ARTICOLO n. 65 / 2021

VEGETARIANI, PERCHÉ?

Vegetariani, perché? Gli animali soffrono, ecco perché. Gli animali soffrono, anche se noi siamo così ciechi e così sordi da non rendercene conto, e da non volerlo sapere.

Sappiamo bene che la dieta vegetariana è di gran lunga più salutare di quella onnivora. Sappiamo anche, ormai, che il pianeta non è più in grado di sopportare l’alimentazione carnivora di molti miliardi di umani. Eppure queste consapevolezze non bastano. La ragione potente, e sconvolgente, della scelta vegetariana è e rimane sempre questa: gli animali soffrono, e la loro sofferenza è una ferita irrimediabile per le nostre coscienze.

Quando ero un giornalista alle prime armi, il capocronista del quotidiano per cui lavoravo, a Bologna, mi mandò un giorno a fare un’inchiesta sul mercato-macello della città. Ordine, pulizia, quel grande campo di uccisione di bovini mi apparve subito come una macchina efficiente e perfetta. C’erano dei lunghi corridoi delimitati da sbarre di metallo, che dal piazzale di sbarco degli animali immettevano nell’edificio della mattanza. Gli addetti sospingevano i bovini nei corridoi, e quelli docilmente s’incamminavano verso la morte. Ma a quel punto qualcosa accadeva, sempre. La macchina perfetta s’inceppava. Dopo alcuni passi, gli animali capivano. Sentivano l’odore del sangue e della morte.  S’impuntavano, recalcitravano, muggivano, e nei loro occhi si dipingeva il terrore. Era come se implorassero pietà. Gli adulti cercavano di proteggere i vitellini. Uno degli addetti mi confessò: «Anche se ormai li abbattiamo sparandogli il chiodo nella fronte, e la loro morte è istantanea, a queste scene non ci si può comunque abituare.»

Era l’aprile del 1975, e fu da allora che la mia decisione di diventare vegetariano divenne irrevocabile. Sono passati quarantasei anni, e non me ne sono mai pentito. Si può vivere magnificamente senza mangiare carne! Senza farsi complici di quell’orrore, di quella sofferenza. Perché gli animali sono nostri fratelli, hanno anima, sensibilità e intelligenza. Chi lo nega non sa, semplicemente, quello che dice. E chi afferma che, comunque, il sacrificio degli animali è necessario, è indispensabile, semplicemente afferma il falso. Non mi pongo sul piano dell’ideologia: sto solo parlando di un dato di fatto. Ignoro e detesto ogni forma di fanatismo, di estremismo fondamentalista. Mi appello unicamente al puro principio della non violenza. Principio che, strano a dirsi, non è affatto ideologico, ma fondato su un pragmatismo etico elementare.

Approfondiamo dunque il tema, perché è questo l’unico argomento che, in fin dei conti, veramente conta. C’è nel saggio La persona e il sacro, di Simone Weil, una pagina stupenda, che pone in modo perfettamente concreto la questione della violenza. La Weil si chiede: «Che cosa, esattamente, m’impedisce di cavare gli occhi a quell’uomo, se ne ho il permesso e ciò mi diverte?» E la risposta è di una semplicità disarmante: «Ciò che riuscirebbe a trattenere la mia mano è il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi la sua anima sarebbe straziata dal pensiero che gli viene fatto del male.» Ma una forma di questo “pensiero”, di questa consapevolezza del male, esiste anche negli animali: quando quelle povere bestie vengono sospinte al macello, la loro mente percepisce in modo estremamente chiaro la prossimità di quel male, di quella sofferenza, e dell’annientamento della loro vita.

In ciò consiste l’abominio della violenza. Nella negazione di un diritto elementare che non solo gli esseri umani posseggono, ma tutte le creature senzienti e in vario grado coscienti: il diritto a ricevere il bene, e a non subire il male. Il diritto a non soffrire. Estendere questo diritto agli animali non può definirsi un’utopia. Altrimenti che senso avrebbe dichiararsi veramente “umani”? E a chi protesta paventando il rischio di cadere in un “animalismo deviato”, potenzialmente disumano – la tipica obiezione di chi immancabilmente ricorda che Adolf Hitler era vegetariano –  si può sempre rispondere con la dolce ironia francescana di un Aldo Capitini, che alludendo appunto a quel sospetto di ambigua utopia invitava al rigore dell’impegno etico col sorriso: «perché non siamo maniaci e sappiamo la differenza che c’è tra la vicinanza che possiamo stabilire con una persona e la vicinanza con un animale: sorridiamo, ma procediamo con fermezza.»

Ed è questo un pensiero ben presente in tutta la tradizione filosofica fautrice del vegetarianismo, dall’antichità fino ai nostri giorni. Pensiamo solo alle pagine terribili che un Plutarco, o un Tolstoj, ci hanno lasciato per descrivere lo strazio degli animali nei momenti del massacro e dell’agonia. Ecco Plutarco: «Noi crediamo che i suoni e le strida che gli animali emettono siano voci inarticolate, e non piuttosto preghiere, suppliche e richieste di giustizia… che crudeltà!» Ecco Tolstoj, testimone inorridito di una macellazione: «Quando il colpo falliva, il bue s’impennava, muggiva e grondante sangue cercava di liberarsi dalle mani dei macellai… Ogni volta che si prendeva un bue e lo si tirava per una corda attaccata alle corna, il bue, fiutando il sangue,  s’inarcava, muggiva e indietreggiava, sì che due uomini non avevano la forza di tirarlo; allora uno dei macellai gli tirava la coda, gliela torceva fino a spezzarla e la bestia avanzava.»

Eppure è in Porfirio di Tiro, nel suo trattato sulla Astinenza dagli animali – scritto in greco a Lilibeo verso la fine del terzo secolo – che questo tema cruciale trova la sua esposizione più compiuta e forse insuperata. Quello che Porfirio ci vuol dire è che la pietà per gli animali non può derivare solo dalla convinzione che nelle loro anime alberghino delle forme di razionalità, per quanto inferiori alla ragione umana. La pietà di Porfirio travalica la visione antropocentrica; non è soltanto intellettuale, ma deriva essenzialmente da una profonda e viva empatia verso le creature viventi che sentono, vedono, comprendono, e soffrono e gioiscono coscientemente come noi, e patiscono terribilmente il dolore fisico, e l’umiliazione e la paura, il terrore della morte violenta, delle percosse e della lacerazione delle loro membra.

Ecco un passo rivelatore dell’Astinenza: «Gli animali sono per natura così costituiti da avere percezione, soffrire, avere paura, subire danni, e perciò anche l’ingiustizia… Ma quando vediamo molti uomini vivere soltanto guidati dal senso senza far uso dell’intelletto e della ragione, e inoltre molti superare le bestie più terribili in crudeltà, in collera, in avidità… come non è assurdo pensare che abbiamo rapporti di giustizia con essi, mentre non ne abbiamo nessuno con il bue aratore, il cane che partecipa della nostra casa, le pecore che ci nutrono con il loro latte e ci vestono con la loro lana? Come non è tutto ciò assolutamente contrario alla ragione?»

Oltre la pietà, la giustizia, dunque. Come nel nostro tempo diranno Peter Singer (Liberazione animale, 1975) e Tom Regan (I diritti animali, 1983). L’ecologismo, la dietologia, e perfino la gastronomia, possono fornire armi potenti, e ormai forse indispensabili, alla causa vegetariana. Ma senza pietà, e senza giustizia, quella bella utopia continuerà a vivere come un sogno senz’anima.

ARTICOLO n. 88 / 2024