ARTICOLO n. 79 / 2024
Di Van Jensen
UNA GIGANTESCA ZUCCA DI HALLOWEEN
Pubblichiamo un estratto da Godfall (Atlantide) il romanzo di Van Jensen da oggi in libreria per la traduzione di Alessandra Osti. Ringraziamo l’editore per la disponibilità
Alla luce della luna, la pozza di sangue brillava nera. David si accovacciò e scrutò il terreno e la boscaglia attraverso uno squarcio di circa un metro. Sembrava profonda, tanto da poterci finire dentro e venirne sputato fuori in Cina o in Australia. Nel punto più lontano possibile dal Nebraska, dovunque fosse. «Sceriffo. Dov’è andata secondo te?».
David si appoggiò su un ginocchio, che si era irrigidito non appena arrivato il freddo, un ricordo del menisco rotto durante una partita di football alle superiori, una decina di anni prima. La sua corporatura muscolosa era evidente anche sotto al pesante giaccone marrone, sulla cui schiena era stampato in giallo, “Dipartimento dello Sceriffo”. David superava il metro e ottanta, e lo Stetson nero che aveva in testa lo faceva sembrare ancora più alto. Indossava dei blue jeans, come sempre. Il vento lo sferzava, spilli contro la faccia.
Era la sua solita maledetta sfortuna, che a qualcuno fosse venuto in mente di fare una cosa come quella in una notte così gelida. Accese la torcia, e con la luce la pozza di sangue sembrò prendere vita. Lì accanto, Gentry Luwendyke teneva le braccia incrociate sulla giacca di montone. Quando espirava, da sotto ai baffi ispidi usciva una nuvola di vapore, subito spazzata via dal vento di febbraio. Con la torcia David tracciò degli archi lenti. A una decina di metri, la luce cadde su una striscia rossa. «Sembra andare da questa parte», disse.
Proseguì da una chiazza di sangue all’altra, che diventavano sempre più piccole e che formavano una linea quasi retta verso la fila buia degli alberi a ovest del campo. L’erba e la salvia della prateria erano ricoperte di brina e scricchiolavano come pezzi di vetro sotto ai loro stivali. Quando raggiunsero il bosco di cedri e di eleagni, la traccia si era ridotta a singole gocce.
Nello stomaco di David stava montando la rabbia, che bruciava fino a che ne avvertì il calore sotto al giaccone; sudava, nonostante il freddo. Era stato qualcuno a farlo. Qualcuno l’avrebbe pagata. Strinse la torcia. No. Non adesso, si disse. Poteva arrabbiarsi più tardi. Adesso doveva concentrarsi su quello che doveva fare. Dove era andata? «Qua».
David la vide per primo, stesa su un fianco in una radura. Sembrava morta, poi il petto le si sollevò e si riabbassò, mentre dalle narici le usciva un filo spettrale di vapore. Lui si chinò, attento a non calpestare il sangue che scorreva per terra. Poi appoggiò la torcia sull’erba, per illuminarla, e si levò i guanti.
«Figli di puttana», sibilò Gentry.
«Una fucilata. L’ha colpita qui», disse David, facendo scorrere le mani lungo il pelo morbido dell’addome della mucca. Il colpo le era entrato nelle viscere. Dio solo sapeva quale organo avesse raggiunto; se ne stava andando in fretta.
«Figli di puttana», ripeté Gentry, più forte. All’improvviso la vitella sbuffò ed ebbe uno spasmo. Scalciò per trovare un appoggio. David cadde all’indietro e si scostò mentre lei si sollevava sulle zampe, riuscendo quasi a raddrizzarsi. Poi barcollò e ricadde. Si riavvicinarono.
«Non deve soffrire più», disse Gentry.
«No, non deve», concordò David.
«Lo faccio io. È la mia mucca». Gli occhi di Gentry erano puntati sulla Glock nove millimetri nella fondina sul fianco destro di David, che aprì la custodia di cuoio e tirò fuori l’arma, maledettamente fredda nella mano.
«No. Nessuno può usare la mia pistola. Sono le regole». Si avvicinò alla testa della mucca. Respirava forte, dal naso e dalla bocca le usciva una schiuma di muco e sangue. I suoi occhi di ossidiana lo supplicavano, non riusciva a capire il dolore che era dentro di lei, il caos del mondo, l’orrore della vita e quello ancora più grande di qualsiasi cosa che sarebbe venuta dopo. David non aveva risposte. Le appoggiò la canna sulla tempia e fece fuoco.
Il pick-up procedeva sullo sterrato pieno di solchi. Sotto la luce della luna, David avrebbe potuto benissimo non accendere i fari. Le strade correvano dritte in direzione est-ovest, nord-sud, una griglia tracciata nella campagna. Aveva trascorso quasi tutti i suoi trent’anni di vita lì, e ne conosceva tutti gli smottamenti, le curve, sapeva quali fossero senza uscita. E da quando era stato eletto sceriffo tre anni prima, sapeva anche troppo bene ciò che accadeva all’interno delle fattorie in fondo a ognuno di quei sentieri.
