. Non solo per la luce del suo cielo, le temperature più miti. Non solo perché per arrivarci bisognava passare l’acqua, e quindi, in qualche modo, già essere partiti, come se Venezia fosse sospesa già molto dentro il viaggio. Ma soprattutto perché, a Venezia, c’era già il racconto dell’Oriente. 

Brulicava nelle taverne, nelle locande, nelle storie dei marinai, nei tessuti e negli oggetti, tra le carte nautiche, nei libri che cominciavano a circolare, nei magazzini, nei depositi, nelle lingue, nei volti segnati da ogni colore, che si incontravano camminando, nei mercati e nelle calli. 

Tra tutti i racconti, c’era per eccellenza il Milione. Pareva tutto magico, quel libro. Nato in fondo per caso, durante la prigionia di Marco Polo, era un’epopea roboante, incantevole, superba. Usi matrimoniali stravolti, ragazze che non era bene che restassero vergini prima del matrimonio, le quattro mogli legittime del Kublai Kan, e poi belle scodelle di porcellana, balene ubriacate con il tonno, cavalli senza osso nella coda, l’Armenia e Shang-Tu, e una contrada senza nome in cui non c’è mai il sole. Quel libro forniva centinaia di informazioni sorprendenti, inaspettate, tanto da pensare che chissà se fosse tutto vero, o se non ci fosse invece qualche inesattezza, qualche bugia. 

Era quasi impossibile da verificare però, perché le due tratte di quel viaggio, andata e ritorno dalla Cina, non le fece quasi nessuno per secoli. Il Milione, in questo modo, raccontava non solo il tragitto verso quella terra, ma proprio il senso stesso dell’Oriente, l’essenza della scoperta della diversità.

In fondo, il Milione raccontava così, prima di tutto, la possibilità di cambiare, di godere una vita diversa, di approdare a un orizzonte ulteriore, in una terra nuova, trovare amici e nemici, e altri mercanti, animali strani, e donne e uomini ancora da conoscere, magari da amare. Scritto da una prigione, raccontava la libertà. Era, esso stesso, viaggio, nel significato più profondo della letteratura.

Aveva, in fondo, la stessa cifra di Venezia. Anche Venezia era un gigantesco Milione, un gigantesco racconto, una promessa di futuro. Perché indicava l’Oriente, perché conteneva l’Oriente. Perché qui si veniva per cambiare vita, per cercare fortuna, per scappare dalla prigione, da una moglie, per salvarsi in qualche modo dalla vita. Perché si pensava che fosse Dio, a volerlo, magari, o l’Imperatore. O, soltanto, perché ogni tanto prende la voglia di andare, di cominciare a navigare. 

Venezia è sempre stata, così, la porta d’Oriente, l’inizio del sogno. Con l’Oriente, la città avrebbe mantenuto un rapporto ambiguo, felice e bellicoso insieme, fatto di commerci, battaglie, inusitate alleanze. Lo sarà per tutta la durata della Serenissima e anche dopo la caduta, divenendo uno dei tramiti (pur subalterno a Trieste) del Lombardo-Veneto. E nel Novecento sarà una vedetta di fronte ai Balcani comunisti, quando l’Oriente era la cortina di ferro. E ancora oggi è, insieme a tutto il Veneto, capoluogo di una regione di viaggiatori, esploratori, uomini d’affari, delle imprese che vendono, e poi crescono, o talvolta delocalizzano, impiantando stabilimenti fino alla Cina, all’Oriente di oggi che si chiama Est. 

Certo, Venezia oggi è tutta diversa. Quello che era il più grande e importante porto del mondo è soltanto il settimo in Italia. Quella che era una delle città più popolose ha soltanto 50.000 abitanti che fronteggiano venti milioni di turisti. È una città di altra misura; minima, lieve. Soprattutto, unica. Per la sua fruizione solo pedestre. Per la bellezza senza paragoni. Per il suo essere fragile, minacciata dalla deriva turistica e dall’innalzamento dei mari. Per l’essere forte, però, robusta, tutt’altro che disponibile ad arrendersi, nel mezzo di trasformazioni per salvarla dalla scomparsa.

Così, mai come oggi Venezia rappresenta una diversità, una frontiera. Un diverso modello. È quasi come se la città fosse diventata, in qualche modo, una specie di Oriente essa stessa. Un Oriente per tutto il mondo. Nel tempo globalizzato, sempre più uguale nonostante le profonde differenze, è come se Venezia potesse ancora rappresentare un’alternativa.

O, perlomeno, come è sempre stata, come è il Milione, un desiderio. Di trovare un altro mondo. Di cambiare. E poi, chissà, forse, anche di ritornare. 

ARTICOLO n. 93 / 2024