Mentre guidava, ripensò a ciò che era successo. Gentry aveva sentito dei colpi di fucile. Era uscito e aveva visto nel pascolo un pick-up con un faro sul tetto. Poi aveva trovato il sangue. Era sicuro che qualcuno l’avesse fatto apposta, magari un vicino spinto da qualche vecchio rancore. Che ci fossero persone a Little Springs che detestavano Gentry Luwendyke era fuori questione. Che qualcuna di queste potesse sparare nella pancia a una mucca era improbabile.
Era più facile che qualcuno con una cassa di Pabst o di Old Milwaukee buttata sul pavimento del pick-up, fosse entrato nel pascolo, cercando con il faro, sperando di beccare un daino o un cervo. L’aveva fatto anche David quando era giovane e stupido.
Dopo un po’ di birre, da lontano, una mucca sembra un daino. In città, di pick-up con un faro ce n’erano sei. Quattro appartenevano a persone che non avrebbero potuto fare stronzate del genere. Il quinto era dei Johnson, e magari il loro figlio sarebbe stato capace di fare una cosa così, ma erano tutti a far visita ai nonni nell’Ozark. Ne restava uno, e David sapeva dove trovarlo.
Si spostò sull’autostrada a due corsie, che correva in direzione est e ovest parallelamente al Platte River. Davanti a lui, le luci della città scintillavano. Ai piedi dei silos torreggianti, un cartellone verde dichiarava. “Little Springs, abit. 731”. Ogni dieci anni, dopo il censimento, c’era un nuovo cartellone con la popolazione che diminuiva sempre di più.
Girò su Main Street, un tratto di asfalto crepato largo abbastanza da contenere sei corsie, tanto da poterci far stare i carri tirati dai cavalli che nel secolo precedente entravano in città ogni fine settimana portando gli agricoltori e i loro raccolti. Su entrambi i lati, le vetrine dei negozi sulle desolate facciate di mattoni erano coperte da compensato. All’estremità più lontana svettava la torre idrica.
Anni prima, il consiglio comunale aveva deciso di ridipingerla a ogni stagione, tanto per portare un po’ di allegria. Il tentativo però era stato abbandonato poco dopo, e la torre adesso sembrava una gigantesca e malevola zucca di Halloween.
Un bar era ancora aperto, e la sua insegna al neon era accesa: Vic’s. David scrutò i veicoli parcheggiati lì davanti. Eccolo. Un Dodge blu con delle ruote enormi, e una barra sull’abitacolo su cui era attaccato un faro. Parcheggiò lì accanto e sbirciò dal finestrino.
C’erano lattine di birra accartocciate per terra. Un fucile sistemato sul lunotto posteriore. Provò la portiera. Aperta. Frugò sotto all’unico sedile e tirò fuori una scatola di cartucce. Ne mancavano un po’. Ne prese una, se la infilò in tasca ed entrò nel locale.
Il Vic’s consisteva in un unico ambiente. Il bar era a destra. A sinistra c’erano alcuni separé. Due biliardi. Le pubblicità al neon di birre e le plafoniere con lampadine diverse gettavano una cacofonia di luci colorate tra le nuvole di fumo di sigaretta. La solita gente.
Tute da lavoro e jeans, per la maggior parte persone piuttosto robuste, con la pelle secca e screpolata, per la nicotina o il vento perenne, o per entrambe le cose. Al centro del bar, un uomo massiccio con i capelli biondi cortissimi alzò lo sguardo all’ingresso di David e si girò verso di lui. «Guarda, guarda! Una birra per il nostro sceriffo!». «Ehi, cugino», replicò David, mettendosi accanto a lui al bancone.
Prima che David potesse impedirglielo Vic, il barista, gli spinse accanto una bottiglia di Bud Light e un bicchierino di whisky. «Sono in servizio». «Giusto», asserì Jason, con il suo solito sorriso da stronzo. «Beh, qui non ci stanno problemi, e va bene così».
All’altro lato di Jason c’era Spady, con i capelli neri che gli spuntavano da sotto un cappello da baseball dei Nebraska Huskers, e la barba ispida di un paio di giorni che gli segnava la faccia livida.
Spady non era un loro parente, ma era cresciuto insieme a loro come se lo fosse stato. Stava fumando una Marlboro che teneva nella mano sinistra, poi la posò su un portacenere prima di usare la stessa mano per bere dalla sua bottiglia di Bud. La manica destra della camicia era cucita al gomito, dove finiva il braccio.
Aveva lavorato alle ferrovie dai tempi delle superiori fino all’incidente, e adesso gli restava soltanto l’indennizzo per la disabilità. «Roba grossa?», domandò Spady. David si rese conto che la sua mano tremava ancora da quando aveva sparato. Sorrise e scosse la testa. «Niente di che».